Cosa rende così contagioso il coronavirus

I ricercatori stanno studiando il meccanismo con cui si lega alle cellule del nostro organismo per replicarsi, in modo da sviluppare farmaci per bloccarlo.

Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus a gennaio, nel mondo sono stati segnalati oltre 120mila casi positivi e più di 4mila morti: 80mila solo in Cina, dove è iniziata la crisi sanitaria, e più di 10mila in Italia. I motivi del progressivo aumento dei casi è legato sia alle strategie adottate dai singoli paesi per affrontare il contagio – in alcuni casi con soluzioni carenti o che hanno inizialmente sottostimato il rischio – sia alle caratteristiche stesse del coronavirus, sulle quali i ricercatori stanno compiendo studi e analisi per comprendere come faccia a diffondersi facilmente.

L’attuale coronavirus è mediamente contagioso e lo è di più rispetto a quello che causa la SARS, un’altra sindrome respiratoria grave, e con il quale sembra essere imparentato. In un paio di mesi ha infettato dieci volte il numero di persone che avevano contratto la SARS. Capire i meccanismi con cui si lega alle cellule per replicarsi potrebbe essere la chiave per produrre vaccini e farmaci, essenziali per ridurre la letalità della malattia (COVID-19) causata dal coronavirus.

Come gli altri virus, anche i coronavirus sfruttano per replicarsi le cellule degli organismi che infettano: sulla superficie delle capsule che contengono il loro materiale genetico, hanno minuscole punte che ricordano quelle di una corona (da qui il nome “coronavirus”). Le punte sono costituite da una proteina che si lega alla membrana cellulare, sfruttando un processo che viene attivato da un enzima della cellula (in pratica fa da portinaio). Sfruttando questo meccanismo, il coronavirus può avere accesso alla cellula, iniettarvi il suo codice genetico (RNA) e sfruttare poi gli organuli cellulari per replicarsi. Le copie prodotte lasciano poi la cellula, andando a infettarne altre.

Diversi gruppi di ricerca nelle ultime settimane hanno notato che l’attuale coronavirus ha una particolare proteina sulle sue punte, diversa da quella che si trova solitamente sugli altri coronavirus. L’ipotesi è che questa proteina abbia un punto di attivazione adatto a reagire con la furina, un enzima della cellula che ha proprio il compito di rimuovere alcuni pezzetti delle proteine per renderle attive (spesso le proteine sono inattive quando vengono prodotte dalla cellula e diventano attive solo dopo l’intervento di un enzima che elimina una loro sezione).

La furina è presente nelle cellule di numerosi tessuti del nostro organismo, come i polmoni (dove il coronavirus può causare molti danni, come dimostrano i casi gravi di polmoniti dovute alla COVID-19), il fegato e parte dell’intestino. Secondo Li Hua, ricercatore presso l’Università di Scienze e Tecnologie Huazhong di Wuhan – la città dove è iniziata l’epidemia – questo potrebbe spiegare perché sono stati segnalati casi di pazienti con sintomi gravi al fegato oltre che ai polmoni. Insieme ai suoi colleghi, Li ha realizzato un’analisi genetica del coronavirus, notando che altri coronavirus parenti stretti dell’attuale non sfruttano la furina.

Gary Whittaker, virologo presso la Cornell University (Stati Uniti), ha spiegato al sito di Nature che l’attivazione tramite la furina: «Rende il coronavirus differente da quello della SARS in termini di meccanismo di entrata nelle cellule, e potrebbe influenzare la stabilità del virus e la sua capacità di trasmettersi». Insieme ai colleghi, Whittaker ha pubblicato a febbraio un’analisi strutturale della proteina sulle punte dell’attuale coronavirus.

Il punto di attivazione è stato oggetto di diversi altri studi nelle ultime settimane, diventando uno dei principali indiziati per provare a spiegare la capacità del coronavirus di diffondersi facilmente tra la popolazione, e di replicarsi in maniera così efficiente nelle persone infette. La furina viene del resto sfruttata anche nei meccanismi di replicazione di altri virus, come alcuni di quelli influenzali (che non sono però coronavirus).

