L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

Le mutazioni del coronavirus

È vero che cambia – ed è normale – ma non ci sono ancora elementi per dire che stia diventando più pericoloso, o che possa succedere.

Nell’ultima settimana diversi giornali hanno ripreso uno studio realizzato negli Stati Uniti, sostenendo che abbia portato alla scoperta di un “nuovo ceppo” del coronavirus, più diffuso di quello originario e tale da avere reso il virus più contagioso. In realtà la ricerca citata – realizzata preso il Los Alamos National Laboratory (New Mexico) – utilizza toni cauti e non parla di un nuovo ceppo in quei termini, ma di una mutazione del coronavirus che ha iniziato a diffondersi in Europa all’inizio di febbraio e che si è poi probabilmente diffusa negli Stati Uniti, e che per questo non deve essere sottovalutata.

Lo studio statunitense è stato diffuso nella sua forma preliminare, e non è stato quindi ancora sottoposto a una revisione alla pari da altri scienziati né è stato pubblicato su una rivista scientifica, quindi dovrebbe essere preso in considerazione con qualche cautela aggiuntiva rispetto a quelle già necessarie per le normali ricerche. Secondo diversi ricercatori, che non hanno partecipato allo studio, le conclusioni prospettate sono plausibili ma non rappresentano comunque ciò che è avvenuto finora con la diffusione dell’epidemia.

Il punto centrale per molti ricercatori, come hanno spiegato sull’Atlantic, è che a oggi non ci sono elementi chiari per sostenere che esistano diversi “ceppi” del coronavirus, anche se spesso sui giornali abbiamo letto il contrario. La confusione deriva dal fatto che sui media si confondono quasi sempre mutazioni e ceppi, utilizzando i due termini come se fossero sinonimi.

Mutazioni
Semplificando molto, un virus entra in un organismo e ne sfrutta poi le cellule per replicarsi, cioè per creare nuove copie di se stesso che provvederanno a legarsi ad altre cellule per fare la stessa cosa. Questo meccanismo non è molto preciso e può portare ad alcuni errori nella fase in cui il codice genetico del virus viene trascritto per farne una copia, un po’ come avviene quando si ricopia un testo e inavvertitamente si scrive un refuso. È nell’ordine delle cose, succede di continuo in natura nei processi di replicazione del codice genetico. Il risultato di questi refusi sono mutazioni, quasi sempre innocue e che si trasmettono alle generazioni successive, accumulandosi a quelle nuove prodotte nei processi di replicazione seguenti.

Queste imprecisioni determinano il progressivo allargamento dell’albero genealogico di un virus, con nuovi rami che però non implicano che si sviluppi un nuovo “ceppo virale”. I virologi riservano questa definizione per una nuova generazione di virus che presenta differenze marcate e significative rispetto alle precedenti, soprattutto negli esiti delle sue attività. Anche se non tutti concordano sul limite oltre il quale si possa parlare di nuovo ceppo, vengono tenuti in considerazione criteri come: modificata capacità del virus di diffondersi, aumento della sua capacità di causare una malattia (virulenza), nuova resistenza ai trattamenti farmacologici che prima riuscivano a tenerlo sotto controllo, aumentata capacità di eludere le difese immunitarie dell’organismo.

Una o più mutazioni possono influire sulle caratteristiche che abbiamo appena visto, ma non necessariamente in modo significativo e al punto da sostenere che si sia prodotto un nuovo ceppo virale. E questa è la cosa più importante di tutte, quando si parla di modifiche che avvengono nella struttura del virus, man mano che produce nuove generazioni.

Velocità
Ci sono virus che hanno una spiccata tendenza a produrre nuovi ceppi, attraverso mutazioni che si rivelano quasi sempre significative. È il caso dei virus che causano l’influenza stagionale: in poco tempo mutano al punto da cambiare buona parte della configurazione delle proteine sulla loro superficie, apparendo quindi diversi al nostro sistema immunitario, che non riesce più a riconoscerli e deve ogni volta ricominciare da capo per sviluppare le difese contro l’infezione. Questo è uno dei motivi (insieme alla durata della memoria immunitaria) per cui ci ammaliamo più volte di influenza nel corso della vita, e spiega anche perché ogni anno sia necessario sottoporsi nuovamente a un vaccino, che viene calibrato sui ceppi virali influenzali che circolano di più.

