A che punto siamo con i farmaci contro il coronavirus

Una collaborazione internazionale sta studiando oltre 50 principi attivi che potrebbero fermare il virus, mentre c’è un primo insuccesso di una terapia antivirale.

Migliaia di ricercatori in tutto il mondo sono al lavoro per trovare nuovi trattamenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Uno dei progetti più promettenti è stato organizzato dall’Università della California (San Francisco) e ha portato all’identificazione di 50 farmaci già esistenti e sviluppati per altre malattie, che potrebbero offrire nuovi sistemi per bloccare il virus e impedirgli di replicarsi nelle cellule del nostro organismo. Rispetto ad altre epidemie emerse in passato e su scala più piccola, le ricerche stanno procedendo più velocemente, tra speranze e primi insuccessi nelle sperimentazioni.

Non c’è cura
A oggi contro la COVID-19 non c’è una cura. La maggior parte degli infetti sviluppa sintomi lievi, che passano dopo un paio di settimane di isolamento a casa assumendo farmaci per ridurre febbre e dolori. Per gli altri può essere necessario il ricovero in ospedale a causa di sintomi più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio. I pazienti ricoverati sono trattati nei normali reparti o in terapia intensiva, a seconda delle loro condizioni, ma con trattamenti che possono solamente ridurre i sintomi o favorire la respirazione (tramite mascherine a ossigeno o con l’intubazione). L’obiettivo è guadagnare tempo, evitando che il paziente si aggravi mentre il suo sistema immunitario reagisce all’infezione per sbarazzarsi del virus.

Farmaci e proteine
La ricerca di farmaci efficaci si sta quindi concentrando sull’identificazione di principi attivi che possano bloccare il coronavirus, impedendogli di attaccare le cellule e di sfruttarle per replicarsi e aumentare l’infezione. Centinaia di ricercatori coordinati dal Quantitative Biosciences Institute Coronavirus Research Group (QBI) dell’Università della California, per esempio, stanno studiando i farmaci oggi disponibili sul mercato, per identificare i candidati più promettenti contro la COVID-19. L’obiettivo è trovare principi attivi che facciano da barriera tra il coronavirus e le proteine delle nostre cellule che vengono sfruttate dal virus per produrre le sue copie.

Le ricerche presso il QBI sono state avviate a inizio gennaio, quando erano iniziate a circolare le prime informazioni sul coronavirus (SARS-CoV-2), in seguito ai primi casi gravi di polmoniti atipiche nell’area di Wuhan, in Cina, da dove è partita l’attuale epidemia. L’attività più importante ha riguardato lo studio delle proteine presenti nelle nostre cellule che vengono sfruttate dal coronavirus per replicarsi. Una mappatura di questo tipo richiede di solito un paio di anni per essere svolta, ma grazie alla collaborazione di una ventina di laboratori è stato possibile ottenere una prima mappa in una manciata di settimane.

Mappa
Il risultato è stato reso possibile dalle conoscenze accumulate negli anni scorsi, attraverso lo studio di altri virus. I ricercatori avevano per esempio già svolto una mappa delle proteine sfruttate dall’HIV e da alcuni virus che causano Ebola e la dengue.

Gli studi di laboratorio svolti a febbraio hanno permesso di scoprire oltre 400 proteine che, in un modo o nell’altro, sembrano essere coinvolte dall’attività del coronavirus sul sistema respiratorio. Sono sfruttate in vario modo, per esempio per eludere le difese dell’involucro protettivo della cellula (membrana cellulare), inserire il codice genetico (RNA) del coronavirus e sfruttare poi le strutture cellulari (organuli) per produrre nuove copie del virus, che vengono rilasciate dalla cellula. Queste copie attaccano poi altre cellule dell’apparato respiratorio per replicarsi ulteriormente. Il sistema immunitario reagisce con un’infiammazione, che serve a uccidere il virus e a distruggere le cellule che fanno da fotocopiatrici, ma non sempre il contrattacco è efficace e così si assiste a un peggioramento dei pazienti.

