Negli Stati Uniti sono iniziati i test di un vaccino per il coronavirus

Le prime dosi sono state somministrate ad alcuni volontari a Seattle, ma per capire se sarà efficace ci vorrà circa un anno.

Negli Stati Uniti sono iniziati i primi test di un vaccino contro il coronavirus (SARS-CoV-2). Il vaccino è stato sviluppato dall’azienda di biotecnologie Moderna in collaborazione con il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), un’agenzia del dipartimento della Salute. Il vaccino verrà somministrato nelle prossime sei settimane a 45 volontari tra i 18 e i 55 anni presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle, nello stato di Washington. Le prime somministrazioni sono state effettuate lunedì.

I volontari verranno seguiti per un anno, e se il vaccino dovesse rivelarsi efficace seguiranno altre fasi di test su un numero sempre maggiore di volontari, in modo da poter poi ricevere l’approvazione della Food and Drug Administration, l’ente federale che si occupa di selezionare alimenti e farmaci adatti al commercio.

Il vaccino si chiama mRNA-1273 e verrà testato in tre diversi dosaggi  – ognuno in 15 persone – per determinare se riesca a indurre una reazione immunitaria tale da produrre anticorpi che fermino la riproduzione del virus o se invece causi effetti collaterali.

Il vaccino era stato prodotto in tempi rapidissimi dopo che i ricercatori cinesi erano riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus. Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna avevano identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si erano quindi messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.

Covid-19: il Cotugno di Napoli sperimenta il farmaco Tocilizumab, Roche lo dona alle regioni

Nella sperimentazione fatta all’ospedale Cotugno di Napoli il Tocilizumab ha dato risultati positivi nella cura del Coronavirus.

Il farmaco, prodotto dall’azienda farmaceutica Roche, utilizzato fin’ora per la cura di altre patologie, e stato sperimentato nella cura del coronavirus nei reparti dell’ospedale Cotugno di Napoli.

Maurizio de Cicco, AD di Roche Italia ha comunicato che l’Azienda lo metterà a disposizione, a titolo gratuito, alle Regioni che ne faranno richiesta.

E’ certamente tutto in via di sperimentazione, ma la notizia apre uno spiraglio, inoltre è comunque encomiabile l’azione di Roche Italia.

Sperimentazione che, sulla base dei risultati del Cotugno, è già stata richiesta da altri Ospedali italiani.

Ecco il comunicato di Roche del 4 marzo:

“L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato lo stato di “Emergenza Internazionale di Salute Pubblica” relativamente all’epidemia del nuovo Coronavirus (2019-nCoV).

In questa situazione estremamente delicata e seria, Roche esprime la propria solidarietà a coloro che hanno perso i propri cari, ai pazienti e ai professionisti sanitari.

Siamo consapevoli della necessità di una stretta cooperazione a livello mondiale tra il settore pubblico e il privato, per contribuire efficacemente alla gestione di questa situazione in continuo divenire.

Come leader in ambito diagnostico, Roche è impegnata a fornire soluzioni analitiche per le emergenze sanitarie più sfidanti, garantendo la consegna di quanti più test possibili a propria disposizione.

Attualmente non vi sono farmaci che si sono dimostrati efficaci per il trattamento dei coronavirus nell’uomo.

Tuttavia, poiché l’ambito delle malattie infettive costituisce un’importante area del nostro programma di ricerca e sviluppo clinico, stiamo supportando l’OMS e altri interlocutori rilevanti fornendo expertise e consulenza relativamente a questi casi di Coronavirus.

Roche sta lavorando con il governo e le autorità sanitarie dei Paesi colpiti affinché le persone possano avere accesso allo screening e all’assistenza sanitaria.

Roche raccomanda a tutte le persone di seguire le indicazioni fornite dall’OMS, dall’US Center for Disease Control (CDC) e dal Ministero della Salute per proteggersi dal virus.

I farmaci contro l’artrite reumatoide per trattare i casi gravi di COVID-19

Hanno dato risultati incoraggianti su un numero ristretto di pazienti con polmoniti gravi, ora potranno essere sperimentati negli ospedali italiani.

