Essere Oss significa lavorare soprattutto con umanità

“Quello che mi rimane sono gli sguardi, i ringraziamenti di parenti e pazienti, le rassicurazioni che dono loro ogni giorno tenendogli la mano e la tranquillità che riesco a infondere loro è la più grande soddisfazione personale e professionale.” In una lettera di ringraziamento è racchiusa l’essenza dell’essere operatori socio sanitari: “lavorare soprattutto con umanità, perché dietro la nostra divisa ci siamo noi: persone con il nostro vissuto.”

Cosa significa essere Oss

Essere Oss significa lavorare con professionalità, dedizione ma soprattutto umanità. Alzarsi ogni giorno con la stessa convinzione e motivazione del primo giorno di lavoro, avendo cura della propria salute psico-fisica.

Sensibilità, responsabilità ci accompagnano ogni giorno, mi accorgo sempre di piccole sfumature del carattere delle persone. Discrezione, dignità ed esperienza tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

Ma dietro la nostra divisa ci siamo noi: persone con il nostro vissuto, la nostra sensibilità che ci aiuta sempre ad affrontare tutto nel migliore dei modi, empatia quello che ci richiede ogni giorno il nostro mestiere.

Saper fare, saper essere ma soprattutto saper ascoltare il segreto per compiere il nostro operato al meglio accompagnato da correttezza, ma soprattutto trasparenza. Quello che mi rimane sono gli sguardi, i ringraziamenti di parenti e pazienti, le rassicurazioni che dono loro ogni giorno tenendogli la mano e la tranquillità che riesco a infondere loro è la più grande soddisfazione personale e professionale.

E quando un turno risulta pesante?

C’è sempre qualcuno che ci aiuta ad affrontarlo ed a farci tornare il sorriso: un collega fidato, un amico o una persona cara. Così si torna a lavoro più forti e motivati di prima, cercando di infondere sicurezza.

“Un piccolo grande grazie” alle persone che mi hanno insegnato tanto; ai miei pazienti, ai miei colleghi ma soprattutto al mio Direttore.

Il coronavirus durante e dopo la gravidanza

Quali sono le precauzioni e cosa succede alle future madri malate di COVID-19.

La pandemia da coronavirus sta mettendo sotto forte pressione il sistema sanitario italiano, che oltre a doversi occupare delle migliaia di ricoveri per COVID-19 deve garantire altri servizi essenziali di assistenza, come la gestione delle gravidanze. La presenza di così tanti casi positivi negli ospedali ha reso necessaria l’adozione di nuove precauzioni per tutelare le donne incinte e i loro figli, riducendo inoltre il rischio che il coronavirus sia trasmesso ai nuovi nati anche nel caso in cui la madre sia risultata infetta.

Ricerche
Finora non sono stati prodotti molti studi scientifici sulle gravidanze e la COVID-19. Una ricerca realizzata in Cina, dove è iniziata l’epidemia a fine 2019, non ha evidenziato la presenza del coronavirus (SARS-CoV-2) nel sangue del cordone ombelicale, nel liquido amniotico e nel latte materno. Non ci sono inoltre evidenze circa la trasmissione del coronavirus dalla madre al feto durante la gravidanza: il contagio sembra eventualmente avvenire dopo la nascita, in seguito ai contatti tra madre e figlio.

Le ricerche scientifiche sono ancora poco significative, perché basate su un numero estremamente limitato di casi, e per questo il ministero della Salute italiano ha di recente diffuso una circolare [pdf] agli operatori sanitari, illustrando le pratiche da adottare per ridurre il rischio di contagio madre-figlio, e per tutelare il più possibile la salute delle donne incinte con COVID-19.

Percorso nascita
Il ministero coordina il cosiddetto “Percorso nascita”, fornendo indicazioni e linee guida alle aziende sanitarie locali che si occupano poi concretamente di dare assistenza durante il periodo della gravidanza e del parto. Le prestazioni sono naturalmente garantite anche in questo periodo straordinario, ma con maggiori precauzioni. I controlli periodici, per esempio, possono essere resi meno frequenti a seconda dei casi, in modo da ridurre gli afflussi negli ospedali in un momento in cui sono sottoposti a grandi stress. Meno controlli e verifiche a distanza riducono inoltre i rischi per la futura madre, che può stare alla larga da strutture sanitarie potenzialmente fonti di contagio.

