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SLA, conoscere la Sclerosi Laterale Amiotrofica

La malattia del motoneurone 

La sclerosi laterale amiotrofica è una patologia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni, cellule cerebrali preposte al controllo dei muscoli, compromettendo progressivamente i movimenti della muscolatura volontaria. Come tutte le malattie rare, la genesi della SLA è ancora sconosciuta, sebbene sia ormai accertato che la SLA non è dovuta ad una singola causa trattandosi, al contrario, di una malattia determinata da diversi fattori (origine multifattoriale).

La sclerosi laterale amiotrofica è una patologia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni e che è stata resa nota dal giocatore di baseball statunitense Louis Gehrig, il cui decesso sembra essere stato causato proprio da questa patologia. Ad oggi, in Italia, si stima che tale malattia rara abbia un’incidenza di 1-3 casi su 100000 persone ogni anno, colpendo più frequentemente soggetti di sesso maschile e di età superiore ai 50-55 anni.

I motoneuroni, cellule nervose, si dividono in due classi: motoneuroni superiori (primi motoneuroni) e motoneuroni inferiori (secondi motoneuroni). I primi sono cellule della corteccia cerebrale che raggiungono il midollo spinale, dove stabiliscono un contatto (sinapsi) col secondo motoneurone periferico il quale, a sua volta, dalle corna anteriori del midollo spinale, raggiungerà i muscoli.

A seconda del motoneurone colpito, si riscontrerà uno specifico deficit motorio. L’instaurarsi di paralisi spastica sarà sinonimo di danno al motoneurone centrale, mentre si verificherà paralisi flaccida in caso di lesione al motoneurone secondario. Poiché nella SLA è presente la degenerazione di entrambi i motoneuroni, il quadro sintomatologico sarà vario ed alterno e naturalmente legato alla variabile interpersonale.

Le cause della SLA

Accertato il coinvolgimento delle cellule nervose, restano però da stabilire le cause della SLA. Tra i fattori che sembrerebbero concorrere allo sviluppo della patologia e che sono stati oggetto di numerose ricerche scientifiche, sono emersi:

Nonostante esista una forma di SLA definita “familiare”, correlata a specifici fattori genetici predisponenti, in circa il 90% dei casi la malattia si manifesta in forma “sporadica”, cioè non associata a specifici fattori di rischio. Nonostante, in passato, la maggiore imputata dei casi familiari di malattia fosse una mutazione a carico del gene sod1, è stato successivamente studiato e dimostrato come la proteina SOD1 alterata sia stata riscontrata anche nelle forme sporadiche.

L’infermiere nell’assistenza alla SLA, criticità e competenze

Mentre gli studi in ambito scientifico progrediscono, sembrano sollevarsi questioni legate all’etica, alla burocrazia ed alla formazione del personale sanitario che, spesso, è apparso impreparato e scarsamente competente a gestire pazienti affetti da SLA.

In realtà, poiché al momento non esistono farmaci o terapie in grado di guarire i malati di SLA e, a parte la diagnosi precoce (effettuata servendosi di analisi di laboratorio, RMN, EMG ed analisi del liquido cefalorachidiano), non esistono screening o particolari fattori preventivi in grado di assicurare l’immunità, l’intervento degli infermieri e del personale sanitario addetto alla riabilitazione risulta essere l’unico mezzo a disposizione concreto per migliorare la qualità di vita del paziente.

È necessario attuare una valutazione multidimensionale, in cui infermiere ospedaliero ed infermiere sul territorio devono collaborare ed interagire tra loro e con altre figure professionali, ai fini di garantire una corretta continuità assistenziale.

La SLA determina una perdita dell’autonomia che progredisce nel tempo e che causa una riduzione della qualità della vita, per cui necessita di interventi infermieristici mirati e costanti. Gli infermieri dovranno, dunque, stabilire un programma di monitoraggio della motricità, della respirazione, della nutrizione e della comunicazione (compromessa a causa della disartria), ed essere parte integrante dell’équipe che si occuperà delle cure palliative durante la fase terminale della malattia. In tale stadio, essi si occuperanno di capire quali siano le priorità ed i bisogni da soddisfare, ponendosi come obiettivo primario quello di trattare efficacemente il dolore e la dispnea e divenendo un supporto non soltanto per il paziente, ma anche per la sua famiglia.

Inoltre, sarà di fondamentale importanza la prevenzione dell’insorgenza di lesioni da pressione e/o di situazioni psicofisiche che aggraverebbero lo stato del paziente, rendendo la gestione dell’assistito ancor più complessa e delicata.

Nelle fasi avanzate della malattia, il posizionamento della cannula tracheostomica ed il ricorso alla nutrizione artificiale (PEG o SNG) richiedono un’ulteriore gestione infermieristica rigorosa e competente.

Tra vita e morte, la non-vita. E, spesso, la non-vita si chiama SLA

Per quanto riguarda il dilemma etico, continuano gli accesi dibattiti che spaziano dalla medicina, alla religione, al valore soggettivo che ciascuno attribuisce alla parola “vita”. Nonostante l’approvazione in Senato della legge sul biotestamento e sulle disposizioni anticipate, le perplessità permangono.

Tra affermazioni quali “la morte e la sofferenza fanno parte della vita” e “vivere è ben altra cosa che sopravvivere”, la SLA, oltre a lasciare dubbi ai ricercatori in termini di terapia farmacologica, ne lascia molti anche a noi tutti, primo fra tutti: “La vita cos’è?”.

 

Fonte: Nurse24.it