Cosa c’è di vero sull’Avigan contro il coronavirus

L’efficacia dell’antivirale – di cui si è discusso molto dopo un video sui social – è ancora oggetto di studio e sperimentazioni, come ha spiegato l’Agenzia Italiana del Farmaco.

Nel fine settimana è circolato molto online un video di un farmacista laziale che parla con toni entusiastici dell’Avigan (favipiravir), un farmaco antivirale disponibile in Giappone che avrebbe dato esiti positivi in una sperimentazione su pazienti affetti da coronavirus. Il video è stato in seguito ripreso da numerosi giornali e da alcune trasmissioni televisive, e non sono mancate polemiche nei confronti delle istituzioni che autorizzano i farmaci, con accuse di non essersi occupate della questione. In realtà l’Avigan è stato sperimentato su un numero ristretto di pazienti con esiti scientifici ancora incerti, e non è un medicinale tenuto segreto: è noto da tempo all’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), autorità che ha il compito di vigilare sulla sicurezza dei medicinali e di autorizzarne l’uso in Italia.

Il video dal Giappone
Cristiano Aresu ha 41 anni, lavora come farmacista e frequenta spesso il Giappone. Nel pomeriggio di sabato 21 marzo, Aresu ha pubblicato su Facebook un video di circa tre minuti, nel quale mostra una piazza di Tokyo sostenendo che la popolazione sia tornata a condurre una vita normale, anche grazie all’impiego dell’Avigan per trattare i malati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Nel video dice che il farmaco “ha fatto rinascere il Giappone” e lo ha fatto “tornare a respirare”, aggiungendo poi che gli italiani dovrebbero chiedere “a gran voce” al governo di avere l’Avigan per risollevarsi come hanno fatto i giapponesi.

Domenica 22 marzo l’edizione cartacea del Corriere della Sera ha parlato di Aresu in un breve articolo intitolato “L’esperienza da Tokyo: l’antinfluenzale per i casi lievi”, con una lunga serie di virgolettati nei quali il farmacista sosteneva che la somministrazione dell’Avigan “blocca il progredire della malattia nel 91 per cento dei casi”. Qualche cautela era espressa alla fine dell’articolo, che citava anche gli “effetti positivi” riscontrati “dagli scienziati cinesi”, senza fornire maggiori dettagli.

Che cos’è l’Avigan
Avigan è il nome commerciale del favipiravir, un farmaco antivirale sviluppato dall’azienda farmaceutica Toyama Chemical (del gruppo giapponese Fujifilm) attivo contro alcuni tipi di virus a RNA. È stato progettato con l’obiettivo di bloccare i meccanismi utilizzati dai virus per replicarsi nell’organismo, in modo da aiutare il sistema immunitario a sbarazzarsene, in tempi più rapidi e con minori conseguenze per la salute.

Il farmaco è stato approvato dalle autorità di controllo giapponesi nel 2014, prevedendo un suo possibile utilizzo nel caso delle pandemie influenzali, quindi causate da virus diversi dal coronavirus. A oggi ci sono però ancora dubbi sull’efficacia dell’Avigan, soprattutto nella sua capacità di proteggere le cellule che compongono i tessuti delle vie aeree superiori, dove di solito i virus influenzali fanno più danni.

A differenza di quanto sostiene Aresu, a oggi l’impiego dell’Avigan in Giappone è consentito solamente in particolari condizioni di emergenza, quando altri antivirali si dimostrano inefficaci. Inizialmente Toyama Chemical sperava che l’approvazione da parte delle autorità potesse includere più casi, facendo dell’Avigan un sostituto del Tamiflu, farmaco sul mercato ormai da tempo e che dà risultati positivi nel trattamento di alcune sindromi influenzali. Attualmente l’impiego dell’Avigan è consentito in Giappone e da circa una settimana in Cina, mentre il farmaco non è ancora approvato dalle principali autorità per i farmaci al mondo come la statunitense FDA e l’europea EMA.

Ricerca
Lo studio più citato finora sull’Avigan e il coronavirus è una ricerca condotta in Cina da Qingxian Cai (Università di Shenzhen) e colleghi su 80 pazienti, per mettere a confronto gli effetti del farmaco con quelli di altri antivirali (lopinavir/ritonavir). Secondo lo studio, l’impiego dell’Avigan avrebbe ridotto di 4 giorni circa il tempo di scomparsa del coronavirus dai pazienti, rispetto agli 11 giorni mediamente necessari nel gruppo di controllo trattato con gli altri medicinali. Lo studio parla anche di un miglioramento delle TAC ai polmoni nel 91 per cento dei casi, cosa comunque diversa dall’affermazione sulla capacità dell’Avigan di “bloccare la malattia” segnalata da Aresu.