COVID-19 e gravidanza
Le donne incinte che sviluppano sintomi tali da fare sospettare una COVID-19 possono consultarsi con il loro medico curante, che può poi consigliare una visita presso un pronto soccorso ostetrico. L’area deve essere attrezzata in modo da garantire un luogo isolato dal resto della struttura, dove il personale possa lavorare in condizioni di sicurezza con tutte le protezioni individuali del caso.

Per accertare l’effettiva presenza del coronavirus, la gestante viene sottoposta a un prelievo di saliva e muco tramite un tampone naso-faringeo che viene poi testato in laboratorio. La procedura è prevista nel caso in cui la paziente mostri difficoltà respiratorie e provenga da un’area in cui è nota la presenza del coronavirus, oppure nel caso in cui sia stata a stretto contatto con casi certi o sospetti di COVID-19 nelle due settimane precedenti. Il ministero ha inoltre disposto che il tampone sia eseguito: “A tutte le donne gravide con quadro clinico suggestivo di infezione respiratoria che necessitino di ricovero ospedaliero” senza la presenza di altre malattie che potrebbero spiegare le loro condizioni cliniche.

Dopo il prelievo, le pazienti devono attendere l’esito del test nella struttura, che deve garantire l’isolamento. Se l’esito è positivo e viene quindi accertata la presenza di COVID-19, la struttura può disporre il trasferimento della paziente in punti nascita più grandi e attrezzati (“Hub”), nei quali sarà seguita per valutare e trattare l’eventuale evoluzione della malattia.

Parto
Stando alle informazioni finora raccolte dagli ospedali e dai pochi studi scientifici disponibili sul tema, non ci sono motivi per ritenere che il parto cesareo sia da prediligere rispetto a quello vaginale. Il ministero consiglia comunque di valutare le condizioni della paziente prima di fare la scelta, come del resto viene sempre fatto.

Per le madri risultate positive è poi richiesto il prelievo di un campione di placenta e la conservazione degli annessi fetali (membrane ovulari, placenta, cordone ombelicale e liquido amniotico) per eventuali analisi successive. Il neonato deve essere inoltre sottoposto da subito a un tampone naso-faringeo, in modo da assicurarsi che alla nascita sia negativo.

Rapporto madre-neonato
Il rapporto tra madre e neonato nei primi giorni dopo il parto è molto importante, e per questo il ministero consiglia di privilegiare la “gestione congiunta di madre e neonato, ai fini di facilitare l’interazione e l’avvio dell’allattamento materno”.

Nel caso in cui la madre manifesti pochi e lievi sintomi della malattia, gli operatori possono gestire madre e figlio insieme nella stessa stanza. Dovranno accertarsi che la madre rispetti le indicazioni per ridurre al minimo il rischio di contagiare il figlio: lavarsi spesso e bene le mani, indossare una mascherina chirurgica quando allatta. Le stesse precauzioni devono essere applicate nel caso in cui sia necessario il prelievo meccanico del latte o nel caso in cui si faccia ricorso a latte umano donato.

Se invece la madre mostra sintomi più rilevanti della COVID-19, confermata dal test di laboratorio, allora la gestione deve avvenire separatamente in modo da non esporre a rischi inutili il neonato. Gli operatori potranno provvedere al prelievo del latte dalla madre con tiralatte, in modo che non sia interrotto l’allattamento naturale. Non ci sono infatti evidenze sulla possibilità che il coronavirus sia presente nel latte materno.

Le cose naturalmente cambiano nel caso in cui la madre sviluppi sintomi più gravi che rendono necessario l’utilizzo di farmaci, che potrebbero essere passati al neonato. In questo caso il ministero consiglia di ricorrere comunque al latte materno, ma da donatrici.

Neonati positivi
Il coronavirus causa sintomi gravi soprattutto nelle persone anziane, spesso con problemi di salute precedenti, mentre non sembra essere particolarmente rischioso per i più piccoli. Finora i casi segnalati di sintomi importanti nei bambini sono stati estremamente rari. Nel caso in cui un neonato o un lattante risultasse positivo alla COVID-19 e sviluppasse poi sintomi gravi, sono previsti il ricovero nelle unità di terapia intensiva neonatale per aiutarli soprattutto con la respirazione, in attesa che il loro sistema immunitario riesca a tenere sotto controllo il coronavirus.

