L’OMS ha sospeso i test sull’idrossiclorochina

Lo ha fatto «per abbondanza di precauzione», e dopo settimane in cui era stata indicata come possibile rimedio al coronavirus soprattutto da alcuni leader politici.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sospeso i test sull’efficacia contro il coronavirus dell’idrossiclorochina, un farmaco per la malaria che secondo valutazioni preliminari era stato descritto come potenzialmente utile per prevenire l’infezione da coronavirus (senza alcuna conferma scientifica). La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump aveva detto di avere iniziato una terapia a base di idrossiclorochina, mentre da tempo varie sperimentazioni erano state avviate un po’ in tutto il mondo, anche in Italia.

L’OMS non ha fornito molti dettagli sulla sua decisione. Mike Ryan, capo del programma che si occupa delle emergenze sanitarie, ha detto che è stata presa «per abbondanza di prudenza». Il capo dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto che la sperimentazione sull’idrossiclorochina è l’unica ad essere stata interrotta fra quelle gestite dall’OMS, comprese sotto il nome di SOLIDARITY.

Si era iniziato a parlare dell’impiego dell’idrossiclorochina contro la COVID-19 a febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la sua capacità di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione. Uno studio fatto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva coinvolto un numero limitato di persone.

L’OMS aveva comunque raccomandato ai medici di tutto il mondo di non prescrivere l’idrossiclorochina al di fuori dei test clinici, dato che la sua assunzione può provocare diversi effetti collaterali.

Non sarà difficile solo trovarlo, il vaccino

Il suo successo non dipenderà solo dall’efficacia, ma anche dalla capacità di produrne e distribuirne una quantità enorme di dosi: e chi lo riceverà per primo?

Giovedì 21 maggio il governo degli Stati Uniti ha istituto un fondo da oltre 1 miliardo di dollari che potrà impiegare per ricevere tra 300 e 400 milioni di dosi di un vaccino contro il coronavirus, ammesso che ne sia sviluppato uno efficace. Altri paesi si stanno organizzando per fare altrettanto, chiedendo garanzie sulla disponibilità di dosi in quantità sufficienti per la loro popolazione. A oggi non esiste un vaccino contro il coronavirus e gli esperti stimano che potrebbe essere necessario un anno prima di averne uno, ma la sfida nei prossimi mesi non riguarderà solamente questo: sarà necessario organizzarne la produzione e la distribuzione su una scala senza precedenti.

Vaccini e coronavirus
Attualmente ci sono circa 80 gruppi di ricerca in giro per il mondo al lavoro per sviluppare un vaccino contro il coronavirus, seguendo approcci e tecniche diverse. A inizio settimana l’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha annunciato alcuni primi risultati promettenti di un proprio vaccino sperimentale, suscitando però qualche perplessità da parte di diversi osservatori.

Gli Stati Uniti hanno invece messo a disposizione il loro fondo per AstraZeneca, azienda farmaceutica britannico-svedese che ad aprile ha avviato una collaborazione con l’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford. Il gruppo ha sviluppato un primo vaccino sperimentale, somministrato in una prima fase di test a circa mille volontari nel Regno Unito, allo scopo di verificarne la sicurezza e l’efficacia. I risultati dei primi test non sono ancora noti, ma dovrebbero essere diffusi aggiornamenti nelle prossime settimane.

Il vaccino sviluppato a Oxford è ritenuto tra i più promettenti e, se si rivelasse efficace, sarebbe poi prodotto da AstraZeneca su commissione dai paesi interessati. Per ora oltre agli Stati Uniti ha manifestato interesse nel progetto il Regno Unito, confidando di ottenere le prime dosi già alla fine dell’estate. Questa eventualità appare improbabile per diversi osservatori, che invitano ad avere qualche cautela in più sullo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus.

Fare i vaccini
Nell’ultimo secolo, i vaccini hanno consentito di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione in buona parte del mondo.