I virus influenzali sono però molto diversi dai coronavirus, che per quanto ne sappiamo tendono ad accumulare mutazioni più lentamente (secondo alcune ricerche sono fino a dieci volte più lenti nel mutare rispetto ai virus influenzali). I ricercatori consultati dall’Atlantic hanno spiegato che l’attuale coronavirus, il SARS-CoV-2, non sembra fare eccezione: è andato incontro ad alcune mutazioni, come prevedibile, ma niente di anomalo. Le varie generazioni non sembrano inoltre presentare differenze significative e, considerata la lentezza con cui muta, saranno necessari molti mesi prima di vedere cambiamenti degni di nota.

Cosa dice lo studio
Lo studio del Los Alamos National Laboratory ha preso in considerazione le mutazioni che riguardano le punte del coronavirus, sulla cui superficie c’è una proteina che elude i sistemi di sicurezza delle membrane cellulari, consentendo al virus di iniettare il suo codice genetico nelle cellule per poi replicarsi. I ricercatori hanno notato che la mutazione D614G comporta un cambiamento nelle molecole che costituiscono queste punte.

Il coronavirus nella versione senza questa mutazione (D) è quella tipica di Wuhan, la città cinese dove è iniziata la pandemia, mentre la variante con mutazione (G) è quella che è emersa a febbraio. Fino a marzo, G era poco comune in giro per il mondo, ma da aprile è diventata la versione preponderante in Europa, nel Nord America e in Australia.

I ricercatori ipotizzano (ed è bene sottolineare “ipotizzano”) che la mutazione abbia reso il coronavirus più trasmissibile e che quindi G sia man mano diventata la variante più presente, proprio perché riesce a diffondersi meglio di D. Per ammissione degli stessi ricercatori non si può però escludere che in realtà la mutazione non abbia determinato nessun cambiamento per quanto riguarda la trasmissibilità, e che quindi i coronavirus nella loro versione G si siano banalmente diffusi di più per puro caso.

E i fattori casuali possono essere molti, come sanno bene virologi ed epidemiologi sulla base dell’evoluzione di altre epidemie in passato. Non si può escludere che la versione G fosse quella portata da alcuni viaggiatori dalla Cina di ritorno in Europa, magari in Italia, dove si è poi deciso un lockdown che ha fatto sì che rimanesse in circolazione la versione con la mutazione rispetto all’altra. Il virus sarebbe poi finito in circolazione in altri paesi, dove magari era ugualmente arrivato in quella variante dalla Cina per altre vie, determinando l’epidemia in Europa e il suo arrivo negli Stati Uniti.

Caso
Nelle prime fasi che determinano un’epidemia il caso ha spesso un ruolo importante. Varianti di un virus con mutazioni che, sulla carta, li renderebbero molto più pericolosi finiscono per sparire banalmente perché uno o più individui infetti con il virus mutato restano nello stesso luogo o hanno una scarsa vita sociale. In altre circostanze, virus privi di mutazioni che li rendono più trasmissibili finiscono lo stesso per diffondersi di più, banalmente perché sono presenti in contesti con maggiore socialità o concentrazioni di individui, dovute per esempio alla densità abitativa.

Lo studio del Los Alamos National Laboratory segnala giustamente la prevalenza di una variante su un’altra, ma non fornisce elementi (perché a questo stadio ancora non ce ne sono) per concludere se G si sia diffusa di più perché comporti una maggiore trasmissibilità o solo perché uno o più eventi casuali ne abbiano determinato la prevalenza in alcune aree geografiche.

Per capirlo saranno necessari altri studi, dedicati sia all’analisi della diffusione del coronavirus nella popolazione, sia con test di laboratorio per verificare se G effettivamente sia in grado di legarsi più facilmente alle cellule, o di determinare in qualche modo tempi di replicazione più rapidi. Entrambi questi approcci richiederanno mesi di ricerche e non è comunque detto che portino a risultati chiari e condivisi.

L’opinione prevalente tra i virologi è che non sapremo ancora per diverso tempo se esistano veri e propri ceppi diversi dell’attuale coronavirus. E anche nel momento in cui si determinasse la loro esistenza, occorrerebbero poi altre analisi per verificare se alcuni ceppi comportino più rischi di altri.