La mappa ha messo in evidenza diverse interazioni tra il coronavirus e proteine cellulari che, almeno finora, non sembrano avere nulla a che fare con la produzione di nuove copie del virus. Queste interazioni passate inosservate finora potrebbero nascondere la chiave per capire alcune caratteristiche della replicazione virale, offrendo la possibilità di intervenire per bloccarla. Per ogni proteina della mappa, i ricercatori stanno analizzando i principi attivi di migliaia di farmaci già esistenti, e progettati per altre malattie, alla ricerca di soluzioni per impedire al coronavirus di approfittarsene.

Un primo set di dieci farmaci è stato di recente inviato dal QBI al Mount Sinai Hospital di New York e all’Istituto Pasteur di Parigi. I test di laboratorio prevedono, tra le altre cose, l’analisi della reazione del coronavirus ai principi attivi in cellule di primati non umani in vitro. A seconda dei risultati, i ricercatori potranno poi testare i farmaci su cavie animali infettate con il coronavirus.

Solo dopo questi primi test si potrà procedere con la sperimentazione sugli esseri umani, con grande attenzione per gli eventuali effetti collaterali. Principi attivi utili per ridurre la replicazione del coronavirus intervenendo su alcune proteine, per esempio, potrebbero avere effetti imprevisti su altre attività dell’organismo. Le nuove tecnologie e l’impegno di numerosi ricercatori stanno consentendo di accorciare i tempi, ma saranno comunque necessari mesi prima di identificare un eventuale trattamento efficace per i casi più gravi di COVID-19.

Antivirali
Il lavoro del QBI interessa numerosi farmaci sviluppati per trattare alcune forme di tumore e non necessariamente le infezioni virali. Altri ricercatori si stanno invece dedicando agli antivirali già disponibili, cioè ai farmaci che vengono utilizzati per rallentare o fermare la replicazione dei virus. I loro principi attivi sono piuttosto specifici, ma si ipotizza che con una giusta combinazione si possano ottenere risultati anche con la COVID-19.

Tra gli antivirali ritenuti per ora più promettenti c’è il remdesivir, farmaco di recente introduzione, sviluppato negli anni delle epidemie causate da Ebola in Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. La sua sperimentazione portò a risultati che sembravano essere incoraggianti, ma un impiego su più grande scala rivelò una scarsa efficacia rispetto ad altre soluzioni. Il farmaco era stato sperimentato anche per trattare alcuni casi di MERS e SARS, sindromi respiratorie causate da altri coronavirus, con qualche risultato positivo.

Il remdesivir è attualmente oggetto di almeno cinque sperimentazioni cliniche. L’obiettivo è capire non solo se sia efficace contro l’attuale coronavirus, ma anche se comporti effetti collaterali tollerabili dai pazienti. In alcuni casi, infatti, farmaci molto potenti potrebbero avere la controindicazione di arrecare più danno che benefici, e trovare il giusto equilibrio non è semplice.

Primo insuccesso
Dalla Cina sono intanto arrivate le prime valutazioni su un’altra sperimentazione con antivirali che era stata ritenuta promettente, e le notizie non sono buone. Sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine, un gruppo di ricercatori ha segnalato di non avere rilevato benefici su pazienti gravemente malati di COVID-19 dopo la somministrazione di lopinavir e ritonavir, due antivirali normalmente impiegati contro l’HIV e che sembravano essere indicati nel trattamento di infezioni da coronavirus.

Nello studio, i ricercatori spiegano comunque che la loro esperienza è stata parziale e che le loro conclusioni non devono essere considerate definitive. La ricerca è stata condotta su 199 adulti di età compresa tra i 49 e i 68 anni, tutti ricoverati in gravi condizioni a causa del coronavirus in un ospedale di Wuhan. Per 14 giorni metà è stata trattata con le normali terapie e metà con i due antivirali: al termine della sperimentazione non sono state rilevate differenze tra i due gruppi né in termini di accorciamento della malattia né nella riduzione delle morti.

