Due importanti studi sulla COVID-19 sono stati ritirati

Erano stati pubblicati su Lancet e NEJM, tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo, basandosi su dati che gli stessi autori non hanno potuto verificare.

Lancet e il New England Journal of Medicine (NEJM) – due tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo – hanno ritirato due studi sulla sperimentazione di farmaci contro la COVID-19, che avevano avuto grandi ripercussioni nella ricerca di nuovi trattamenti contro la

malattia causata dal coronavirus. Uno dei due studi aveva indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a interrompere i test con l’idrossiclorochina, un antimalarico che aveva dato alcuni risultati positivi nel trattamento dei pazienti, ma che secondo la ricerca ora ritirata poteva avere in alcuni casi effetti collaterali gravi sui malati di COVID-19.

Non accade spesso che studi pubblicati su riviste di questo livello siano ritirati, e che questo accada così velocemente dopo la loro diffusione. Secondo diversi esperti, la vicenda dimostra come la ricerca di soluzioni per la pandemia abbia portato a una certa frenesia in ambito scientifico e clinico, con la pubblicazione di decine di nuove ricerche ogni giorno e poco tempo per verificarne l’affidabilità anche da parte delle riviste scientifiche più rispettate.

Entrambi gli studi erano stati realizzati dal cardiochirurgo Mandeep Mehra (Brigham and Women’s Hospital, Università di Harvard) insieme ad altri ricercatori, sulla base di un grande set di dati fornito da Surgisphere, una piccola azienda di Chicago gestita da Sapan Desai, indicato tra gli autori delle due ricerche.

Lo studio pubblicato su Lancet aveva segnalato che, in diverse circostanze, l’idrossiclorochina potesse causare più danni che benefici nei pazienti con COVID-19. Il farmaco viene utilizzato contro la malaria ed è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è soprattutto noto con il nome commerciale Plaquenil, usato anche per trattare malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. L’idrossiclorochina era finita al centro dell’interesse dei media un paio di settimane fa, quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva detto di avere iniziato ad assumerla come terapia preventiva contro la COVID-19, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche circa l’utilità del farmaco per prevenire l’infezione da coronavirus.

Dopo la pubblicazione della ricerca di Mehra su Lancet, diversi ricercatori avevano espresso dubbi circa l’affidabilità dei dati su cui era basata e forniti da Surgisphere. In molti si erano chiesti come avesse fatto un’azienda così piccola, con meno di una decina di dipendenti, ad avere raccolto ed elaborato i dati sanitari di decine di migliaia di pazienti, forniti da centinaia di ospedali con i quali dichiarava di avere avviato collaborazioni. Raccogliere dati sanitari non è semplice e richiede la stipula di contratti molto articolati con ogni ospedale, con specifiche garanzie per la tutela della privacy dei pazienti: appariva quindi improbabile che Surgisphere da sola fosse riuscita a ottenere risultati simili.

Le evidenze scientifiche in una ricerca dovrebbero valere più di qualsiasi curriculum, ma c’è sempre il rischio che la reputazione degli autori di una ricerca condizioni le valutazioni degli altri, almeno nei primi tempi dopo la pubblicazione dei loro lavori. Mehra è un ricercatore molto rispettato e nel corso della sua carriera ha pubblicato centinaia di studi, cosa che potrebbe avere condizionato il modo in cui è stato percepito il suo studio sull’idrossiclorochina. Leggendo le conclusioni del suo lavoro, diversi ricercatori avevano deciso di rivedere o fermare le loro sperimentazioni e la stessa OMS aveva annunciato una sospensione dei test, per precauzione, considerati i rischi indicati da Mehra e colleghi. L’Organizzazione ha da poco annunciato il riavvio delle sperimentazioni.

Lancet ha ritirato lo studio su indicazione degli autori, dopo che Surgisphere si è rifiutata di fornire i dati completi in suo possesso sui pazienti, rendendo impossibile la verifica degli stessi da parte di altri ricercatori non coinvolti direttamente nella ricerca. La società ha comunicato di non potere condividere quei dati a causa degli accordi con gli ospedali con cui collabora. Questa circostanza ha reso impossibile la verifica dei dati e quindi la stessa analisi dello studio.