Allarmismo e responsabilità
Anche a causa di alcuni prodotti culturali come film e romanzi catastrofisti, siamo abituati all’idea che la mutazione di un virus implichi sempre qualcosa di negativo. La trama di molti film sulle epidemie parte spesso da un agente infettivo tutto sommato poco pericoloso che poi muta, apparentemente dal giorno alla notte, diventando una minaccia senza precedenti. Come abbiamo visto, in realtà molti virus mutano lentamente e non sempre gli errori nella trascrizione del loro codice genetico comportano un vantaggio evolutivo, che grazie al caso consente loro di prosperare.

I virus eccessivamente aggressivi, che causano malattie molto gravi come l’Ebola, tendono a produrre epidemie molto più contenute, proprio perché determinano negli organismi che infettano reazioni tali da ridurre o i loro contatti sociali (malattie che costringono quasi sempre a letto) o un alto tasso di letalità, quindi con una minore circolazione del virus nel tempo. Le mutazioni che non variano l’aggressività dei virus, ma li rendono più contagiosi, offrono di solito qualche opportunità in più in termini di diffusione. Ma molto dipende appunto dal caso, e dalle circostanze in cui avvengono le mutazioni.

Sostenere troppo alla leggera che un virus sia mutato e abbia portato a un nuovo ceppo può anche essere pericoloso, in termini di comunicazione e di decisioni politiche. I governi dei paesi in cui un’epidemia non è tenuta adeguatamente sotto controllo potrebbero scaricare parte delle loro responsabilità su queste mutazioni, sostenendo che il mancato controllo dei contagi sia dovuto a cause esterne alle politiche per il contenimento che hanno scelto.

Cosa non sappiamo ancora di questa epidemia

In due mesi e mezzo virologi, epidemiologi e ricercatori hanno scoperto molte cose sul coronavirus, ma alcune importanti domande sono ancora senza risposta.

Da circa un mese e mezzo virologi, epidemiologi, medici e ricercatori stanno studiando l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) per comprendere le caratteristiche del virus e il modo in cui si sta diffondendo, elementi importanti per adottare nuove strategie per rallentarne la diffusione e per sviluppare farmaci, vaccini e trattamenti per ridurre la sua letalità. In poche settimane dalla scoperta del virus a inizio gennaio, per esempio, è stato possibile ottenere la sequenza genetica del coronavirus, in modo da rendere più semplice la sua identificazione con i test. Ogni giorno i ricercatori scoprono qualcosa di nuovo sul virus che sta cambiando le abitudini di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, ma molto resta ancora da scoprire e da capire.

Dopo essere guariti si diventa immuni dal nuovo coronavirus?
Dopo un’infezione virale, il sistema immunitario di solito conserva un ricordo della minaccia che l’aveva causata, impedendo al virus di farci ammalare nuovamente. Sappiamo però che alcuni coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, non portano a una completa immunizzazione nel lungo periodo: il sistema immunitario sembra dimenticarsene e deve quindi imparare a riconoscere da capo la minaccia, nel caso in cui si ripresenti. A oggi non è chiaro se questo valga anche per l’attuale coronavirus: se così fosse potrebbe essere più complicato sviluppare un vaccino, o potrebbe essere necessario ripetere la vaccinazione stagionalmente, come avviene con l’influenza.

Il coronavirus sarà indebolito dal caldo?
Alcuni tipi di virus e coronavirus tendono a essere stagionali, con una prevalenza nei mesi freddi e una minore ricorrenza tra la popolazione durante il resto dell’anno. Non sono a oggi noti i meccanismi che determinano questo andamento, anche se si ipotizza che c’entrino i cambiamenti stagionali e le abitudini delle persone, come restare in luoghi chiusi d’inverno dove i contatti umani sono più stretti. A oggi i ricercatori non sanno dire con certezza se col caldo l’attuale epidemia potrà rallentare, cosa che potrebbe comunque implicare una sua seconda ondata alla fine del prossimo autunno.