In un editoriale che accompagna lo studio, medici e ricercatori sono stati lodati per l’accuratezza del loro lavoro, realizzato in condizioni molto difficili con gli ospedali pieni di pazienti da assistere. L’auspicio è che sperimentazioni cliniche come questa siano ripetute in altre strutture ospedaliere, per avere più dati e informazioni sull’eventuale efficacia di farmaci e trattamenti.

Cosa vuol dire isolare un virus

E perché è importante il risultato ottenuto dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, anche se non è arrivato per primo.

Domenica 2 febbraio, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus (2019-nCoV), che ha causato oltre 360 morti in Cina e 17mila casi di contagio. Agenzie di stampa e media italiani hanno ampiamente ripreso la notizia, parlando dell’Italia come del “primo paese” ad avere isolato il virus. In realtà lo stesso risultato era stato ottenuto nelle settimane scorse da diversi altri centri di ricerca, a cominciare da quelli cinesi. Esserci arrivati prima o dopo non toglie comunque nulla all’importanza del risultato ottenuto dallo Spallanzani, che aiuterà i ricercatori a comprendere meglio le caratteristiche del coronavirus e a testare farmaci e vaccini per contrastarlo.

Che cos’è un virus?
Per farsi un’idea di cosa significhi isolare e sequenziare un virus, conviene fare un breve ripasso di biologia. I virus sono entità biologiche piuttosto semplici e si comportano come i parassiti: hanno cioè bisogno di un altro organismo per moltiplicarsi e prosperare. Le modalità di sviluppo e di trasmissione dei virus variano molto a seconda delle specie, ma in linea di massima seguono questo schema: si intrufolano nelle cellule, ingannando le difese delle loro membrane, e successivamente iniettano il loro codice genetico per modificare il comportamento della cellula e sfruttarla per replicarsi.

La presenza del virus innesca una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato (negli animali), che di solito consente di eliminarlo. Il sistema immunitario serba poi memoria dell’incontro, in modo da impedire al virus di fare nuovamente danni; i vaccini consentono di acquisire questa memoria senza che ci si debba ammalare. Alcuni virus sono però più pericolosi di altri e riescono a causare infezioni croniche, come avviene per esempio con l’HIV.

Cosa vuol dire isolare un virus?
Lo scopo dell’isolamento è ottenere la possibilità di produrre grandi quantità dello stesso virus, in modo da poterlo poi studiare o sfruttare per verificare il modo in cui reagisce con alcuni farmaci.

Un virus viene “isolato” quando è separato dall’organismo infetto iniziale. Semplificando: si prelevano campioni (sangue, tessuto cellulare, urina o altro) dall’individuo interessato e li si trasferiscono in laboratorio, avendo cura che questi non subiscano contaminazioni. Una prima attività riguarda la “pulizia” del campione, un trattamento essenziale per escludere funghi e batteri, che interferirebbero con l’attività virale.

Come abbiamo visto, i virus hanno bisogno delle cellule per moltiplicarsi, a differenza per esempio dei batteri che producono e sviluppano colonie autonomamente. I ricercatori devono quindi trovare il modo di “coltivare” il virus, cioè di indurlo a replicarsi. Possono farlo con tecniche in vivo o in vitro: nella prima si utilizza un intero organismo vivente (come un animale o una pianta), mentre nella seconda tutto avviene su piastre e provette di vetro.

In vitro
Diversi tipi di cellule possono essere impiegati per far crescere e moltiplicare i virus, da un campione di partenza. Si parte di solito da cellule prelevate da un animale, che vengono preparate in una coltura che viene poi messa in contatto con il campione virale. Questa tecnica avvia un fenomeno (adsorbimento) attraverso il quale il virus può intrufolarsi nelle cellule o inserire il suo codice genetico, infettarle e indurle a produrre un gran numero di sue nuove copie.