Le nuove ricerche hanno aperto un confronto acceso tra i virologi, con alcuni che hanno invitato a non arrivare a conclusioni azzardate, ricordando che per ora gli studi sono preliminari e richiederanno ulteriori approfondimenti. Per avere informazioni più chiare saranno necessari test di laboratorio su campioni cellulari e su cavie, in modo da verificare meglio il meccanismo di attivazione che apre al virus la possibilità di entrare nelle cellule. Whittaker e colleghi stanno per esempio sperimentando un sistema per modificare il punto di attivazione, per verificare se in questo modo la proteina sulla punta del coronavirus riesca o meno a mantenere la propria funzione.

Li sta invece lavorando su alcune molecole da impiegare per bloccare la furina, in modo da rompere il legame con il coronavirus. Nel suo caso gli studi sono rallentati dal fatto di trovarsi a Wuhan, città che solo ora dopo un paio di mesi di isolamento inizia lentamente a tornare alla normalità

Altri ricercatori stanno intanto studiando gli altri meccanismi che il coronavirus sfrutta per legarsi alle membrane cellulari, eludendo i sistemi di sicurezza delle cellule per evitare di essere contaminate. La loro identificazione potrebbe consentire di sviluppare farmaci per impedire al coronavirus di legarsi alle membrane cellulari e di inserire all’interno delle cellule il suo RNA.

Fare come la Cina ci aiuterà contro il coronavirus?

L’estensione delle restrizioni contro il coronavirus (SARS-CoV-2) a tutta Italia, annunciata lunedì sera dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, non ha precedenti nella storia del nostro paese ed è ampiamente ispirata alle strategie adottate da più di due mesi in Cina, dove l’epidemia è iniziata nella zona di Wuhan. Dopo avere registrato oltre 80mila casi positivi, da tre giorni in Cina non risultano nuovi contagi da coronavirus fuori dalla regione di Hubei in cui si trova Wuhan, dove lunedì sono stati segnalati appena 17 nuovi casi positivi.

Per ottenere questo risultato la Cina ha dovuto impegnare risorse enormi e limitare pesantemente la libertà di movimento di milioni di persone, con conseguenze pesanti e discusse per quanto riguarda la censura delle opinioni e il controllo della popolazione. Il risultato ottenuto nel contenimento del coronavirus è però evidente, e per questo viene osservato con attenzione dalle autorità sanitarie di altri paesi, compresa l’Italia.

Bruce Aylward è un medico con un’esperienza trentennale nell’affrontare crisi sanitarie legate a malattie infettive come ebola e la poliomielite. Di recente ha visitato la Cina come capo delegazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), avendo la rara opportunità di verificare l’efficacia delle misure assunte dal governo cinese e le attività svolte dalle autorità sanitarie. Ha raccontato la sua esperienza al New York Times, offrendo un punto di vista terzo e neutrale sull’epidemia da coronavirus in Cina, con spunti che aiutano a capire che cosa potrà succedere nelle prossime settimane anche da noi.

Dati e progressi
La riduzione dei nuovi casi da coronavirus segnalati dalla Cina è stata giudicata sospetta da alcuni osservatori, considerata la scarsa trasparenza del governo cinese e alcuni precedenti di scarsa collaborazione con le autorità sanitarie internazionali. Aylward ha spiegato di avere visitato diversi laboratori e cliniche, ricevendo informazioni incoraggianti dagli operatori locali sul fatto che la situazione fosse ormai “diversa da tre settimane fa”. Al momento del massimo dell’epidemia c’erano in media 46mila persone che necessitavano di un test per il coronavirus; ora sono all’incirca 13mila e ci sono ospedali con posti letto disponibili.

Aylward ha confermato di non avere notato nulla di strano e che potesse far pensare a una manipolazione dei dati. La dinamica appare piuttosto chiara: un’epidemia che ha raggiunto velocemente il suo picco e che poi è diminuita più veloce di quanto ci si attendesse. Nel mezzo, milioni di persone non sono stati coinvolti proprio in virtù dell’approccio molto aggressivo e drastico da parte delle autorità cinesi.

Isolare e prevenire
Per quanto riguarda i contagi, i dati della Cina suggeriscono che nel 75-80 per cento i contagi interessano nuclei familiari: «Trovi casi di contagio isolati negli ospedali, nei ristoranti e nelle prigioni, ma la grande maggioranza deriva dalle famiglie», ha spiegato Aylward. In Cina provvedono quindi a isolare i membri delle famiglie infetti il prima possibile, in modo da ridurre i rischi di nuovi contagi, e poi vanno alla ricerca di tutti i potenziali contagiati da quella persona nei due giorni precedenti.