Quanto resiste sulle superfici?
I virus possono resistere per diverse ore, in alcuni casi giorni, all’esterno di un organismo, per esempio depositandosi sulle superfici. A oggi non sappiamo per quanto lo faccia anche l’attuale coronavirus, che si trasmette per lo più con le goccioline di saliva che emettiamo tossendo, starnutendo e talvolta parlando: queste si possono depositare sulle mani (se per esempio ci si ripara la bocca col palmo della mano invece che con la piega del gomito quando si starnutisce) e poi finire sulle superfici che tocchiamo. Le ricerche uscite finora non hanno fornito risultati definitivi.

Chi è infetto e non ha sintomi contagia gli altri?
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’epidemia ci sono stati sospetti consistenti circa la possibilità che le persone senza sintomi, ma comunque infette, possano trasmettere il coronavirus agli altri. Non ci sono ancora conferme definitive su questa circostanza, mentre è diventato evidente che in molti casi il coronavirus causa sintomi lievi, che passano quasi inosservati da chi è infetto. La persona inconsapevole di essere malata mantiene quindi una vita sociale attiva, magari assume meno precauzioni, e diventa un importante veicolo di contagio.

Da dove viene questo coronavirus?
I primi casi di polmoniti atipiche sono stati rilevati a Wuhan, in Cina, alla fine dello scorso anno e poi ricondotti all’esistenza di un nuovo coronavirus. I ricercatori sospettano che l’attuale coronavirus provenga dai pipistrelli, animali che fanno da riserva di diverse malattie infettive, ma a oggi non sono state trovate prove definitive. È probabile, inoltre, che tra i pipistrelli e gli esseri umani ci sia stato un passaggio intermedio del coronavirus, forse tramite i pangolini, animali molto ricercati per la medicina tradizionale cinese.

Quanto è letale questo virus?
A seconda delle stime, la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, oscilla tra l’1 e il 5 per cento. Il dato varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle modalità con cui sono calcolati i casi positivi e i decessi. La stima dovrebbe diventare più chiara man mano che si diffonde l’epidemia e si rendono possibili analisi statistiche più estese.

Quanti sono i casi reali di contagio?
Non sappiamo quante persone abbiano avuto il coronavirus o siano infette in questo momento, né in Italia né nel mondo, ma secondo gli epidemiologi sono molte di più di quelle rilevate attraverso i test. Questo significa che probabilmente il dato della letalità è sovrastimato, perché nel rapporto tra positivi e decessi non si può tenere conto di tutti gli altri positivi che non vengono sottoposti al test, e che non risultano nelle stesse statistiche. Anche in questo caso, con il progredire dell’epidemia dovrebbe diventare più chiara la diffusione della malattia tra la popolazione.

Le restrizioni ai movimenti funzionano?
In Cina con due mesi di isolamento di Wuhan e di diverse altre città è stato possibile ridurre enormemente il numero di nuovi contagi, facendo rallentare l’epidemia (il risultato è stato ottenuto anche grazie ad altre pratiche per testare e isolare i malati). Non è però chiaro se l’effetto potrà essere mantenuto nelle prossime settimane con il graduale ritorno alla normalità: esiste il rischio che rimuovere le restrizioni faccia tornare il virus a circolare. Lo stesso vale per l’Italia, che sta per completare la sua prima settimana con piene restrizioni.

Quanto durerà questa epidemia?
Oggi è impossibile prevedere quanto durerà l’epidemia da coronavirus, anche se ci sono molti studi e analisi per provare a farsi un’idea. Le stime più pessimistiche mettono in conto almeno un anno di diffusione della malattia sul pianeta. Gli epidemiologi stimano che entro la primavera del 2021 potrebbe essere stato contagiato tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale. La maggior parte svilupperà sintomi lievi, ma ci sarà comunque una frazione della popolazione che avrà necessità di cure in ospedale, e per questo è importante rallentare la diffusione dell’epidemia per consentire ai sistemi sanitari di curare più persone possibili al meglio.

Quando avremo il vaccino?
Lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere determinante per arrestare prima l’epidemia, e salvare milioni di vite. Diverse aziende farmaceutiche e centri di ricerca sono al lavoro per svilupparne uno, ma i coronavirus non sono agenti infettivi facili e ci sono incertezze sugli esisti di queste ricerche e sulla possibilità di avere un vaccino. I tempi sono comunque dilatati e potrebbe essere necessario attendere più di un anno per averne uno, nella speranza che sia poi efficace su una porzione significativa della popolazione più a rischio.