Operatori sanitari infetti, Inail: è infortunio sul lavoro

I contagi da nuovo Coronavirus di medici, infermieri e altri operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale e di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Inail, avvenuti nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, sono tutelati a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. Lo ha specificato proprio l’Inail in una nota indirizzata alle strutture centrali terriotriali.

Infezione da Covid-19 per sanitari tutelata come infortunio sul lavoro

Medici, infermieri, operatori socio sanitari e tutti gli operatori di qualsiasi struttura sanitaria pubblica o privata che abbiano contratto il coronavirus – in presenza di un rischio specifico commisurato in base al dato epidemiologico territoriale – saranno equiparati agli infortunati sul lavoro nel caso in cui sia accertata (o anche solo presunta) l’origine professionale del contagio, avvenuto nell’ambiente di lavoro o per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

L’Azienda sanitaria locale o la struttura ospedaliera/sanitaria privata di appartenenza del personale infortunato, in qualità di datori di lavoro pubblico o privato, debbono assolvere all’obbligo di effettuare, come per gli altri casi di infortunio, la denuncia/comunicazione di infortunio all’Inail. Resta fermo, inoltre, l’obbligo da parte del medico certificatore di trasmettere all’Istituto il certificato medico di infortunio.

Sono tutelati dall’Inail anche gli eventi infettanti accaduti durante il percorso casa lavoro e viceversa, configurabili quindi come infortuni in itinere.

Cos’è la febbre

Cosa sappiamo – e come lo abbiamo scoperto – dell’aumento della temperatura dei nostri corpi.

Uno dei sintomi più comuni della COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è la febbre, ma la febbre non è necessariamente un sintomo della COVID-19: si può avere la COVID-19 senza febbre (e con sintomi lievissimi) così come si può avere la febbre senza che questo sia per forza segno di una infezione da coronavirus.

In questi giorni scoprire di avere qualche linea di febbre può fare una differenza impensabile fino a qualche mese fa, ma ci sono ancora tante cose che non sappiamo sulla temperatura corporea umana: a cominciare dal fatto che non esiste un singolo valore per il quale si possa parlare davvero di “febbre” in modo univoco. E anche una volta che si sceglie un certo valore, è difficile fare misurazioni davvero precise e omogenee.

La prima cosa da dire sulla febbre è che è un sintomo di qualcos’altro, non una malattia “indipendente”. Per capirlo, però, ci è voluto molto tempo: «Per la maggior parte della storia umana», scrisse l’Atlantic qualche anno fa, «una temperatura corporea insolitamente alta era considerata un segno del soprannaturale». Gli stati febbrili, allora ancor più che ora, erano però piuttosto comuni, al punto che nell’antica Roma c’erano addirittura templi in cui si andava appositamente per chiedere alla dea Febris un qualche tipo di intervento divino che aiutasse la guarigione. La febbre, tra l’altro, era a suo modo paradossale: a cominciare dal fatto che si era caldi ma si sentiva freddo.

Per millenni la febbre continuò a essere considerata come qualcosa di diverso da un semplice aumento della temperatura corporea, e si faticava a capire che fosse un sintomo e non un qualche tipo di morbo o malattia. Non si capiva, inoltre, come fosse possibile che una febbre alta potesse a volte passare velocemente mentre altri stati febbrili più moderati potessero non passare e, in certi casi, avere gravissime conseguenze. Nei secoli, l’esperienza e lo studio aiutarono a migliorare un po’ le cose.

Già nel Diciottesimo secolo il medico italiano Francesco Torti realizzò un “albero delle febbri“, per provare a distinguere i vari tipi di stati febbrili. Ma ancora nel Diciottesimo e nel Diciannovesimo secolo i giornali erano pieni di pubblicità di prodotti per “curare la febbre”, ed era frequente leggere di persone “morte per febbre” o di città in cui era “arrivata la febbre”: come se a diffondersi contagiando sempre più persone fosse quella, e non la malattia che spesso la causava. Tracce di queste idee restano ancora oggi nel fatto che, per esempio, parliamo del tifo itteroide come della “febbre gialla“.