L’approccio cinese non è stato semplicemente “bloccare tutto per settimane”, ma ha previsto diversi livelli di prevenzione. È stata comunicata insistentemente alla popolazione la necessità di lavarsi spesso le mani e di evitare i contatti sociali; sono stati spiegati inoltre i sintomi della COVID-19, la malattia causata dal coronavirus.

Poi si è passati a una fase molto articolata di identificazione dei singoli casi sospetti, per esempio attraverso la misurazione della febbre nei luoghi pubblici, e anche sulle autostrade e strade principali. All’identificazione di ogni caso e di possibili contagi, le autorità hanno provveduto a chiudere scuole, teatri e ristoranti. La chiusura totale ha riguardato solamente Wuhan e un certo numero di città circostanti, determinando comunque l’isolamento di decine di milioni di persone (l’area di Hubei è densamente popolata).

Diagnosi e assistenza medica
Quando sono diventate chiare le dimensioni dell’emergenza sanitaria, il governo cinese si è dato da fare per semplificare la gestione dell’assistenza medica. In poche settimane circa la metà dei consulti medici è stata eseguita tramite Internet, in modo che le persone potenzialmente malate non dovessero raggiungere gli ospedali e gli ambulatori, causando ulteriori contagi. Per le persone con necessità particolari, come insulina per trattare il diabete o farmaci per patologie cardiache, è stato approntato un sistema per ottenere le ricette online e farsi consegnare a casa i farmaci.

Le persone sospettate di essere contagiate venivano portate in ambulatori appositi, dove il personale sanitario rilevava la febbre, verificava la gravità degli altri sintomi e i precedenti sanitari. Ai casi sospetti veniva poi chiesto di spiegare nel dettaglio gli spostamenti svolti nelle settimane precedenti e di elencare i contatti avuti con altre persone. Per completare la diagnosi, ogni paziente veniva poi sottoposto a una TAC (tomografia assiale computerizzata) ai polmoni, per verificare il loro stato.

A differenza della comune influenza, la COVID-19 può causare infezioni serie nelle parti più profonde delle vie respiratorie, che portano poi a polmoniti atipiche difficili da trattare (nei casi più gravi). A differenza di una normale radiografia, la TAC consente di avere un quadro clinico più completo, analizzando nel dettaglio le strutture dei polmoni ed eventuali problemi causati dal coronavirus. Nelle cliniche per le diagnosi cinesi ogni macchina per la TAC arrivava ad analizzare fino a 200 pazienti in un giorno, un ritmo molto alto se si considera che normalmente in un ospedale si fanno dalle 2 alle 5 TAC all’ora in periodi di forte richiesta.

Al termine di questa valutazione, se il caso rimaneva sospetto, si procedeva con un tampone per verificare la presenza del coronavirus. Nelle prime settimane erano necessari giorni per avere un risultato, perché c’erano pochi laboratori a occuparsene, le cose sono poi migliorate al punto da richiedere in media 4 ore dal momento del tampone a quello del risultato.

Nelle cliniche per le diagnosi si è comunque assistito a un grande affollamento, perché molte persone arrivavano con sintomi che ritenevano essere legati alla COVID-19. Molte di loro venivano rispedite a casa dopo una valutazione perché avevano banalmente l’influenza stagionale e non la malattia causata dal coronavirus: è per esempio raro che la COVID-19 causi naso che cola e congestione delle vie aeree superiori.

Come abbiamo appreso dalle cronache nei mesi di gennaio e febbraio, naturalmente in Cina non è andato sempre tutto liscio dal punto di vista della valutazione dei casi sospetti. In pochi giorni, per esempio, le autorità sanitarie hanno cambiato almeno due volte il modo in cui svolgevano le diagnosi e quindi la comunicazione degli effettivi nuovi casi positivi al coronavirus. Il sistema di rilevazione si è poi stabilizzato e non ha comunque mai ricevuto critiche da parte dell’OMS, che con il suo personale ha vigilato (fin dove possibile) sulle attività del governo cinese.