L’OMS ha dichiarato la pandemia per il coronavirus

Ha quindi riconosciuto che il virus si è diffuso in un’area molto vasta, che coinvolge moltissimi paesi del mondo.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato la pandemia per il coronavirus (SARS-CoV-2): significa che ha riconosciuto che il virus è ormai diffuso in buona parte del mondo, in aree molto più vaste e diffuse rispetto a quelle solitamente interessate da un’epidemia, che coinvolge zone specifiche di paesi o continenti.

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione.

La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono da altre parti del mondo al di fuori della Cina vengono oggi interpretati dall’OMS come significativi di una pandemia.

Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Fare come la Cina ci aiuterà contro il coronavirus?

L’estensione delle restrizioni contro il coronavirus (SARS-CoV-2) a tutta Italia, annunciata lunedì sera dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, non ha precedenti nella storia del nostro paese ed è ampiamente ispirata alle strategie adottate da più di due mesi in Cina, dove l’epidemia è iniziata nella zona di Wuhan. Dopo avere registrato oltre 80mila casi positivi, da tre giorni in Cina non risultano nuovi contagi da coronavirus fuori dalla regione di Hubei in cui si trova Wuhan, dove lunedì sono stati segnalati appena 17 nuovi casi positivi.

Per ottenere questo risultato la Cina ha dovuto impegnare risorse enormi e limitare pesantemente la libertà di movimento di milioni di persone, con conseguenze pesanti e discusse per quanto riguarda la censura delle opinioni e il controllo della popolazione. Il risultato ottenuto nel contenimento del coronavirus è però evidente, e per questo viene osservato con attenzione dalle autorità sanitarie di altri paesi, compresa l’Italia.

Bruce Aylward è un medico con un’esperienza trentennale nell’affrontare crisi sanitarie legate a malattie infettive come ebola e la poliomielite. Di recente ha visitato la Cina come capo delegazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), avendo la rara opportunità di verificare l’efficacia delle misure assunte dal governo cinese e le attività svolte dalle autorità sanitarie. Ha raccontato la sua esperienza al New York Times, offrendo un punto di vista terzo e neutrale sull’epidemia da coronavirus in Cina, con spunti che aiutano a capire che cosa potrà succedere nelle prossime settimane anche da noi.

Dati e progressi
La riduzione dei nuovi casi da coronavirus segnalati dalla Cina è stata giudicata sospetta da alcuni osservatori, considerata la scarsa trasparenza del governo cinese e alcuni precedenti di scarsa collaborazione con le autorità sanitarie internazionali. Aylward ha spiegato di avere visitato diversi laboratori e cliniche, ricevendo informazioni incoraggianti dagli operatori locali sul fatto che la situazione fosse ormai “diversa da tre settimane fa”. Al momento del massimo dell’epidemia c’erano in media 46mila persone che necessitavano di un test per il coronavirus; ora sono all’incirca 13mila e ci sono ospedali con posti letto disponibili.

Aylward ha confermato di non avere notato nulla di strano e che potesse far pensare a una manipolazione dei dati. La dinamica appare piuttosto chiara: un’epidemia che ha raggiunto velocemente il suo picco e che poi è diminuita più veloce di quanto ci si attendesse. Nel mezzo, milioni di persone non sono stati coinvolti proprio in virtù dell’approccio molto aggressivo e drastico da parte delle autorità cinesi.

Isolare e prevenire
Per quanto riguarda i contagi, i dati della Cina suggeriscono che nel 75-80 per cento i contagi interessano nuclei familiari: «Trovi casi di contagio isolati negli ospedali, nei ristoranti e nelle prigioni, ma la grande maggioranza deriva dalle famiglie», ha spiegato Aylward. In Cina provvedono quindi a isolare i membri delle famiglie infetti il prima possibile, in modo da ridurre i rischi di nuovi contagi, e poi vanno alla ricerca di tutti i potenziali contagiati da quella persona nei due giorni precedenti.