In alcuni ospedali italiani sarà possibile sperimentare un farmaco per l’artrite reumatoide che ha dato risultati incoraggianti per trattare i pazienti con gravi polmoniti causate dal coronavirus. Il tocilizumab è stato sviluppato dall’azienda farmaceutica Roche, che ha dato la propria disponibilità a fornire gratuitamente il farmaco agli ospedali che ne faranno richiesta per impiegarlo contro il coronavirus, al posto del suo classico impiego per contrastare l’artrite reumatoide. Anche un altro medicinale simile, il Kevzara, sarà sperimentato in studi clinici negli Stati Uniti.

La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus (SARS-CoV-2), causa in circa l’80 per cento dei casi sintomi lievi come febbre e tosse secca, ma nei restanti può portare a polmoniti che richiedono il ricovero in ospedale e, nei casi più gravi, l’intubazione in terapia intensiva. Non esiste una cura contro il coronavirus, quindi i farmaci somministrati ai pazienti più gravi servono per lo più per ridurre l’infiammazione e i sintomi in attesa che il sistema immunitario superi l’infezione virale. Diverse ricerche cliniche, quindi basate sui risultati ottenuti nel trattamento dei pazienti, hanno comunque indicato benefici per i pazienti trattati con farmaci antivirali, che contrastano la replicazione del coronavirus nell’organismo.

Il tocilizumab e il Kevzara non sono farmaci antivirali: sono stati approvati qualche anno fa per trattare l’artrite reumatoide, una malattia cronica che causa infiammazioni e deformazioni alle articolazioni a causa della scorretta attività del sistema immunitario. È una malattia che può diventare invalidante e che si stima interessi l’1 per cento della popolazione mondiale.

I farmaci di nuova generazione contro l’artrite reumatoide sono basati sugli anticorpi monoclonali (MAb), ottenuti in laboratorio sfruttando le caratteristiche del sistema immunitario degli organismi. Il tocilizumab, per esempio, è stato progettato per interagire con l’interluchina 6 (IL-6), una proteina coinvolta nei processi infiammatori e che di solito si presenta con livelli elevati nelle persone che soffrono di artrite reumatoide: legandosi alla IL-6, il farmaco impedisce alla proteina di innescare il processo infiammatorio riducendo gli effetti della malattia. Anche i pazienti con metastasi dovute ai tumori hanno livelli di IL-6 più alti del normale nel loro sangue, e l’impiego di questi nuovi farmaci si è rivelato promettente per nuove terapie contro il cancro.

In generale quando il sistema immunitario è alle prese con un patogeno da sconfiggere (come un virus), alcune molecole proteiche specializzate (citochine) mettono in allarme le cellule immunitarie richiedendo il loro intervento nel punto in cui si sta verificando l’infezione. Le citochine hanno inoltre il compito di stimolare queste cellule, inducendole a produrre nuove citochine per continuare a segnalare il pericolo e ottenere nuovi aiuti. Il meccanismo viene regolato dall’organismo, ma in alcune circostanze può finire fuori controllo con la conseguente attivazione di troppe cellule immunitarie in un solo punto del corpo. In questo caso si verifica una “tempesta di citochine” che può rivelarsi fatale. Succede per esempio se si verifica nei polmoni comportando un accumulo di fluidi che blocca le vie respiratorie, una condizione ricorrente tra i pazienti gravi con COVID-19.

Considerata la funzione del tocilizumab, ricercatori e medici si sono chiesti se i pazienti potessero trarre beneficio dal farmaco anche nei casi più gravi di COVID-19, evitando che la risposta infiammatoria finisca fuori controllo. Uno studio realizzato in Cina ha riguardato una ventina di pazienti con sintomi gravi da coronavirus e trattati con tocilizumab, che hanno mostrato segni di miglioramento a meno di due giorni dalla somministrazione del farmaco. Poiché agisce su meccanismi diversi, il medicinale può essere inoltre somministrato senza che interferisca con gli antivirali, che hanno invece il compito di tenere sotto controllo la replicazione del virus.