Semplificando molto, quando entriamo in contatto con agenti infettivi (come virus e batteri) il nostro sistema immunitario interviene per evitare che l’infezione prosegua, e in diversi casi serba memoria dell’attacco per prevenire attacchi successivi: si diventa immuni. Alla prima infezione di un virus il sistema immunitario non ha però ancora gli strumenti per riconoscere la minaccia, e ci ammaliamo con tutte le conseguenze e i rischi del caso. Un vaccino serve per insegnare al sistema immunitario a riconoscere un determinato agente infettivo, evitando però che ci si debba ammalare.

Di solito si impiegano versioni incomplete o depotenziate degli agenti infettivi, quindi in grado di suscitare una risposta immunitaria, ma non di farci ammalare. Trovare la giusta combinazione non è però semplice e molto dipende dal modo in cui sono fatti i virus e i batteri contro i quali si vuole realizzare un vaccino. È per questo motivo che da decenni abbiamo a disposizione vaccini molto efficaci contro malattie come il vaiolo o il morbillo, mentre fatichiamo a produrne di validi e affidabili contro l’HIV.

A oggi non esistono vaccini già impiegati sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni. Non tutti i ricercatori sono ottimisti sulla possibilità di svilupparne uno contro l’attuale, e ci sono diversi aspetti da chiarire: non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni dal coronavirus, e questo potrebbe complicare l’approvazione di un vaccino.

Nel miglior scenario possibile, entro un anno potremmo comunque avere a disposizione un vaccino contro il coronavirus, ma il suo eventuale successo dipenderebbe poi dalla capacità di produrne dosi a sufficienza per tutti.

Quante dosi
Non è chiaro quante dosi del vaccino siano necessarie per tenere sotto controllo la pandemia. Molto dipenderà da quanto si sarà nel frattempo diffusa la malattia nella popolazione, suscitando un’eventuale immunizzazione per contagio tra la popolazione. In linea di massima: più saranno i contagiati, minori saranno le quantità di vaccino necessarie. Non è una differenza da poco, se si considera che in un caso potrebbero essere richieste milioni di dosi del vaccino e nell’altro miliardi.

Se si mettono insieme tutti i vaccini prodotti contro svariate malattie ogni anno, compresa l’influenza stagionale, si arriva a una produzione mondiale di circa 6 miliardi di dosi contenute in oltre 1,6 miliardi di fiale e boccette. Per motivi di praticità, sia dal lato produttivo sia da quello della logistica, molte case farmaceutiche producono i vaccini in fiale multidose, dalle quali gli operatori possono attingere più volte per la somministrazione a diversi individui.

Le stime circolate finora ipotizzano che per il vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere necessaria la produzione di 200-300 milioni di fiale multidose, uno sforzo produttivo che a oggi non può essere raggiunto da nessun produttore da solo, ipotizzando che mantenga nel frattempo i normali livelli di produzione degli altri vaccini.

I tempi per produrre una dose di vaccino variano molto a seconda della tipologia stessa del vaccino e delle tecniche impiegate per produrlo. Uno dei metodi più diffusi implica l’utilizzo degli embrioni nelle uova di gallina, e comporta un lavoro di svariate settimane per realizzare il prodotto finale. Le catene produttive devono essere sorvegliate con grande attenzione, soprattutto per assicurarsi che i vaccini siano realizzati e confezionati in ambienti sterili e privi di qualsiasi tipo di contaminazione.

La produzione del vaccino è inoltre solo una parte del processo, che richiederà la disponibilità di centinaia di milioni di nuove fiale e boccette sterili, sistemi di trasporto e di distribuzione potenziati, senza contare l’attività di somministrazione delle dosi da parte dei sistemi sanitari nei singoli paesi.