Nel tentativo di curare il sintomo, senza capire (e quindi trattare) la malattia, si finì spesso per fare gravi danni alla salute di chi si voleva curare. Con il passare del tempo si capì infine che la febbre era una reazione del corpo a qualche altro tipo di problema: mentre si capiva cosa fare per provare a far scendere la febbre si capì, soprattutto, che bisognava anche capire cosa l’avesse causata.

Oggi possiamo dire che dal punto di vista medico la febbre è una «condizione patologica temporanea che modifica la temperatura organica di riferimento, alterando il livello della normale termoregolazione corporea su una soglia di valori più alta». Questa condizione in genere segue un particolare decorso – le cui fasi sono note come accensione, fastigio e defervescenza – e che può manifestarsi in modi diversi (può cioè essere costante oppure avere anche oscillazioni e intermittenze).

La febbre, spiega il sito dell’Humanitas, ospedale e centro di ricerca di Milano, è «un segnale che l’organismo sta cercando di controllare fenomeni anomali, solitamente di natura infettiva», ma in certi casi può avere anche altre cause. Per regolare la propria temperatura – che è ottenuta grazie al modo in cui le cellule processano le sostanze nutrienti – l’organismo ha diversi mezzi: l’aumento o la diminuzione della circolazione sanguigna, il sudore o i brividi.

Semplificando molto le cose, il centro di controllo della temperatura di un organismo – il nostro termostato – è l’ipotalamo, alla base del cervello. In normali condizioni usa i mezzi a sua disposizione per regolare la temperatura in base alle informazioni che gli arrivano dalle terminazioni nervose. In caso di infezioni l’ipotalamo aumenta la temperatura corporea perché alcune molecole gli fanno sapere, attraverso il nostro flusso sanguigno, che c’è qualcosa che non va: che bisogna fare qualcosa per stimolare il sistema immunitario e creare un contesto più ostile a eventuali agenti infettivi (per lo più virus e batteri). La febbre, quindi, è una sorta di messaggio di allerta.

È invece impossibile dire con esattezza dove inizi la febbre. L’Humanitas parla di «temperatura corporea normale compresa tra 36 e 37,2 gradi». In relazione al coronavirus, l’NHS, il sistema sanitario britannico, scrive che in genere si può parlare di febbre quando la temperatura è superiore ai 37,8 °C. Il CDC, il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica statunitense, parla invece di 100 gradi Fahrenheit, cioè poco più di 37,7 °C.

Sul sito dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si trovano un documento di gennaio che invita a fare attenzione a quando la temperatura del corpo supera i 38 °C e uno più recente che, tra i sintomi possibilmente collegati al coronavirus, mette la “febbre bassa” e dice che è da considerarsi febbre qualsiasi caso in cui la temperatura corporea sia superiore ai 37,3 °C.

Il ministero della Salute italiano, invece, ricorda che «ai soggetti con febbre superiore a 37,5 gradi è fortemente raccomandato di rimanere a casa e limitare al massimo i contatti sociali». La regione Lombardia dice che con una temperatura superiore ai 37,5 °C non si può andare a fare la spesa e che nel caso di «operatori sanitari» (ai quali andrebbe fatta la «rilevazione della temperatura corporea prima dell’inizio del turno di lavoro») «il rilievo del rialzo della temperatura oltre i 37,5 °C comporta l’effettuazione del tampone nasofaringeo per ricerca di SARS-CoV-2 e l’allontanamento dal luogo di lavoro con sospensione dell’attività lavorativa».

Non c’è un dato giusto e uno sbagliato: la temperatura corporea dipende da molti fattori legati alla persona e da luogo, modo e strumenti con cui la temperatura viene rilevata. Ci sono studi che dicono che sulla temperatura influiscono, tra le altre cose, l’ora del giorno (è più alta di sera), il sesso, il peso, l’indice di massa corporea (più è alto, più può essere alta la temperatura), l’età (gli anziani tendono ad avere una temperatura corporea un po’ più bassa) e anche diverse situazioni ambientali (stare in casa col cappotto è diverso che stare in maglietta all’aperto). La stessa persona, al cambiare di poche variabili, può avere temperature diverse.