A inizio marzo, le autorità sanitarie della Cina hanno incluso il tocilizumab nelle linee guida per il trattamento clinico della COVID-19, nei pazienti con polmoniti gravi. L’approvazione non solo ha reso possibile l’impiego del farmaco per scopi diversi dal trattamento dell’artrite reumatoide, ma ha anche portato altri paesi a valutare il suo utilizzo sui pazienti.

Nelle ultime settimane il farmaco è stato sperimentato in Italia a Napoli, nell’ambito di una collaborazione tra l’Azienda Ospedaliera dei Colli e l’Istituto nazionale dei tumori “Fondazione Pascale”. Un primo test clinico ha interessato due pazienti con polmonite severa causata dal coronavirus. I medici hanno segnalato risultati promettenti a circa 24 ore dalla somministrazione. In seguito Roche ha dato la propria disponibilità per forniture apposite del tocilizumab per trattare i pazienti con gravi polmoniti da COVID-19. Giovedì 12 marzo l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha confermato la creazione di una “Unità di crisi coronavirus”, comprendendo tra i propri obiettivi fornire assistenza e garantire l’accesso ai farmaci sperimentali contro la malattia.

Sperimentazioni di questo tipo sono eseguite con grandi cautele sia perché non sono ancora note tutte le caratteristiche del coronavirus, sia perché ogni paziente reagisce diversamente alle terapie. Riducendo l’attività del sistema immunitario c’è il rischio di esporre i pazienti ad altre infezioni.

Negli Stati Uniti, intanto, le aziende farmaceutiche Regeneron e Sanofi si stanno dando da fare per avviare test clinici sul Kevzara, un altro farmaco contro l’artrite reumatoide che potrebbe rivelarsi utile contro le polmoniti gravi da COVID-19. Le due aziende confidano di attivare i primi test entro un paio di settimane, in modo da avere dati più chiari entro pochi mesi.

L’OMS ha dichiarato la pandemia per il coronavirus

Ha quindi riconosciuto che il virus si è diffuso in un’area molto vasta, che coinvolge moltissimi paesi del mondo.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato la pandemia per il coronavirus (SARS-CoV-2): significa che ha riconosciuto che il virus è ormai diffuso in buona parte del mondo, in aree molto più vaste e diffuse rispetto a quelle solitamente interessate da un’epidemia, che coinvolge zone specifiche di paesi o continenti.

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione.

La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono da altre parti del mondo al di fuori della Cina vengono oggi interpretati dall’OMS come significativi di una pandemia.

Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Cosa rende così contagioso il coronavirus

I ricercatori stanno studiando il meccanismo con cui si lega alle cellule del nostro organismo per replicarsi, in modo da sviluppare farmaci per bloccarlo.

Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus a gennaio, nel mondo sono stati segnalati oltre 120mila casi positivi e più di 4mila morti: 80mila solo in Cina, dove è iniziata la crisi sanitaria, e più di 10mila in Italia. I motivi del progressivo aumento dei casi è legato sia alle strategie adottate dai singoli paesi per affrontare il contagio – in alcuni casi con soluzioni carenti o che hanno inizialmente sottostimato il rischio – sia alle caratteristiche stesse del coronavirus, sulle quali i ricercatori stanno compiendo studi e analisi per comprendere come faccia a diffondersi facilmente.

L’attuale coronavirus è mediamente contagioso e lo è di più rispetto a quello che causa la SARS, un’altra sindrome respiratoria grave, e con il quale sembra essere imparentato. In un paio di mesi ha infettato dieci volte il numero di persone che avevano contratto la SARS. Capire i meccanismi con cui si lega alle cellule per replicarsi potrebbe essere la chiave per produrre vaccini e farmaci, essenziali per ridurre la letalità della malattia (COVID-19) causata dal coronavirus.