Potenziare la produzione
Per raggiungere i livelli di produzione necessari a soddisfare la domanda, le aziende del settore dovranno necessariamente collaborare tra loro, realizzando piani strategici di svariati mesi e che tengano in considerazione l’avanzamento delle ricerche. Dovranno scommettere sulle soluzioni che appaiono più promettenti, mantenendosi comunque la possibilità di cambiare più volte strategia man mano che saranno disponibili i dati sui test clinici.

In previsione di dovere dedicare una parte rilevante della loro capacità produttiva alla pandemia, le aziende del settore dovrebbero inoltre pianificare una produzione anticipata di vaccini per l’influenza stagionale e per altre malattie, in modo da mantenerle in magazzino o distribuirle prima ai clienti.

Altri interventi dovrebbero riguardare il modo stesso in cui sono organizzate le linee produttive, prevedendo l’introduzione di maggiori standard per esempio sulle dimensioni e le caratteristiche delle fiale. Questo approccio consentirebbe di avere una distribuzione più omogenea di macchinari e risorse per produrre e confezionare i vaccini. Avrebbe inoltre il vantaggio di rendere più rapido ed efficace il passaggio a soluzioni alternative, nel caso in cui un vaccino si rivelasse meno efficace del previsto.

Incertezze
Lo sviluppo del nuovo vaccino sta avvenendo in una fase di grande incertezza, e questo potrebbe condizionare gli sforzi per produrlo e diffonderlo. Molto dipenderà dall’andamento della pandemia nei prossimi mesi e dagli approcci che seguiranno le autorità sanitarie. A seconda delle circostanze e delle decisioni assunte, potrebbero essere necessarie quantità enormi o relativamente contenute del vaccino.

Almeno in una prima fase appare improbabile una vaccinazione di massa della popolazione, considerata la diffusione della malattia. Potrebbero essere sottoposti al vaccino i soggetti più a rischio, come gli anziani e gli individui con altre malattie, che potrebbero aggravarsi a causa del coronavirus. Il vaccino potrebbe essere inoltre somministrato agli operatori sanitari e ai lavoratori in altri settori essenziali, per assicurarsi che possano rimanere attivi. Una vaccinazione selettiva di questo tipo implicherebbe comunque l’impiego di decine di milioni di dosi in buona parte dei paesi del mondo.

Per evitare che la domanda iniziale resti insoddisfatta si ipotizza un approccio alternativo, che preveda la vaccinazione degli individui nelle aree più a rischio e maggiormente esposte all’eventualità di entrare in contatto con persone contagiose. Strategie simili per cerchie di conoscenti sono state adottate nelle fasi finali della campagna di eradicazione del vaiolo e per altre malattie molto pericolose, come l’Ebola. I risultati ottenuti sono stati positivi e hanno consentito di rendere più razionale il consumo delle dosi.

Non si può comunque escludere che il vaccino arrivi troppo tardi o che si riveli meno utile di quanto prospettato finora. È per questo motivo che molti governi si mantengono ancora cauti con gli ordini, in attesa di elementi più concreti su capacità produttive e quantità di dosi necessarie. Ci sono del resto esempi nel passato recente di produzioni di vaccini rivelatesi ampiamente fuori scala: nel 2009 per la pandemia da virus influenzale H1N1 i governi spesero miliardi di euro per acquistare grandi quantità di dosi del vaccino, che si rivelarono poi inutili in seguito alla fine dell’emergenza sanitaria.

I provvedimenti incisivi adottati da buona parte dei governi per rallentare la diffusione del contagio, tramite restrizioni e limitazioni ai movimenti, hanno per ora consentito di ridurre sensibilmente i nuovi casi positivi e hanno alleviato il carico per i sistemi sanitari, inizialmente sotto forte stress come avvenuto in Italia. Gli esperti dicono che l’attuale rallentamento nella rilevazione di nuovi casi potrebbe indurre i governi a sentire una minore urgenza per un vaccino, con una conseguente riduzione degli investimenti per la ricerca. Potrebbe essere un altro elemento di incertezza da non sottovalutare, con conseguenze serie se la pandemia dovesse presentarsi con una nuova ondata di contagi il prossimo autunno.