Anche lo studio ritirato dal NEJM era basato sui dati di Surgisphere: segnalava che l’assunzione di alcuni farmaci per regolare la pressione non comportava un maggior rischio di morte tra i malati di COVID-19, come era stato invece indicato da altri studi. Gli autori della ricerca hanno pubblicato una nota sulla rivista dicendo di non avere avuto accesso ai dati grezzi forniti dall’azienda, e di non essere quindi in grado di avere ulteriori conferme sulla loro qualità. Il dettaglio paradossale è che oltre a Mehra tra gli autori dello studio c’è anche Desai (il capo di Surgisphere), che sembra non abbia accesso alle informazioni trattate dalla sua stessa azienda.

In seguito alla vicenda, Mehra ha diffuso un comunicato a titolo personale, nel quale ha spiegato di essere entrato in contatto con Desai tramite un collega e di essersi poi reso conto di non avere elementi a sufficienza per fare completo affidamento sui dati di Surgisphere: “Non ho fatto abbastanza per assicurarmi che la fonte dei dati fosse adeguata all’uso che ne abbiamo fatto. Per questo, e per tutti i disagi causati – direttamente o indirettamente – chiedo sinceramente scusa”.

La scelta delle due riviste scientifiche di pubblicare le note degli autori degli studi, senza accompagnarle da proprie valutazioni sull’accaduto, è stata criticata da numerosi osservatori. Secondo i più critici, in un momento storico in cui si pubblicano ogni giorno decine di ricerche su una pandemia in corso sarebbero utili valutazioni e introspezioni sugli errori compiuti, soprattutto da parte di riviste molto importanti e rispettate.

L’OMS ha sospeso i test sull’idrossiclorochina

Lo ha fatto «per abbondanza di precauzione», e dopo settimane in cui era stata indicata come possibile rimedio al coronavirus soprattutto da alcuni leader politici.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sospeso i test sull’efficacia contro il coronavirus dell’idrossiclorochina, un farmaco per la malaria che secondo valutazioni preliminari era stato descritto come potenzialmente utile per prevenire l’infezione da coronavirus (senza alcuna conferma scientifica). La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump aveva detto di avere iniziato una terapia a base di idrossiclorochina, mentre da tempo varie sperimentazioni erano state avviate un po’ in tutto il mondo, anche in Italia.

L’OMS non ha fornito molti dettagli sulla sua decisione. Mike Ryan, capo del programma che si occupa delle emergenze sanitarie, ha detto che è stata presa «per abbondanza di prudenza». Il capo dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto che la sperimentazione sull’idrossiclorochina è l’unica ad essere stata interrotta fra quelle gestite dall’OMS, comprese sotto il nome di SOLIDARITY.

Si era iniziato a parlare dell’impiego dell’idrossiclorochina contro la COVID-19 a febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la sua capacità di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione. Uno studio fatto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva coinvolto un numero limitato di persone.

L’OMS aveva comunque raccomandato ai medici di tutto il mondo di non prescrivere l’idrossiclorochina al di fuori dei test clinici, dato che la sua assunzione può provocare diversi effetti collaterali.

L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

Il grande test dell’OMS contro il coronavirus

I quattro trattamenti più promettenti contro la COVID-19 saranno sperimentati su scala globale, con un sistema di raccolta dati in tempo reale per verificarne l’efficacia.

La pandemia da coronavirus sta portando alla realizzazione di uno dei più grandi test clinici a livello globale mai tentati. L’iniziativa si chiama SOLIDARITY ed è stata ideata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con l’obiettivo di sperimentare i quattro trattamenti che al momento sembrano essere più promettenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. I test coinvolgono farmaci già esistenti e usati – per esempio – contro l’HIV ed Ebola, e potranno essere svolti in migliaia di ospedali in giro per il mondo, senza particolari complicazioni per il personale medico alle prese con la più grande crisi sanitaria di questo secolo.

Nell’80 per cento dei casi il coronavirus causa sintomi lievi che non rendono necessario il ricovero in ospedale, ma per i casi restanti con sintomi più importanti o gravi il ricovero è talvolta inevitabile. I pazienti più a rischio possono sviluppare pericolose polmoniti, che devono essere trattate nei reparti di terapia intensiva, spesso facendo ricorso all’intubazione per facilitare la respirazione. I trattamenti servono a prendere tempo, in attesa che il sistema immunitario riesca a sconfiggere la malattia.