La ricerca non è stata ancora pubblicata e ha comunque riguardato una quantità ridotta di pazienti, senza una loro selezione prima del trattamento, cosa che ha probabilmente falsato alcuni risultati. In Cina, tuttavia, test e verifiche con l’antivirale stanno proseguendo già da diverse settimane, per valutarne gli effetti.

Cosa dice l’AIFA
L’AIFA ha espresso le proprie perplessità sull’Avigan, ricordando che lo studio cinese ha preso in considerazione casi di COVID-19 non grave:

Sebbene i dati disponibili sembrino suggerire una potenziale attività di favipiravir, in particolare per quanto riguarda la velocità di scomparsa del virus dal sangue e su alcuni aspetti radiologici, mancano dati sulla reale efficacia nell’uso clinico e sulla evoluzione della malattia. Gli stessi autori riportano come limitazioni dello studio che la relazione tra titolo virale e prognosi clinica non è stata ben chiarita e che, non trattandosi di uno studio clinico controllato, ci potrebbero essere inevitabili distorsioni di selezione nel reclutamento dei pazienti.

In Italia, l’AIFA ha il compito di assicurarsi che i farmaci siano sicuri ed efficaci e non ha alcun interesse a ostacolare l’introduzione di nuovi medicinali, come verrebbe da pensare osservando il video da Tokyo e leggendo altre insinuazioni circolate online nelle ultime ore. La tutela della salute pubblica passa anche dalla valutazione e l’eventuale approvazione di nuovi trattamenti, che devono però prima dimostrare di essere efficaci anche da un punto di vista di costi e benefici sanitari (per esempio con una valutazione sugli eventuali effetti collaterali rispetto ai potenziali benefici).

La Commissione Tecnico-Scientifica dell’AIFA si riunirà nuovamente oggi per nuove valutazioni generali sui farmaci disponibili, o da sperimentare, contro il coronavirus, e ha annunciato nuovi approfondimenti anche sull’Avigan.

I farmaci contro l’artrite reumatoide per trattare i casi gravi di COVID-19

Hanno dato risultati incoraggianti su un numero ristretto di pazienti con polmoniti gravi, ora potranno essere sperimentati negli ospedali italiani.

In alcuni ospedali italiani sarà possibile sperimentare un farmaco per l’artrite reumatoide che ha dato risultati incoraggianti per trattare i pazienti con gravi polmoniti causate dal coronavirus. Il tocilizumab è stato sviluppato dall’azienda farmaceutica Roche, che ha dato la propria disponibilità a fornire gratuitamente il farmaco agli ospedali che ne faranno richiesta per impiegarlo contro il coronavirus, al posto del suo classico impiego per contrastare l’artrite reumatoide. Anche un altro medicinale simile, il Kevzara, sarà sperimentato in studi clinici negli Stati Uniti.

La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus (SARS-CoV-2), causa in circa l’80 per cento dei casi sintomi lievi come febbre e tosse secca, ma nei restanti può portare a polmoniti che richiedono il ricovero in ospedale e, nei casi più gravi, l’intubazione in terapia intensiva. Non esiste una cura contro il coronavirus, quindi i farmaci somministrati ai pazienti più gravi servono per lo più per ridurre l’infiammazione e i sintomi in attesa che il sistema immunitario superi l’infezione virale. Diverse ricerche cliniche, quindi basate sui risultati ottenuti nel trattamento dei pazienti, hanno comunque indicato benefici per i pazienti trattati con farmaci antivirali, che contrastano la replicazione del coronavirus nell’organismo.

Il tocilizumab e il Kevzara non sono farmaci antivirali: sono stati approvati qualche anno fa per trattare l’artrite reumatoide, una malattia cronica che causa infiammazioni e deformazioni alle articolazioni a causa della scorretta attività del sistema immunitario. È una malattia che può diventare invalidante e che si stima interessi l’1 per cento della popolazione mondiale.

I farmaci di nuova generazione contro l’artrite reumatoide sono basati sugli anticorpi monoclonali (MAb), ottenuti in laboratorio sfruttando le caratteristiche del sistema immunitario degli organismi. Il tocilizumab, per esempio, è stato progettato per interagire con l’interluchina 6 (IL-6), una proteina coinvolta nei processi infiammatori e che di solito si presenta con livelli elevati nelle persone che soffrono di artrite reumatoide: legandosi alla IL-6, il farmaco impedisce alla proteina di innescare il processo infiammatorio riducendo gli effetti della malattia. Anche i pazienti con metastasi dovute ai tumori hanno livelli di IL-6 più alti del normale nel loro sangue, e l’impiego di questi nuovi farmaci si è rivelato promettente per nuove terapie contro il cancro.