Finanziamenti
La ricerca per i vaccini contro il coronavirus è finanziata da aziende farmaceutiche, governi e da numerose fondazioni, che negli ultimi mesi hanno donato svariate centinaia di milioni di dollari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto un fondo da 8,7 miliardi di dollari per lo sviluppo di vaccini e farmaci per trattare più efficacemente i casi di COVID-19. La Bill & Melinda Gates Foundation ha stanziato oltre 250 milioni di dollari per la ricerca, e altri fondi sono stati attivati dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza a sua volta fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale.

Comunicazione
Una volta ottenuto un vaccino, i governi dovranno organizzare campagne di comunicazione chiare sulle sue modalità di somministrazione e sulle priorità decise per chi potrà avervi accesso per primo. Negli ultimi anni numerose campagne di gruppi e organizzazioni hanno messo in dubbio l’utilità dei vaccini, diffondendo notizie false sulla loro presunta pericolosità. La diffidenza verso un vaccino completamente nuovo, e sviluppato in tempi molto più rapidi rispetto al solito, potrebbe influire sulla sua diffusione e per questo sarà essenziale che le campagne informative siano chiare, soprattutto sul tema della sicurezza per la salute.

L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

C’è un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus

Prodotto in pochissimo tempo, entro fine aprile sarà sperimentato sui primi esseri umani: ma ci sono molte incertezze sulla sua efficacia.

L’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha terminato lo sviluppo di un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus (SARS-CoV-2), a meno di tre mesi di distanza dalla scoperta in Cina delle prime polmoniti causate dalla malattia (COVID-19). La velocità con cui è stato ottenuto questo risultato è importante e con pochi precedenti, ma questo non implica che il nuovo vaccino sia sicuro ed efficace: per scoprirlo saranno necessari mesi di sperimentazioni, dagli esiti piuttosto incerti.

Moderna esiste da poco meno di dieci anni, ha la sua sede principale a Cambridge (Massachusetts, Stati Uniti) ed è specializzata nella ricerca e nello sviluppo di farmaci basati sull’RNA messaggero (mRNA), la molecola che si occupa di codificare e portare le istruzioni contenute nel DNA per produrre le proteine. Semplificando molto, Moderna ha l’obiettivo di realizzare forme sintetiche di mRNA, quindi create in laboratorio, che contengano istruzioni per produrre proteine che aiutino l’organismo a guarire.

Nei laboratori di Moderna sono impiegate circa 800 persone, che da anni lavorano per sviluppare farmaci e vaccini per trattare malattie come il cancro, patologie cardiache e infezioni dovute a virus e batteri. Le notizie sulla rapida diffusione del coronavirus in Cina e poi in diversi altri paesi del mondo, compresa l’Italia, hanno indotto i responsabili dell’azienda a interessarsi al problema e a valutare la produzione di un vaccino sperimentale.

Come racconta il Wall Street Journal, tutto è iniziato intorno al 10 gennaio, quando i ricercatori cinesi sono riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus, condividendo la notizia e i dati con il resto della comunità scientifica in tutto il mondo. Tra i tanti che l’hanno analizzata, c’erano anche Moderna e il National Institute of Allergy and Infectious Disease (NIAID) di Bethesda (Maryland), centro di ricerca pubblico statunitense che si occupa dello studio delle malattie infettive.

Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna hanno identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si sono messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.

La ricerca e la produzione hanno coinvolto un centinaio di impiegati di Moderna nei laboratori di Norwood, vicino alla sede di Cambridge. Hanno lavorato per settimane senza sosta, con turni nei fine settimana e di notte per fare il prima possibile. Il 7 febbraio, a poco meno di un mese dalla produzione dei primi profili genetici del coronavirus, il laboratorio aveva già completato la produzione di 500 fiale del vaccino sperimentale. Nelle due settimane successive, i ricercatori hanno analizzato il risultato e verificato sterilità e sicurezza di ogni fiala.