Inoltre, due misurazioni fatte alla stessa persona variano a seconda del termometro usato e del punto in cui si misura la temperatura. La temperatura rettale, ovviamente, è più alta di quella orale e ascellare, a loro volta leggermente più alte di quella rilevata direttamente sulla pelle. Ogni tipo di misurazione ha i suoi vantaggi e svantaggi (anche legati alle situazioni e al tipo di invasività richiesto).

È certo, comunque, che la misurazione “a distanza” fatta con i termometri a infrarossi (quella a cui si viene in genere sottoposti al lavoro, per strada o al supermercato nel caso di controlli legati al coronavirus) sia la meno precisa di tutte. Come ha scritto il New York Times, questi termometri «tendono a essere inaffidabili se usati fuori da contesti medici attentamente controllati». James Lawler, esperto di medicina, ha detto che quando era in Africa occidentale durante l’epidemia di ebola gli capitò spesso che quei termometri dicessero che stava praticamente per morire di ipotermia, visto che la temperatura che rilevavano erroneamente era di 35 °C, ben al di sotto di quella che sappiamo essere la temperatura media del corpo umano.

Ma anche su quale sia esattamente la giusta temperatura media ci sono molti dubbi. L’importanza che diamo al valore simbolico dei 37° C ha molto a che fare con misurazioni fatte intorno alla metà dell’Ottocento, in un periodo storico in cui la scienza medica era ancora piuttosto incerta, dal medico Carl Reinhold August Wunderlich. Sulla base di circa 25mila misurazioni, Wunderlich concluse infatti che la temperatura ideale del corpo umano fosse appunto di 37 °C.

Per quanto fossero meticolosi per gli standard del tempo, dagli studi di Wunderlich sono cambiate molte cose (compresa la precisione dei termometri) e negli ultimi anni sono arrivati studi che parlano di temperature corporee medie più basse, seguiti a loro volta da una ricerca pubblicata da eLife secondo cui a cambiare è stata proprio la temperatura media dei nostri corpi, che con il passare dei decenni si sarebbe abbassata. Questi cambiamenti sarebbero influenzati dai diversi stili di vita (è possibile che l’avvento di sistemi di condizionamento e riscaldamento, negli ambienti in cui trascorriamo più tempo, abbia influito sulla nostra termoregolazione) e dal miglioramento nel trattamento di diverse malattie (una cosa che, nel complesso, ha diminuito la frequenza degli stati infiammatori e di conseguenza i meccanismi che comportano una temperatura corporea più alta).

È presto per dire con certezza se e quanto siamo diventati più caldi, ma è sicuro che –nonostante il termometro esista già da secoli e sia da decenni «una delle icone delle medicina moderna» – il coronavirus ha dato alla febbre un’importanza che per la maggior parte delle persone ormai aveva smesso di avere. Parlando al New York Times, l’epidemiologo Waleed Javaid ha detto: «Penso che finiremo col decidere che, così come certe persone si misurano la pressione per tenerla sotto controllo, dovranno anche misurarsi la temperatura in condizioni normali». Julie Parsonnet, esperta di malattie infettive, ha ricordato però che la temperatura è solo un numero e un fattore, tra tanti altri. Così come un’alta temperatura non sempre è sinonimo di malattia, si può essere malati anche senza febbre.

Il sangue dei convalescenti contro il coronavirus

Gli ospedali di New York lo useranno sui malati di COVID-19, anche se non sono ancora completamente chiari benefici ed efficacia del sistema.

Nello stato di New York i casi rilevati da coronavirus sono oltre 33mila e le morti più di 300. Il personale sanitario nei principali ospedali newyorkesi segnala una situazione ormai critica, con reparti pieni di pazienti e terapie intensive senza posti letto disponibili, simili ai racconti dagli ospedali nel Nord Italia, che ormai da settimane affrontano il grande afflusso di casi gravi da COVID-19. In attesa di avere farmaci efficaci contro il coronavirus e un vaccino, alcuni ospedali di New York stanno avviando una sperimentazione clinica di ultima risorsa: le trasfusioni di sangue da pazienti convalescenti.

