Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

STOP Aggessioni nella Sanità, FP CGIL pubblica il vademecum

La violenza nei luoghi di lavoro è ormai riconosciuta sin dal 2002 come un importante problema di salute pubblica nel mondo (World Health Organization, 2002).

Il National Institute of Occupational Safety and Health (NIOSH) definisce la violenza nel posto di lavoro come “ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica nel posto di lavoro”. Gli atti di violenza consistono nella maggior parte dei casi in eventi con esito non mortale, ossia aggressione o tentativo di aggressione, fisica o verbale, quale quella realizzata con uso di un linguaggio offensivo.

Ogni anno in Italia si contano 1200 atti di aggressione ai danni dei lavoratori della sanità, che è come dire che il 30% dei 4mila casi totali di violenza registrati nei luoghi di lavoro riguarda medici infermieri ostetriche, farmacisti… insomma coloro che curano o si prendono cura dei cittadini. E nel 70% dei casi le vittime delle aggressioni sono donne. La classifica dei luoghi maggiormente colpiti dalla violenza nel 2017: al primo posto troviamo i Pronto soccorso con 456 aggressioni, seguono i reparti di degenza con 400, gli ambulatori con 320, gli Spdc con 72 atti di violenza, le terapie intensive con 62, le aggressioni al 118 sono state 41, 37 invece quelle nell’ambito dell’assistenza domiciliare, 20 nelle case di riposo e, infine, 11 nei penitenziari.

Passando alla tipologia di violenza: il 60% sono minacce, il 20% percosse, 2 il 10% violenza a mano armata e il restante 10% vandalismo. Ma chi commette violenza? Il 49% sono i pazienti, il 30% i familiari, l’11% i parenti e un 8% sono gli utenti in generale.

Le fasce orarie più a rischio sono quelle della sera e della notte e, sondando i medici, la percezione di violenza è aumentata secondo il 72% ed è in forte aumento per l’8%.

Di concreto c’è il danno economico: nel 2017 sono state 3.783 le giornate di lavoro perse, in netto aumento rispetto agli anni precedenti con 1.522 giorni di prognosi nel 2014, 2.397 nel 2015 e 3.140 nel 2016. Tradotto in soldi, nel 2017 i danni economici ammontano a 30 milioni a carico del Sistema sanitario nazionale, contro i 12 milioni del 2014.

Gli episodi di violenza nei confronti del personale sono considerati eventi sentinella perché segnalano la presenza che nell’ambiente di lavoro vi siano situazioni di rischio e vulnerabilità che necessitano l’adozione di misure di prevenzione e protezioni dei lavoratori.

Qualunque operatore sanitario può essere vittima di atti di violenza, i medici gli Infermieri e gli OSS sono quelli a più alto rischio perché sono a contatto diretto con il paziente e devono gestire una condizione in cui la componente emotiva è molto vulnerabile sia per il paziente che per i parenti, molto di più se sotto effetto di alcol e droga.

Cosa DEVE fare il lavoratore in caso di probabile aggressione? Ecco il vademecum pubblicato da FP CGIL.

Festa della donna, Margiotta (Farmaciste Insieme): «Con “Progetto Mimosa” aiutiamo le vittime di violenza»

L’idea, nata alcuni anni fa, è di allestire nelle farmacie degli angoli informativi con brochure a disposizione di donne che subiscono violenza.

La vincitrice del titolo “Farmacista dell’Anno” 2018 spiega ai nostri microfoni in cosa consiste il progetto a tutela delle donne maltrattate e quali sono le prossime iniziative dell’associazione.

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Fa freddo e le mani cambiano di colore?

Il fenomeno di Raynaud può segnalare patologie croniche.

Mani, piedi, ma occasionalmente anche naso ed orecchie, diventano fredde, insensibili e cambiano colore. Sono questi i sintomi più comuni del fenomeno di Raynaud, che prende il nome dal medico francese Maurice Raynaud, il primo a descrivere, alla fine dell’Ottocento, queste alterazioni della circolazione in un gruppo di pazienti.

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Umanizzare con la pittura, Armonia Onlus: «A Piacenza la paziente oncologica è un ‘petalo di rosa’…»

«Un prato fiorito oltre ad essere un bello spettacolo è un’immagine rassicurante».

Campi di fiori color pastello campeggiano sulle pareti della Usl piacentina che insieme all’associazione per la lotta contro i tumori, offre un esempio di spazio ospedaliero a misura di donna.

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