L’approccio cinese non è stato semplicemente “bloccare tutto per settimane”, ma ha previsto diversi livelli di prevenzione. È stata comunicata insistentemente alla popolazione la necessità di lavarsi spesso le mani e di evitare i contatti sociali; sono stati spiegati inoltre i sintomi della COVID-19, la malattia causata dal coronavirus.

Poi si è passati a una fase molto articolata di identificazione dei singoli casi sospetti, per esempio attraverso la misurazione della febbre nei luoghi pubblici, e anche sulle autostrade e strade principali. All’identificazione di ogni caso e di possibili contagi, le autorità hanno provveduto a chiudere scuole, teatri e ristoranti. La chiusura totale ha riguardato solamente Wuhan e un certo numero di città circostanti, determinando comunque l’isolamento di decine di milioni di persone (l’area di Hubei è densamente popolata).

Diagnosi e assistenza medica
Quando sono diventate chiare le dimensioni dell’emergenza sanitaria, il governo cinese si è dato da fare per semplificare la gestione dell’assistenza medica. In poche settimane circa la metà dei consulti medici è stata eseguita tramite Internet, in modo che le persone potenzialmente malate non dovessero raggiungere gli ospedali e gli ambulatori, causando ulteriori contagi. Per le persone con necessità particolari, come insulina per trattare il diabete o farmaci per patologie cardiache, è stato approntato un sistema per ottenere le ricette online e farsi consegnare a casa i farmaci.

Le persone sospettate di essere contagiate venivano portate in ambulatori appositi, dove il personale sanitario rilevava la febbre, verificava la gravità degli altri sintomi e i precedenti sanitari. Ai casi sospetti veniva poi chiesto di spiegare nel dettaglio gli spostamenti svolti nelle settimane precedenti e di elencare i contatti avuti con altre persone. Per completare la diagnosi, ogni paziente veniva poi sottoposto a una TAC (tomografia assiale computerizzata) ai polmoni, per verificare il loro stato.

A differenza della comune influenza, la COVID-19 può causare infezioni serie nelle parti più profonde delle vie respiratorie, che portano poi a polmoniti atipiche difficili da trattare (nei casi più gravi). A differenza di una normale radiografia, la TAC consente di avere un quadro clinico più completo, analizzando nel dettaglio le strutture dei polmoni ed eventuali problemi causati dal coronavirus. Nelle cliniche per le diagnosi cinesi ogni macchina per la TAC arrivava ad analizzare fino a 200 pazienti in un giorno, un ritmo molto alto se si considera che normalmente in un ospedale si fanno dalle 2 alle 5 TAC all’ora in periodi di forte richiesta.

Al termine di questa valutazione, se il caso rimaneva sospetto, si procedeva con un tampone per verificare la presenza del coronavirus. Nelle prime settimane erano necessari giorni per avere un risultato, perché c’erano pochi laboratori a occuparsene, le cose sono poi migliorate al punto da richiedere in media 4 ore dal momento del tampone a quello del risultato.

Nelle cliniche per le diagnosi si è comunque assistito a un grande affollamento, perché molte persone arrivavano con sintomi che ritenevano essere legati alla COVID-19. Molte di loro venivano rispedite a casa dopo una valutazione perché avevano banalmente l’influenza stagionale e non la malattia causata dal coronavirus: è per esempio raro che la COVID-19 causi naso che cola e congestione delle vie aeree superiori.

Come abbiamo appreso dalle cronache nei mesi di gennaio e febbraio, naturalmente in Cina non è andato sempre tutto liscio dal punto di vista della valutazione dei casi sospetti. In pochi giorni, per esempio, le autorità sanitarie hanno cambiato almeno due volte il modo in cui svolgevano le diagnosi e quindi la comunicazione degli effettivi nuovi casi positivi al coronavirus. Il sistema di rilevazione si è poi stabilizzato e non ha comunque mai ricevuto critiche da parte dell’OMS, che con il suo personale ha vigilato (fin dove possibile) sulle attività del governo cinese.

Le persone con sospetta COVID-19 e in attesa dell’esito del test non venivano comunque rispedite a casa, ma venivano isolate altrove proprio per evitare ulteriori contagi nelle loro famiglie. All’inizio, quando c’erano difficoltà con i test, questo comportava che migliaia di persone dovessero attendere fino a 15 giorni prima di essere ricoverate (la malattia si manifesta entro un paio di settimane dal momento in cui si è contratto il coronavirus).