Le persone con sospetta COVID-19 e in attesa dell’esito del test non venivano comunque rispedite a casa, ma venivano isolate altrove proprio per evitare ulteriori contagi nelle loro famiglie. All’inizio, quando c’erano difficoltà con i test, questo comportava che migliaia di persone dovessero attendere fino a 15 giorni prima di essere ricoverate (la malattia si manifesta entro un paio di settimane dal momento in cui si è contratto il coronavirus).

Da diverse settimane, le persone con sintomi lievi da COVID-19 vengono tenute in centri di isolamento. Sono stati allestiti in posti come palazzetti dello sport e palestre, e in alcuni casi hanno fino a un migliaio di posti letto. Per le persone con sintomi seri o gravi è invece previsto il ricovero in ospedale. Si è inoltre deciso che le persone con COVID-19 e problemi di salute pregressi siano da subito ricoverate, così come quelle che hanno un’eta sopra i 65 anni.

Ospedali dedicati
Dopo le prime settimane di grande caos e forte stress per le strutture ospedaliere, soprattutto a Wuhan, le autorità cinesi hanno riorganizzato l’intero sistema. Gli ospedali migliori e con grande capacità sono stati assegnati per il trattamento esclusivo dei pazienti con sintomi seri e gravi da COVID-19, chiudendo le sale operatorie e rinviando gli interventi non urgenti. I pazienti con altri problemi di salute, e negativi alla COVID-19, sono stati trasferiti in altri ospedali e cliniche, che gestiscono traumi e altre emergenze cliniche. Questa separazione ha permesso di ridurre il rischio di nuovi contagi negli ospedali, per i pazienti ricoverati per altri problemi di salute.

Aylward ha spiegato di avere visitato ospedali che in alcuni casi appaiono migliori di quelli in Svizzera, dove ha sede l’OMS. In alcune strutture ospedaliere erano disponibili fino a 50 ventilatori (i macchinari per assistere la respirazione dei pazienti) e cinque ECMO (per la circolazione extracorporea), un numero superiore rispetto a quello che si trova generalmente in un ospedale occidentale.

Mobilitazione
Il governo cinese si è fatto carico dell’intera spesa per realizzare nuovi ospedali, creare cliniche per le diagnosi, potenziare le strutture sanitarie esistenti e ingrandire i laboratori per aumentare i test. Ha spesso l’equivalente di decine di miliardi di euro per farlo, assicurando a tutti i pazienti la copertura delle spese per essere diagnosticati e trattati. Complice la propaganda, il governo è riuscito inoltre a stimolare una grande reazione con decine di migliaia di volontari, che si sono dati da fare soprattutto a Wuhan per assistere la popolazione.

E proprio a Wuhan, dove le limitazioni erano tali da impedire alla popolazione di uscire di casa quasi sempre (erano previste eccezioni per un membro di ogni nucleo familiare ogni due giorni), Internet si è rivelata una risorsa preziosa soprattutto per la distribuzione del cibo. Quindici milioni di persone hanno ordinato periodicamente la spesa online, non sempre è andato tutto liscio, ma nel complesso nessuno è rimasto senza rifornimenti.

La chiusura delle scuole nelle aree con maggiori contagi in Cina ha contribuito a rallentare l’epidemia, considerato che diversi studi suggeriscono che i bambini siano meno interessati dalla COVID-19, ma siano comunque veicolo di contagio. Le lezioni sono proseguite online, seppure con qualche difficoltà organizzativa.

Governo totalitario e democrazie
In Cina l’assetto è sostanzialmente totalitario, con enormi poteri e ampi margini in mano al governo per decidere in che misura limitare le libertà della popolazione, compresa quella di potersi spostare ed esprimersi liberamente. Anche per questo motivo molti osservatori sostengono che le misure di contenimento, molto drastiche, attuate dal governo cinese non possano essere ripetute altrove, in paesi con governi democraticamente eletti.

Aylward ha spiegato che l’immagine trasmessa spesso dai media di un paese in cui la popolazione ha paura del governo andrebbe rimodulata:

Ho parlato con molte persone fuori dal sistema: negli alberghi, sui treni, nelle strade in giro la notte. Si sono mobilitati, come in guerra, ed è la paura del virus che li fa andare avanti. Si sono davvero visti in prima linea al fronte per proteggere il resto della Cina. E del mondo. […]
Ci dev’essere un cambiamento nel modo di pensare a una risposta rapida. Pensi di alzare le mani e arrenderti? È un azzardo morale, un giudizio del tutto discrezionale. Chiediti: puoi fare questa cosa? Puoi isolare 100 pazienti? Puoi rintracciare mille persone? Se non puoi, [il coronavirus] scoppierà attraverso la popolazione.