In vivo
Di solito per la tecnica in vivo si utilizzano embrioni in fase di sviluppo, per esempio nel caso del vaccino influenzale si procede utilizzando le uova fecondate (lo avevamo raccontato estesamente qui). L’embrione o l’intero animale fanno da incubatore per la replicazione virale, utile poi per studiare il virus e le sue caratteristiche.

Studio del virus
Dalle colture in vitro o in vivo si possono ottenere campioni, per poter osservare su una scala più grande gli effetti del virus. Di solito l’osservazione inizia al microscopio per valutare i danni causati dall’infezione. Le cellule colonizzate mostrano anormalità (“effetto citopatico”) come cambiamenti nella forma, anomalie nelle loro membrane e nei nuclei.

E che cos’è il sequenziamento?
In biologia molecolare, il sequenziamento serve per avere una trascrizione dell’ordine delle basi (adenina, citosina, guanina e timina) che fanno parte del frammento di DNA che si sta analizzando (nel caso dei virus è molto spesso l’RNA, una versione semplificata). Nella sequenza sono codificati i geni, e le istruzioni per quando e come devono essere espressi (espressione genica). In generale, se ottieni la sequenza puoi capire il come e il perché della vita di un organismo. Di alcune porzioni di DNA conosciamo già le funzioni, quindi i ricercatori possono mettere a confronto la sequenza che hanno ottenuto con quelle già conosciute, in modo da ricostruire almeno in parte cosa è codificato nel DNA.

Per sequenziare un virus, si esamina un campione prelevato da un individuo infetto e se ne effettua poi l’analisi. Il problema è che in queste condizioni il materiale genetico del virus è confuso con quello della cellula che è stata colonizzata. I progressi raggiunti negli ultimi anni hanno consentito di attenuare il problema e di accelerare i processi di sequenziamento, attraverso i virus isolati.

Le prime righe del sequenziamento del nuovo coronavirus:

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Che cosa hanno fatto allo Spallanzani?
Le ricercatrici Concetta Castilletti, Francesca Colavita e Maria Rosaria Capobianchi nei giorni scorsi si sono messe al lavoro sui campioni prelevati da uno dei due pazienti cinesi, ricoverati presso lo Spallanzani dopo che avevano mostrato sintomi da infezione da nuovo coronavirus. I campioni sono stati poi utilizzati per isolare il virus e coltivarlo, seguendo le procedure di sicurezza per evitare contagi.

Dopo qualche giorno, il gruppo di ricerca ha riscontrato l’effetto citopatico, a conferma del successo nella coltivazione del virus. Non era un risultato scontato, visto che il tasso di successo è di solito intorno al 10 per cento, cosa che rende necessaria la preparazione di più colture alle giuste condizioni ambientali. In Italia è stato inoltre sequenziato il nuovo coronavirus, trovando caratteristiche genetiche analoghe a quelle già rilevate in precedenza da altri centri di ricerca.

Chi ha sequenziato per primo il nuovo coronavirus?
Le prime polmoniti sospette sono state riscontrate a Wuhan, la città cinese epicentro della crisi sanitaria, alla fine del 2019, inducendo diversi centri di ricerca in Cina a effettuare controlli di laboratorio sui pazienti interessati. Il 10 gennaio, a poco più di un mese dal primo caso di polmonite, i ricercatori cinesi hanno annunciato di avere sequenziato il nuovo coronavirus, e hanno reso pubblici i risultati della loro analisi. La rapidità è stata notevole, se si considera che con il coronavirus che causa la SARS i tempi furono molto più lunghi, a testimonianza dei progressi raggiunti negli ultimi anni.