In generale quando il sistema immunitario è alle prese con un patogeno da sconfiggere (come un virus), alcune molecole proteiche specializzate (citochine) mettono in allarme le cellule immunitarie richiedendo il loro intervento nel punto in cui si sta verificando l’infezione. Le citochine hanno inoltre il compito di stimolare queste cellule, inducendole a produrre nuove citochine per continuare a segnalare il pericolo e ottenere nuovi aiuti. Il meccanismo viene regolato dall’organismo, ma in alcune circostanze può finire fuori controllo con la conseguente attivazione di troppe cellule immunitarie in un solo punto del corpo. In questo caso si verifica una “tempesta di citochine” che può rivelarsi fatale. Succede per esempio se si verifica nei polmoni comportando un accumulo di fluidi che blocca le vie respiratorie, una condizione ricorrente tra i pazienti gravi con COVID-19.

Considerata la funzione del tocilizumab, ricercatori e medici si sono chiesti se i pazienti potessero trarre beneficio dal farmaco anche nei casi più gravi di COVID-19, evitando che la risposta infiammatoria finisca fuori controllo. Uno studio realizzato in Cina ha riguardato una ventina di pazienti con sintomi gravi da coronavirus e trattati con tocilizumab, che hanno mostrato segni di miglioramento a meno di due giorni dalla somministrazione del farmaco. Poiché agisce su meccanismi diversi, il medicinale può essere inoltre somministrato senza che interferisca con gli antivirali, che hanno invece il compito di tenere sotto controllo la replicazione del virus.

A inizio marzo, le autorità sanitarie della Cina hanno incluso il tocilizumab nelle linee guida per il trattamento clinico della COVID-19, nei pazienti con polmoniti gravi. L’approvazione non solo ha reso possibile l’impiego del farmaco per scopi diversi dal trattamento dell’artrite reumatoide, ma ha anche portato altri paesi a valutare il suo utilizzo sui pazienti.

Nelle ultime settimane il farmaco è stato sperimentato in Italia a Napoli, nell’ambito di una collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli e l’Istituto nazionale dei tumori “Fondazione Pascale”. Un primo test clinico ha interessato due pazienti con polmonite severa causata dal coronavirus. I medici hanno segnalato risultati promettenti a circa 24 ore dalla somministrazione. In seguito Roche ha dato la propria disponibilità per forniture apposite del tocilizumab per trattare i pazienti con gravi polmoniti da COVID-19. Giovedì 12 marzo l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha confermato la creazione di una “Unità di crisi coronavirus”, comprendendo tra i propri obiettivi fornire assistenza e garantire l’accesso ai farmaci sperimentali contro la malattia.

Sperimentazioni di questo tipo sono eseguite con grandi cautele sia perché non sono ancora note tutte le caratteristiche del coronavirus, sia perché ogni paziente reagisce diversamente alle terapie. Riducendo l’attività del sistema immunitario c’è il rischio di esporre i pazienti ad altre infezioni.

Negli Stati Uniti, intanto, le aziende farmaceutiche Regeneron e Sanofi si stanno dando da fare per avviare test clinici sul Kevzara, un altro farmaco contro l’artrite reumatoide che potrebbe rivelarsi utile contro le polmoniti gravi da COVID-19. Le due aziende confidano di attivare i primi test entro un paio di settimane, in modo da avere dati più chiari entro pochi mesi.

Cosa rende così contagioso il coronavirus

I ricercatori stanno studiando il meccanismo con cui si lega alle cellule del nostro organismo per replicarsi, in modo da sviluppare farmaci per bloccarlo.

Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus a gennaio, nel mondo sono stati segnalati oltre 120mila casi positivi e più di 4mila morti: 80mila solo in Cina, dove è iniziata la crisi sanitaria, e più di 10mila in Italia. I motivi del progressivo aumento dei casi è legato sia alle strategie adottate dai singoli paesi per affrontare il contagio – in alcuni casi con soluzioni carenti o che hanno inizialmente sottostimato il rischio – sia alle caratteristiche stesse del coronavirus, sulle quali i ricercatori stanno compiendo studi e analisi per comprendere come faccia a diffondersi facilmente.