L’iniziativa riprende esperienze simili condotte in Cina nei mesi scorsi, ma sulle quali si attendono ancora dati chiari per comprenderne l’efficacia. Un approccio simile era stato seguito in passato per trattare i pazienti affetti da altre malattie come Ebola e SARS, una sindrome respiratoria causata da un coronavirus con alcune cose in comune con l’attuale. La pratica di usare il plasma, la parte liquida del sangue, a questi scopi è del resto piuttosto antica: era stata sperimentata con alterni successi durante l’epidemia influenzale da H1N1 nel 1918 (la cosiddetta “influenza spagnola”).

A differenza di altre soluzioni, il vantaggio di utilizzare il plasma dei convalescenti è dato dalla sua immediata reperibilità, rispetto a nuovi trattamenti farmacologici e vaccini che devono essere sperimentati a lungo prima di dimostrarsi sicuri ed essere approvati. Le trasfusioni di plasma sono sicure, posto naturalmente che siano effettuati tutti i test necessari prima di procedere sui malati di COVID-19.

Come con altre malattie infettive, la guarigione dalla COVID-19 avviene quando il sistema immunitario impara a riconoscere il coronavirus, impedendogli di continuare a replicarsi nell’organismo facendo danni. In molti pazienti, la carica di anticorpi contro il virus rimane consistente nei giorni della loro convalescenza e i medici confidano di sfruttare questa condizione, effettuando prelievi del loro sangue ricco di anticorpi per iniettarlo nei nuovi malati.

La possibilità di utilizzare il plasma dei convalescenti era stata sostenuta a fine febbraio da Arturo Casadevall, un immunologo della Johns Hopkins University (Baltimora, Maryland), attraverso un editoriale pubblicato sul Wall Street Journal. L’articolo aveva attirato l’interesse e la collaborazione di diversi medici e ricercatori statunitensi, che in poco tempo avevano prodotto documenti e analisi necessari per chiedere alle autorità federali statunitensi l’approvazione del trattamento. Il permesso è arrivato il 24 marzo, con l’avvio di un sistema di analisi e controllo delle esperienze cliniche con il plasma negli ospedali.

Gli ospedali Mount Sinai e Albert Einstein College of Medicine saranno tra i primi ad avviare l’impiego del plasma nella città di New York. La sperimentazione sarà condotta su pazienti risultati positivi al coronavirus: i medici decideranno a seconda dei casi, e segnaleranno poi le loro valutazioni in modo che le informazioni restino condivise nella comunità scientifica.

Non è ancora chiaro quanto questa soluzione possa essere efficace contro la COVID-19, soprattutto per mancanza di informazioni nella letteratura scientifica. Uno studio svolto in Cina su 13 pazienti con sintomi gravi ha fatto rilevare l’assenza del coronavirus dopo pochi giorni dalla trasfusione, ma le condizioni dei pazienti sono comunque peggiorate, forse perché la trasfusione era avvenuta tardivamente.

Per questo uno dei tre protocolli che saranno sperimentati prevede di procedere con le trasfusioni negli stadi iniziali della malattia, valutando in questo modo quanti casi progrediscano ugualmente fino a rendere necessario il ricovero in terapia intensiva. Un secondo protocollo prevede di effettuare le trasfusioni nei casi gravi, mentre il terzo valuterà l’efficacia del sistema nella sua forma preventiva, da impiegare con le persone rimaste a stretto contatto con un individuo infetto. Se le trasfusioni si rivelassero utili per ridurre il rischio di contrarre la malattia, o di sviluppare sintomi gravi, potrebbero essere impiegate per gli ospedalieri riducendo le carenze di personale dovute ai contagi.

Anche se si rivelassero efficaci, le trasfusioni non sarebbero comunque una soluzione definitiva e stabile per la COVID-19. Il loro impiego è visto soprattutto come una possibilità per ridurre i casi gravi, soprattutto tra le persone a rischio, evitando il sovraffollamento negli ospedali. Il plasma potrebbe inoltre offrire un’alternativa temporanea, in attesa dell’approvazione di nuovi protocolli di cura con farmaci esistenti, dello sviluppo di nuovi medicinali e di vaccini contro il coronavirus.