Il lotto è stato consegnato a NIAID questa settimana e il direttore dell’Istituto, Anthony Fauci, stima che il primo test clinico con 20-25 volontari sani possa essere avviato entro la fine di aprile, una volta ultimati ulteriori controlli sul vaccino. Il primo test su esseri umani comporterà due somministrazioni per volontario, e avrà lo scopo di verificare la sicurezza del prodotto e la sua capacità di indurre una risposta immunitaria. Quest’ultima dovrà poi essere valutata per verificare che sia efficace contro il coronavirus. I risultati di questa prima fase di test dovrebbero essere pronti tra i mesi di luglio e agosto.

Se le prime verifiche saranno positive, si procederà poi con un secondo test che coinvolgerà diverse centinaia di persone, probabilmente in aree in cui il coronavirus è ormai particolarmente diffuso, come la Cina. Questa seconda fase richiederà tra i sei e gli otto mesi per essere completata e – se sarà positiva – condurrà alle ultime verifiche, effettuate dalle autorità per la sicurezza dei farmaci, in vista della diffusione su larga scala del vaccino. Salvo accelerazioni nelle procedure per ottenere i permessi, l’intero processo potrebbe richiedere circa un anno.

Il successo del nuovo vaccino sperimentale non è per nulla scontato e ne sono consapevoli gli stessi ricercatori di Moderna. Per quanto siano fiduciosi, potrebbero avere scelto una sezione della sequenza genetica poco adatta allo scopo di causare una risposta immunitaria, mancando quindi l’obiettivo di indurre l’organismo a produrre i giusti anticorpi e a serbarne memoria nel caso di un’infezione da coronavirus. È comunque un rischio che vale la pena assumersi, considerata la velocità con cui si sta diffondendo la COVID-19 e gli effetti che potrebbe avere sulle fasce più deboli della popolazione (anziani e individui in condizioni di salute compromesse).

La rapidità con cui Moderna ha realizzato un primo vaccino sperimentale dimostra come le innovazioni nel settore abbiano permesso di accorciare i tempi per questo tipo di ricerche. Nel caso della SARS, per esempio, la ricerca di un vaccino richiese molto più tempo e fu poi sostanzialmente abbandonata, dopo che fu possibile contenere l’epidemia. Con il coronavirus le cose sembrano andare diversamente: i casi verificati di contagio hanno interessato ormai quasi 80mila persone e, secondo gli epidemiologi, il numero di nuovi contagiati continuerà ad aumentare significativamente.

Secondo Fauci, la diffusione del coronavirus potrebbe ridursi durante la stagione calda, per poi tornare a essere rilevante il prossimo inverno. Al momento non si esclude inoltre che la COVID-19 possa diventare una malattia stagionale, quindi ricorrente come avviene con l’influenza. In questo caso un vaccino potrebbe essere molto utile per tutelare gli individui più a rischio, proprio come si fa con il vaccino influenzale.

Moderna non è comunque l’unica azienda al lavoro per produrre un vaccino contro il coronavirus. Da settimane ci lavorano diverse altre società farmaceutiche, come Inovio Pharmaceuticals e Johnson & Johnson. Man mano che l’epidemia progredisce, inoltre, scienziati e centri di ricerca ottengono nuovi dati utili per capire caratteristiche e comportamento del coronavirus.

Mentre si cerca di contenere l’infezione, in modo da ridurre il rischio di nuovi contagi da COVID-19, le autorità sanitarie a cominciare dall’OMS auspicano che entro un anno possa essere disponibile un primo vaccino, che aiuterebbe molto a ridurre la letalità del coronavirus. Anche per questo motivo, ogni tentativo è importante, per quanto porti con sé molte incertezze come nel caso del nuovo vaccino sperimentale di Moderna.