Tornare alla normalità
Ora che i nuovi casi positivi sono diminuiti così tanto, in Cina si inizia un lento ritorno alla normalità, tra grandi cautele e precauzioni per evitare che riprenda il contagio. Questa sorta di grande riavvio sta avvenendo in maniera coordinata tra le province: alcune manterranno ancora a lungo le scuole chiuse, altre stanno consentendo ad alcuni impianti industriali di riaprire, altre ancora di riaprire i flussi di lavoratori dalle altre zone della Cina.

La città di Chengdu nel Sichuan, per esempio, ha circa 5 milioni di lavoratori prevenienti dal resto della Cina. Queste persone potranno tornare dopo avere ricevuto un certificato medico e dovranno sottoporsi a periodici controlli, per misurare la febbre. A Pechino, le persone di ritorno dovranno sottoporsi a una quarantena di due settimane, per assicurarsi che non siano infette e possano poi contagiare i colleghi sul posto di lavoro.

E in Italia?
Su una scala differente, diverse misure assunte in Cina sono state adottate anche in Italia, soprattutto per quanto riguarda l’isolamento delle persone e la chiusura dei principali luoghi di aggregazione sociale, come stadi, cinema, centri culturali, scuole e università. Per gli esercizi commerciali l’approccio italiano è per ora più morbido: bar e ristoranti possono rimanere aperti nelle ore centrali del giorno, a patto che facciano servizio ai tavoli e si assicurino che i clienti mantengano la distanza di un metro, mentre non ci sono particolari limitazioni per i negozi nei giorni feriali.

La suddivisione delle strutture sanitarie tra ospedali esclusivamente per COVID-19 e ospedali per altre malattie appare al momento poco praticabile, considerata la disponibilità sul territorio delle strutture ospedaliere e il modo in cui sono organizzate. Negli ospedali, per quanto possibile, sono comunque state organizzate aree separate dove trattare le persone contagiate, e punti di diagnosi esterni ai pronto soccorso, per evitare contatti con gli altri pazienti.

Dall’inizio dell’epidemia, le autorità sanitarie italiane hanno raccomandato alle persone con sintomi sospetti di rimanere a casa, e contattare il loro medico curante o i servizi sanitari regionali. Questo ha permesso di ridurre i rischi di nuovi contagi in ospedale, ma ha reso difficile il tracciamento delle persone malate, che non ha raggiunto livelli finora comparabili a quelli cinesi. Il mancato isolamento dai nuclei familiari degli infetti potrebbe inoltre comportare un numero più alto dei contagi, con maggiori rischi soprattutto nelle famiglie con persone anziane.

Soprattutto in Lombardia, gli ospedali sono sotto forte stress per il cospicuo numero di persone con COVID-19 che hanno bisogno di assistenza medica. I reparti di terapia intensiva sono al colmo in diversi ospedali, e questo rende più difficile il trattamento dei pazienti gravi, che necessitano per esempio di essere intubati. Il governo ha avviato un piano per aumentare strumentazioni e macchinari di terapia intensiva, ma all’aumentare dei casi potrebbe essere comunque difficile offrire assistenza a tutti.

Una ricerca realizzata a Wuhan su 25mila casi positivi al coronavirus ha di recente messo in evidenza come le politiche di isolamento, anche piuttosto drastiche, abbiano contribuito a ridurre significativamente il numero di persone infettate in media da un soggetto già infetto. Questa riduzione è importante per fare in modo che l’epidemia rallenti e che, infine, raggiunga livelli tali da non costituire un problema per le strutture ospedaliere.

Un rallentamento implica infatti un minor numero di contagi e di conseguenza di persone con sintomi gravi, che avranno poi necessità di un ricovero e di trattamenti in terapia intensiva (un reparto per sua natura con pochi posti). Rimanere a casa, secondo lo studio, ha avuto quindi un ruolo importante nel ridurre i contagi nell’area di Wuhan, e i dati sugli ultimi giorni sembrano confermarlo ulteriormente.