Un ricovero in terapia intensiva può quindi durare diverse settimane, e questo complica la gestione di molti pazienti gravi, perché i posti in questi reparti altamente specializzati sono pochi. Farmaci più efficaci nel trattare la COVID-19 potrebbero contribuire enormemente a ridurre i tempi di degenza, consentendo al personale sanitario di trattare molti più pazienti, evitando il sovraffollamento ospedaliero (che inevitabilmente si riflette sulla qualità dell’assistenza).

Da quando è iniziata l’epidemia da coronavirus, medici e ricercatori hanno valutato e sperimentato su piccola scala decine di diversi farmaci, già disponibili e sviluppati per altre malattie. Alcuni test si sono rivelati fallimentari, altri un poco più promettenti, ma è mancato un coordinamento internazionale per avere dati su scala più grande. L’OMS vuole quindi concentrare le attenzioni su quattro trattamenti e offrire ai medici una piattaforma online dove condividere facilmente le loro esperienze, in modo da raccogliere i dati il più rapidamente possibile.

Clorochina e idrossiclorochina
Sono due farmaci utilizzati da quasi un secolo per prevenire e trattare la malaria. Riducono l’acidità negli endosomi, le vescicole che fanno transitare materiale attraverso la membrana cellulare, uno dei meccanismi sfruttati da alcuni virus per entrare nelle cellule. Il coronavirus, però, utilizza un sistema diverso per penetrare nella cellula (tramite le proteine sulle sue punte, da cui deriva il prefisso “corona”) e non è quindi chiaro se clorochina e idrossiclorochina siano efficaci. Alcuni test di laboratorio, quindi su culture cellulari in vitro, hanno indicato un qualche effetto sul coronavirus, ma le dosi necessarie per ottenere risultati apprezzabili sono alte e questo potrebbe comportare un’eccessiva tossicità del trattamento.

Finora medici e ricercatori cinesi hanno pubblicato una ventina di studi e relazioni sulle loro esperienze cliniche con clorochina e idrossiclorochina per trattare la COVID-19, ma senza dati chiari e univoci sugli effetti dei farmaci. Altri studi condotti in Europa hanno dato esiti incerti e rimangono le preoccupazioni sulla tossicità del trattamento.

Inizialmente l’OMS non aveva intenzione di inserire i due farmaci in SOLIDARITY, ma i suoi esperti hanno poi cambiato idea in seguito al grande dibattito scientifico e nell’opinione pubblica intorno a questi trattamenti. Il confronto è stato in parte incentivato da alcune dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che in una conferenza stampa aveva definito “rivoluzionari” i due farmaci, senza però mostrare di avere compreso molto il contesto.

Lopinavir e ritonavir
La sperimentazione riguarda anche due antiretrovirali solitamente utilizzati nelle infezioni da HIV e combinati nel farmaco dal nome commerciale Kaletra. Il medicinale ha la capacità di bloccare l’attività di un enzima che attiva alcune proteine virali, consentendo in questo modo al virus dell’HIV di ottenere l’accesso alle cellule, nelle quali si replica facendo aumentare l’infezione nell’organismo.

Il Kaletra è impiegato da circa 20 anni e si è notato che può avere effetti simili con virus diversi dall’HIV. Negli anni scorsi, per esempio, si è rivelato promettente per trattare la MERS, un’altra sindrome respiratoria causata da un coronavirus, nelle cavie di laboratorio.

I primi test con il Kaletra contro l’attuale coronavirus non sono stati però molto incoraggianti. Una ricerca – svolta in Cina su 199 pazienti e pubblicata sulla rivista scientifica NEJM – spiega di non avere rilevato particolari differenze nel trattamento dei pazienti con o senza il farmaco. Lo studio specifica comunque che il medicinale è stato impiegato in uno stadio avanzato della COVID-19, quando i pazienti avevano sviluppato sintomi molto gravi, e che ci potrebbero quindi essere margini per impiegarlo su casi meno gravi e prevenire ulteriori peggioramenti.

Kaletra e interferone beta
Il trattamento prevede l’impiego di lopinavir e ritonavir con l’interferone beta, una molecola coinvolta nei sistemi di regolazione dell’infiammazione nel nostro organismo (è il sistema immunitario a causare l’infiammazione per superare le infezioni, facendo aumentare tra le altre cose la temperatura dei tessuti). Un trattamento simile era già stato sperimentato su cavie di laboratorio contro la MERS. L’impiego dell’interferone beta è però rischioso nei pazienti con COVID-19, perché potrebbe ridurre la capacità del sistema immunitario di contrastare la diffusione nell’organismo del coronavirus.