L’attuale coronavirus è mediamente contagioso e lo è di più rispetto a quello che causa la SARS, un’altra sindrome respiratoria grave, e con il quale sembra essere imparentato. In un paio di mesi ha infettato dieci volte il numero di persone che avevano contratto la SARS. Capire i meccanismi con cui si lega alle cellule per replicarsi potrebbe essere la chiave per produrre vaccini e farmaci, essenziali per ridurre la letalità della malattia (COVID-19) causata dal coronavirus.

Come gli altri virus, anche i coronavirus sfruttano per replicarsi le cellule degli organismi che infettano: sulla superficie delle capsule che contengono il loro materiale genetico, hanno minuscole punte che ricordano quelle di una corona (da qui il nome “coronavirus”). Le punte sono costituite da una proteina che si lega alla membrana cellulare, sfruttando un processo che viene attivato da un enzima della cellula (in pratica fa da portinaio). Sfruttando questo meccanismo, il coronavirus può avere accesso alla cellula, iniettarvi il suo codice genetico (RNA) e sfruttare poi gli organuli cellulari per replicarsi. Le copie prodotte lasciano poi la cellula, andando a infettarne altre.

Diversi gruppi di ricerca nelle ultime settimane hanno notato che l’attuale coronavirus ha una particolare proteina sulle sue punte, diversa da quella che si trova solitamente sugli altri coronavirus. L’ipotesi è che questa proteina abbia un punto di attivazione adatto a reagire con la furina, un enzima della cellula che ha proprio il compito di rimuovere alcuni pezzetti delle proteine per renderle attive (spesso le proteine sono inattive quando vengono prodotte dalla cellula e diventano attive solo dopo l’intervento di un enzima che elimina una loro sezione).

La furina è presente nelle cellule di numerosi tessuti del nostro organismo, come i polmoni (dove il coronavirus può causare molti danni, come dimostrano i casi gravi di polmoniti dovute alla COVID-19), il fegato e parte dell’intestino. Secondo Li Hua, ricercatore presso l’Università di Scienze e Tecnologie Huazhong di Wuhan – la città dove è iniziata l’epidemia – questo potrebbe spiegare perché sono stati segnalati casi di pazienti con sintomi gravi al fegato oltre che ai polmoni. Insieme ai suoi colleghi, Li ha realizzato un’analisi genetica del coronavirus, notando che altri coronavirus parenti stretti dell’attuale non sfruttano la furina.

Gary Whittaker, virologo presso la Cornell University (Stati Uniti), ha spiegato al sito di Nature che l’attivazione tramite la furina: «Rende il coronavirus differente da quello della SARS in termini di meccanismo di entrata nelle cellule, e potrebbe influenzare la stabilità del virus e la sua capacità di trasmettersi». Insieme ai colleghi, Whittaker ha pubblicato a febbraio un’analisi strutturale della proteina sulle punte dell’attuale coronavirus.

Il punto di attivazione è stato oggetto di diversi altri studi nelle ultime settimane, diventando uno dei principali indiziati per provare a spiegare la capacità del coronavirus di diffondersi facilmente tra la popolazione, e di replicarsi in maniera così efficiente nelle persone infette. La furina viene del resto sfruttata anche nei meccanismi di replicazione di altri virus, come alcuni di quelli influenzali (che non sono però coronavirus).

Le nuove ricerche hanno aperto un confronto acceso tra i virologi, con alcuni che hanno invitato a non arrivare a conclusioni azzardate, ricordando che per ora gli studi sono preliminari e richiederanno ulteriori approfondimenti. Per avere informazioni più chiare saranno necessari test di laboratorio su campioni cellulari e su cavie, in modo da verificare meglio il meccanismo di attivazione che apre al virus la possibilità di entrare nelle cellule. Whittaker e colleghi stanno per esempio sperimentando un sistema per modificare il punto di attivazione, per verificare se in questo modo la proteina sulla punta del coronavirus riesca o meno a mantenere la propria funzione.

Li sta invece lavorando su alcune molecole da impiegare per bloccare la furina, in modo da rompere il legame con il coronavirus. Nel suo caso gli studi sono rallentati dal fatto di trovarsi a Wuhan, città che solo ora dopo un paio di mesi di isolamento inizia lentamente a tornare alla normalità

Altri ricercatori stanno intanto studiando gli altri meccanismi che il coronavirus sfrutta per legarsi alle membrane cellulari, eludendo i sistemi di sicurezza delle cellule per evitare di essere contaminate. La loro identificazione potrebbe consentire di sviluppare farmaci per impedire al coronavirus di legarsi alle membrane cellulari e di inserire all’interno delle cellule il suo RNA.