Cosa c’è nel decreto del governo sul coronavirus

Le scuole saranno chiuse fino al 15 marzo, le altre misure resteranno in vigore fino al 3 aprile

Mercoledì sera il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha firmato un decreto del governo con le «misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi» del coronavirus (SARS-CoV-2). Il decreto rimarrà in vigore fino al 3 aprile. Il testo completo si trova sul sito del governo, qui.

Com’era già stato comunicato nel tardo pomeriggio, le lezioni nelle scuole e nelle università saranno sospese in tutta Italia da giovedì 5 marzo fino al 15 marzo. Le scuole e le università continueranno a rimanere completamente chiuse solo nella cosiddetta zona rossa, quella per i comuni del Veneto e della Lombardia per cui è stato deciso l’isolamento (la sospensione delle lezioni non significa che le scuole saranno chiuse: resteranno accessibili a docenti, dirigenti e personale amministrativo).

Il decreto prevede «la possibilità di svolgimento di attività formative a distanza». Le scuole sono infatti invitate ad attivare «modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità». Saranno inoltre sospesi «i viaggi d’istruzione, le iniziative di scambio o gemellaggio, le visite guidate e le uscite didattiche».

Il decreto precisa anche che «sono esclusi dalla sospensione i corsi post universitari connessi con l’esercizio di professioni sanitarie, ivi inclusi quelli per i medici in formazione specialistica, i corsi di formazione specifica in medicina generale, le attività dei tirocinanti delle professioni sanitarie, nonché le attività delle scuole di formazione attivate presso i ministeri dell’interno e della difesa».

Il telelavoro – o smart working – potrà essere applicato dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato.

Gli eventi e le competizioni sportive saranno consentiti solo senza pubblico, ad eccezione della zona rossa, dove continueranno a essere vietate completamente. Si potrà fare sport nelle palestre, nelle piscine e nei centri sportivi a patto che sia possibile consentire una distanza personale di almeno un metro.

Lo stesso vale per «le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali»: sono consentiti solo quelli che permettono di mantenere tra le persone la distanza di sicurezza di un metro.

Il decreto stabilisce anche misure informative e di prevenzione dirette alle scuole, agli operatori sanitari, alle amministrazioni pubbliche e ai singoli cittadini. Indica infine alcune misure igienico-sanitarie da rispettare, che sono quelle prescritte dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS): lavarsi spesso le mani ed evitare di portarle al viso; starnutire o tossire in un fazzoletto o nell’incavo del gomito; evitare abbracci, strette di mano e contatti fisici; non scambiarsi bicchieri e bottiglie; pulire le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol; indossare la mascherina solo se si sospetta di essere malato o si assistono persone malate.

Quanto resiste il coronavirus sulle superfici?

Sappiamo che i coronavirus restano attivi fuori dagli organismi almeno per ore, in alcuni casi giorni: per questo è importante pulire le superfici e lavarsi le mani.

Il nuovo decreto del governo per il “contenimento e la gestione” dell’emergenza sanitaria legata al coronavirus approvato domenica prevede, tra le altre cose, “interventi straordinari di sanificazione dei mezzi” del trasporto pubblico in tutta Italia. Provvedimenti simili sono stati assunti in altri paesi dove i contagi sono in aumento e sono considerati un’utile precauzione, in attesa di sapere con maggior chiarezza per quanto tempo riesca a rimanere attivo il coronavirus sulle superfici all’esterno di un organismo.

Virus e superfici
In generale, i virus restano attivi per diverso tempo dopo che sono usciti da un organismo e prima di infettarne un altro (in questa condizione sono virioni, particelle indipendenti). Questa capacità varia notevolmente a seconda dei tipi di virus e naturalmente delle condizioni ambientali.

Quelli che interessano le nostre vie aeree, come l’attuale coronavirus, si diffondono attraverso le piccole gocce di saliva che produciamo quando parliamo, tossiamo e starnutiamo. Queste goccioline possono raggiungere direttamente un’altra persona, causando il contagio, oppure possono depositarsi sulle superfici o essere depositate dall’infetto, per esempio se tocca qualcosa dopo essersi tossito o starnutito nella mano.