Remdesivir
Il remdesivir era stato sviluppato dall’azienda farmaceutica Gilead contro Ebola, ma senza che si rivelasse efficace come sperato nei test sul campo. Il farmaco prende comunque di mira un enzima coinvolto nella replicazione dei virus a RNA (il modo in cui è organizzato il loro codice genetico) come i coronavirus. Un paio di anni fa, una ricerca ha per esempio dimostrato che il remdesivir inibisce i coronavirus responsabili della MERS e della SARS, malattia respiratoria causata da un coronavirus simile all’attuale.

Le esperienze su remdesivir e COVID-19 disponibili finora sono aneddotiche, ma comunque incoraggianti. È però necessario uno studio molto più ampio per verificare non solo l’efficacia del farmaco, ma anche la sua sicurezza su pazienti con particolari condizioni cliniche. Come per altri farmaci simili, il remdesivir potrebbe essere efficace soprattutto se somministrato dopo l’insorgere dei primi sintomi, riducendo il rischio che peggiorino.

SOLIDARITY
L’OMS ha cercato di mantenere il più semplice possibile l’accesso al suo test globale, in modo che possano partecipare ospedali e operatori sanitari da tutto il mondo. Quando una persona risulta positiva al coronavirus, viene ritenuta compatibile per testare i farmaci e presta il proprio consenso, spetta al suo medico inserire i dati su un portale dell’OMS, specificando la presenza di eventuali malattie pregresse come problemi cardiaci, diabete o HIV. Il medico deve poi indicare quali farmaci sono disponibili nell’ospedale in cui è ricoverato il paziente ed è il sito ad assegnare una delle quattro terapie.

L’inserimento sul portale è l’unica azione richiesta ai medici per tutto il tempo di degenza del paziente. Al termine della terapia, il medico si collega nuovamente e indica sul portale la data di dimissione del paziente o del suo decesso, insieme a poche altri dettagli (per esempio se si fosse resa necessaria o meno l’intubazione).

Il grande test clinico globale organizzato dall’OMS non è “a doppio cieco”, cioè nella modalità in cui sia gli sperimentatori sia i pazienti ignorano informazioni fondamentali la cui conoscenza potrebbe influenzare i risultati. I pazienti potrebbero quindi subire l’effetto placebo sapendo di avere ricevuto uno dei farmaci della sperimentazione, rispetto ai trattamenti standard. Gli esperti dell’OMS hanno spiegato di aver valutato i costi e i benefici di questa scelta, optando per un sistema che permetta di avere il più rapidamente possibile molti dati da numerose esperienze cliniche.

SOLIDARITY non funziona comunque con uno schema completamente fisso: l’OMS terrà sotto controllo da subito i dati, man mano che arrivano tramite il portale, e interverrà per affinare le ricerche, eventualmente escludere uno dei quattro trattamenti o aggiungere nuovi farmaci sperimentali. Più medici, ospedali e istituzioni parteciperanno condividendo le esperienze su migliaia di pazienti, più il sistema si potrà rivelare utile per capire su quali soluzioni puntare.

Discovery e altri
L’Institut national de la santé et de la recherche médicale della Francia, ha annunciato “Discovery”, un progetto simile a SOLIDARITY che coinvolgerà 3.200 pazienti da sette paesi. Altri centri di ricerca stanno organizzando iniziative simili, che potranno contribuire a raccogliere dati e informazioni sui trattamenti con il maggior potenziale per trattare la COVID-19.

Esiti
L’iniziativa avviata dall’OMS è estremamente ambiziosa e non era mai stata tentata prima in questi termini, soprattutto per i tempi rapidi che si è data l’Organizzazione. Entro poche settimane dovrebbero essere disponibili i primi risultati, su cui ragionare per trovare nuove soluzioni contro la malattia. L’attuale coronavirus è del resto noto da circa tre mesi e molte delle sue caratteristiche sono ancora da scoprire. L’assenza di un vaccino, ancora in fase di sviluppo e con la prospettiva di non averlo pronto prima del prossimo anno, rende i trattamenti con i farmaci l’unica vera alternativa per ridurre la letalità della COVID-19 e fare in modo che gli ospedali possano lavorare evitando il collasso.