Da diverse settimane, le persone con sintomi lievi da COVID-19 vengono tenute in centri di isolamento. Sono stati allestiti in posti come palazzetti dello sport e palestre, e in alcuni casi hanno fino a un migliaio di posti letto. Per le persone con sintomi seri o gravi è invece previsto il ricovero in ospedale. Si è inoltre deciso che le persone con COVID-19 e problemi di salute pregressi siano da subito ricoverate, così come quelle che hanno un’eta sopra i 65 anni.

Ospedali dedicati
Dopo le prime settimane di grande caos e forte stress per le strutture ospedaliere, soprattutto a Wuhan, le autorità cinesi hanno riorganizzato l’intero sistema. Gli ospedali migliori e con grande capacità sono stati assegnati per il trattamento esclusivo dei pazienti con sintomi seri e gravi da COVID-19, chiudendo le sale operatorie e rinviando gli interventi non urgenti. I pazienti con altri problemi di salute, e negativi alla COVID-19, sono stati trasferiti in altri ospedali e cliniche, che gestiscono traumi e altre emergenze cliniche. Questa separazione ha permesso di ridurre il rischio di nuovi contagi negli ospedali, per i pazienti ricoverati per altri problemi di salute.

Aylward ha spiegato di avere visitato ospedali che in alcuni casi appaiono migliori di quelli in Svizzera, dove ha sede l’OMS. In alcune strutture ospedaliere erano disponibili fino a 50 ventilatori (i macchinari per assistere la respirazione dei pazienti) e cinque ECMO (per la circolazione extracorporea), un numero superiore rispetto a quello che si trova generalmente in un ospedale occidentale.

Mobilitazione
Il governo cinese si è fatto carico dell’intera spesa per realizzare nuovi ospedali, creare cliniche per le diagnosi, potenziare le strutture sanitarie esistenti e ingrandire i laboratori per aumentare i test. Ha spesso l’equivalente di decine di miliardi di euro per farlo, assicurando a tutti i pazienti la copertura delle spese per essere diagnosticati e trattati. Complice la propaganda, il governo è riuscito inoltre a stimolare una grande reazione con decine di migliaia di volontari, che si sono dati da fare soprattutto a Wuhan per assistere la popolazione.

E proprio a Wuhan, dove le limitazioni erano tali da impedire alla popolazione di uscire di casa quasi sempre (erano previste eccezioni per un membro di ogni nucleo familiare ogni due giorni), Internet si è rivelata una risorsa preziosa soprattutto per la distribuzione del cibo. Quindici milioni di persone hanno ordinato periodicamente la spesa online, non sempre è andato tutto liscio, ma nel complesso nessuno è rimasto senza rifornimenti.

La chiusura delle scuole nelle aree con maggiori contagi in Cina ha contribuito a rallentare l’epidemia, considerato che diversi studi suggeriscono che i bambini siano meno interessati dalla COVID-19, ma siano comunque veicolo di contagio. Le lezioni sono proseguite online, seppure con qualche difficoltà organizzativa.

Governo totalitario e democrazie
In Cina l’assetto è sostanzialmente totalitario, con enormi poteri e ampi margini in mano al governo per decidere in che misura limitare le libertà della popolazione, compresa quella di potersi spostare ed esprimersi liberamente. Anche per questo motivo molti osservatori sostengono che le misure di contenimento, molto drastiche, attuate dal governo cinese non possano essere ripetute altrove, in paesi con governi democraticamente eletti.

Aylward ha spiegato che l’immagine trasmessa spesso dai media di un paese in cui la popolazione ha paura del governo andrebbe rimodulata:

Ho parlato con molte persone fuori dal sistema: negli alberghi, sui treni, nelle strade in giro la notte. Si sono mobilitati, come in guerra, ed è la paura del virus che li fa andare avanti. Si sono davvero visti in prima linea al fronte per proteggere il resto della Cina. E del mondo. […]
Ci dev’essere un cambiamento nel modo di pensare a una risposta rapida. Pensi di alzare le mani e arrenderti? È un azzardo morale, un giudizio del tutto discrezionale. Chiediti: puoi fare questa cosa? Puoi isolare 100 pazienti? Puoi rintracciare mille persone? Se non puoi, [il coronavirus] scoppierà attraverso la popolazione.