Come gli altri virus, anche i coronavirus sfruttano per replicarsi le cellule degli organismi che infettano: sulla superficie delle capsule che contengono il loro materiale genetico, hanno minuscole punte che ricordano quelle di una corona (da qui il nome “coronavirus”). Le punte sono costituite da una proteina che si lega alla membrana cellulare, sfruttando un processo che viene attivato da un enzima della cellula (in pratica fa da portinaio). Sfruttando questo meccanismo, il coronavirus può avere accesso alla cellula, iniettarvi il suo codice genetico (RNA) e sfruttare poi gli organuli cellulari per replicarsi. Le copie prodotte lasciano poi la cellula, andando a infettarne altre.

Diversi gruppi di ricerca nelle ultime settimane hanno notato che l’attuale coronavirus ha una particolare proteina sulle sue punte, diversa da quella che si trova solitamente sugli altri coronavirus. L’ipotesi è che questa proteina abbia un punto di attivazione adatto a reagire con la furina, un enzima della cellula che ha proprio il compito di rimuovere alcuni pezzetti delle proteine per renderle attive (spesso le proteine sono inattive quando vengono prodotte dalla cellula e diventano attive solo dopo l’intervento di un enzima che elimina una loro sezione).

La furina è presente nelle cellule di numerosi tessuti del nostro organismo, come i polmoni (dove il coronavirus può causare molti danni, come dimostrano i casi gravi di polmoniti dovute alla COVID-19), il fegato e parte dell’intestino. Secondo Li Hua, ricercatore presso l’Università di Scienze e Tecnologie Huazhong di Wuhan – la città dove è iniziata l’epidemia – questo potrebbe spiegare perché sono stati segnalati casi di pazienti con sintomi gravi al fegato oltre che ai polmoni. Insieme ai suoi colleghi, Li ha realizzato un’analisi genetica del coronavirus, notando che altri coronavirus parenti stretti dell’attuale non sfruttano la furina.

Gary Whittaker, virologo presso la Cornell University (Stati Uniti), ha spiegato al sito di Nature che l’attivazione tramite la furina: «Rende il coronavirus differente da quello della SARS in termini di meccanismo di entrata nelle cellule, e potrebbe influenzare la stabilità del virus e la sua capacità di trasmettersi». Insieme ai colleghi, Whittaker ha pubblicato a febbraio un’analisi strutturale della proteina sulle punte dell’attuale coronavirus.

Il punto di attivazione è stato oggetto di diversi altri studi nelle ultime settimane, diventando uno dei principali indiziati per provare a spiegare la capacità del coronavirus di diffondersi facilmente tra la popolazione, e di replicarsi in maniera così efficiente nelle persone infette. La furina viene del resto sfruttata anche nei meccanismi di replicazione di altri virus, come alcuni di quelli influenzali (che non sono però coronavirus).

Le nuove ricerche hanno aperto un confronto acceso tra i virologi, con alcuni che hanno invitato a non arrivare a conclusioni azzardate, ricordando che per ora gli studi sono preliminari e richiederanno ulteriori approfondimenti. Per avere informazioni più chiare saranno necessari test di laboratorio su campioni cellulari e su cavie, in modo da verificare meglio il meccanismo di attivazione che apre al virus la possibilità di entrare nelle cellule. Whittaker e colleghi stanno per esempio sperimentando un sistema per modificare il punto di attivazione, per verificare se in questo modo la proteina sulla punta del coronavirus riesca o meno a mantenere la propria funzione.

Li sta invece lavorando su alcune molecole da impiegare per bloccare la furina, in modo da rompere il legame con il coronavirus. Nel suo caso gli studi sono rallentati dal fatto di trovarsi a Wuhan, città che solo ora dopo un paio di mesi di isolamento inizia lentamente a tornare alla normalità

Altri ricercatori stanno intanto studiando gli altri meccanismi che il coronavirus sfrutta per legarsi alle membrane cellulari, eludendo i sistemi di sicurezza delle cellule per evitare di essere contaminate. La loro identificazione potrebbe consentire di sviluppare farmaci per impedire al coronavirus di legarsi alle membrane cellulari e di inserire all’interno delle cellule il suo RNA.