Le superfici più esposte sono quelle toccate più di frequente da molte persone, come le maniglie delle porte, le pulsantiere degli ascensori o i sostegni cui aggrapparsi sui mezzi del trasporto pubblico. Toccandoli, si può entrare in contatto con il virus depositato inconsapevolmente da qualcun altro: riesce poi a farsi strada nell’organismo, se per esempio ci si tocca la faccia (occhi, naso, bocca) con le mani sporche.

Quanto resistono i coronavirus sulle superfici
Da un paio di mesi migliaia di ricercatori in tutto il mondo stanno studiando le caratteristiche del coronavirus che causa la COVID-19, malattia che ha ormai interessato oltre 90mila persone, soprattutto in Cina dove sono stati registrati i primi casi alla fine del 2019. Oltre a studiare il modo in cui il virus si replica negli organismi, alcuni ricercatori hanno iniziato a compiere test ed esperimenti per valutare il tempo di quiescenza del coronavirus all’esterno degli organismi (cioè per quanto resiste prima di non essere più pericoloso).

Una risposta definitiva non è stata ancora trovata, ma una ricerca ha messo a confronto gli studi più rilevanti sui coronavirus condotti in passato, per identificare un arco temporale di massima. L’analisi delle 22 ricerche ha messo in evidenza che il coronavirus che causa la SARS, e che ha diverse cose in comune con quello attuale della COVID-19, può rimanere attivo su superfici poco porose come metallo, vetro e plastica fino a 9 giorni. Il coronavirus che causa la MERS ha capacità simili, così come altri coronavirus che infettano gli animali e non gli esseri umani.

E l’attuale coronavirus?
Non è ancora completamente chiaro quanto duri l’attuale coronavirus sulle superfici, ma ci sono comunque indizi consistenti sul fatto che possa rimanere attivo per diverso tempo fuori dagli organismi.

Quando sono stati registrati alcuni casi da coronavirus a Hong Kong in un tempio buddista, le autorità sanitarie locali hanno raccolto campioni da maniglie, lavandini e altri oggetti, sui quali è poi risultata la presenza del virus. Era quindi passato diverso tempo dal momento in cui le superfici erano state infettate, anche se non sappiamo di preciso quanto.

Le variazioni delle condizioni ambientali possono influire molto sulla capacità dei coronavirus di resistere sulle superfici, condizione che rende più complicate stime e previsioni sulla loro durata.

Disinfezione
Come molti altri virus, anche il coronavirus ha una scarsa capacità di resistere agli agenti disinfettanti più comuni per le superfici. È sufficiente una soluzione contenente tra il 60 e il 70 per cento di etanolo (alcol etilico) per inattivare il coronavirus, oppure l’impiego di una soluzione di acqua ossigenata allo 0,5 per cento o di candeggina (sodio ipoclorito) allo 0,1 per cento.

Superfici che appaiono pulite
Una maniglia o il tasto di un ascensore che appaiono puliti e luccicanti possono ugualmente ospitare sulla loro superficie il coronavirus, o altri tipi di virus e batteri. Come abbiamo visto, è sufficiente che queste superfici siano state toccate da una persona infetta e che aveva le mani sporche per contaminare.

In linea di massima: un oggetto può essere contaminato a prescindere da quanto appare pulito.

Sanificazione
La pulizia periodica delle superfici nelle aree comuni, siano mezzi pubblici o uno sportello alle Poste, consente di ridurre il rischio di entrare in contatto con il coronavirus e quindi la possibilità di ammalarsi di COVID-19. Una pulizia accurata di un autobus o di un vagone della metropolitana può fare la differenza, anche se il lavoro più grande (ma non così faticoso) spetta a noi.

Lavarsi le mani
Il sistema più valido e consigliato dalle autorità sanitarie per ridurre il rischio di contagio, da coronavirus ma più in generale da qualsiasi malattia infettiva, è lavarsi spesso e bene le mani. Non servono saponi antibatterici o disinfettanti di altro tipo: è sufficiente utilizzare acqua e sapone, avendo la pazienza di lavarsi le mani per almeno 20 secondi. Lo abbiamo spiegato più estesamente qui, e con il video qui sotto.

Come lavarsi le mani in un bagno pubblico per ridurre il rischio di infezioni, secondo le istruzioni dell' Organizzazione Mondiale della Sanità (è una cosa che dovremmo imparare tutti, e non solo contro il nuovo #coronavirus)

Pubblicato da il Post su Sabato 22 febbraio 2020

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.