Tornare alla normalità
Ora che i nuovi casi positivi sono diminuiti così tanto, in Cina si inizia un lento ritorno alla normalità, tra grandi cautele e precauzioni per evitare che riprenda il contagio. Questa sorta di grande riavvio sta avvenendo in maniera coordinata tra le province: alcune manterranno ancora a lungo le scuole chiuse, altre stanno consentendo ad alcuni impianti industriali di riaprire, altre ancora di riaprire i flussi di lavoratori dalle altre zone della Cina.

La città di Chengdu nel Sichuan, per esempio, ha circa 5 milioni di lavoratori prevenienti dal resto della Cina. Queste persone potranno tornare dopo avere ricevuto un certificato medico e dovranno sottoporsi a periodici controlli, per misurare la febbre. A Pechino, le persone di ritorno dovranno sottoporsi a una quarantena di due settimane, per assicurarsi che non siano infette e possano poi contagiare i colleghi sul posto di lavoro.

E in Italia?
Su una scala differente, diverse misure assunte in Cina sono state adottate anche in Italia, soprattutto per quanto riguarda l’isolamento delle persone e la chiusura dei principali luoghi di aggregazione sociale, come stadi, cinema, centri culturali, scuole e università. Per gli esercizi commerciali l’approccio italiano è per ora più morbido: bar e ristoranti possono rimanere aperti nelle ore centrali del giorno, a patto che facciano servizio ai tavoli e si assicurino che i clienti mantengano la distanza di un metro, mentre non ci sono particolari limitazioni per i negozi nei giorni feriali.

La suddivisione delle strutture sanitarie tra ospedali esclusivamente per COVID-19 e ospedali per altre malattie appare al momento poco praticabile, considerata la disponibilità sul territorio delle strutture ospedaliere e il modo in cui sono organizzate. Negli ospedali, per quanto possibile, sono comunque state organizzate aree separate dove trattare le persone contagiate, e punti di diagnosi esterni ai pronto soccorso, per evitare contatti con gli altri pazienti.

Dall’inizio dell’epidemia, le autorità sanitarie italiane hanno raccomandato alle persone con sintomi sospetti di rimanere a casa, e contattare il loro medico curante o i servizi sanitari regionali. Questo ha permesso di ridurre i rischi di nuovi contagi in ospedale, ma ha reso difficile il tracciamento delle persone malate, che non ha raggiunto livelli finora comparabili a quelli cinesi. Il mancato isolamento dai nuclei familiari degli infetti potrebbe inoltre comportare un numero più alto dei contagi, con maggiori rischi soprattutto nelle famiglie con persone anziane.

Soprattutto in Lombardia, gli ospedali sono sotto forte stress per il cospicuo numero di persone con COVID-19 che hanno bisogno di assistenza medica. I reparti di terapia intensiva sono al colmo in diversi ospedali, e questo rende più difficile il trattamento dei pazienti gravi, che necessitano per esempio di essere intubati. Il governo ha avviato un piano per aumentare strumentazioni e macchinari di terapia intensiva, ma all’aumentare dei casi potrebbe essere comunque difficile offrire assistenza a tutti.

Una ricerca realizzata a Wuhan su 25mila casi positivi al coronavirus ha di recente messo in evidenza come le politiche di isolamento, anche piuttosto drastiche, abbiano contribuito a ridurre significativamente il numero di persone infettate in media da un soggetto già infetto. Questa riduzione è importante per fare in modo che l’epidemia rallenti e che, infine, raggiunga livelli tali da non costituire un problema per le strutture ospedaliere.

Un rallentamento implica infatti un minor numero di contagi e di conseguenza di persone con sintomi gravi, che avranno poi necessità di un ricovero e di trattamenti in terapia intensiva (un reparto per sua natura con pochi posti). Rimanere a casa, secondo lo studio, ha avuto quindi un ruolo importante nel ridurre i contagi nell’area di Wuhan, e i dati sugli ultimi giorni sembrano confermarlo ulteriormente.