Nelle settimane successive, centri di ricerca in Cina e in altre parti del mondo hanno sequenziato campioni di coronavirus prelevati da altri pazienti, ottenendo informazioni genetiche su una ventina di casi. Il 31 gennaio scorso, l’Istituto Pasteur della Francia ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus, da campioni prelevati da un paziente cinese infetto ricoverato in un ospedale francese.

OK, ma quindi la storia di essere arrivati primi?
Domenica 2 febbraio, il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato con grande enfasi, nel corso di una conferenza stampa, l’isolamento del nuovo coronavirus da parte dello Spallanzani, ma non ha detto che l’Italia avesse raggiunto per prima questo risultato. Il gruppo di ricerca ha poi esposto i risultati delle attività svolte presso l’istituto, senza intestarsi alcun primato.

Nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto si parlava invece di “primi in Europa”: l’ufficio stampa ha spiegato al Post che il testo era stato scritto nella serata di venerdì 31 gennaio, senza essere al corrente dell’annuncio dell’Istituto Pasteur.

Perché non c’è un vaccino contro il nuovo coronavirus?

Semplicemente perché è troppo presto, ma sono già in corso le ricerche per produrlo, e il più in fretta possibile.

Contro il nuovo coronavirus (2019-nCoV) – che ha causato oltre cento morti in Cina e il contagio di migliaia di persone, non ci sono cure né vaccini. Mentre il personale medico offre assistenza ai malati per trattare i sintomi, e le autorità cinesi provvedono alle attività di contenimento delle infezioni, alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche in giro per il mondo sono al lavoro per realizzare un vaccino, nella speranza di riuscirci in tempi stretti. Attualmente, la soluzione più rapida e praticabile per ridurre i rischi resta l’isolamento dei pazienti e lo stretto controllo sui nuovi contagi, ma nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare, un vaccino potrebbe rivelarsi determinante.

Le società farmaceutiche Johnson & Johnson, Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals sono già al lavoro per lo sviluppo di vaccini contro il nuovo coronavirus, così come alcuni centri di ricerca privati e pubblici, come i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della Salute degli Stati Uniti.

Inovio ha ricevuto un fondo da 9 milioni di dollari dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale. CEPI ha finanziato almeno altri due programmi di ricerca per lo sviluppo di un vaccino contro 2019-nCoV.

Nell’ultimo secolo, i vaccini si sono rivelati una risorsa fondamentale per ridurre al minimo la diffusione di malattie, anche molto pericolose, salvando centinaia di milioni di vite umane. Per molto tempo lo sviluppo di un vaccino contro un virus completamente nuovo ha richiesto tempo – mediamente tra i due e i tre anni – ma negli ultimi tempi i progressi nella genomica (la scienza che studia il genoma, la totalità del DNA o RNA contenuto in un organismo) e un maggiore coordinamento internazionale hanno consentito di accelerare sensibilmente i tempi. I ricercatori che lavorano al vaccino contro 2019-nCoV confidano di arrivare ai primi test entro tre mesi.

Prima di potere essere impiegato sulla popolazione e su larga scala, un vaccino deve superare una complessa serie di test, prima sugli animali e successivamente su gruppi di esseri umani. L’intero processo richiede tempo e difficilmente può essere svolto in meno di un anno, dall’inizio dello sviluppo al suo impiego. Allo stato attuale i vaccini non sono quindi utili per le prime fasi di un’epidemia con un nuovo virus, banalmente perché ancora non esistono, ma potrebbero diventarlo in una seconda fase se il contagio proseguisse e diventasse diffuso.

Salvo alcune eccezioni, ogni volta che viene scoperto un nuovo virus, i ricercatori devono ricominciare da zero per analizzarlo e comprendere quali siano i suoi punti deboli. Quando ci furono i casi di SARS in Cina nel 2003, furono necessari 20 mesi prima che fosse pronto per i test clinici un vaccino, sulla base delle informazioni genetiche raccolte sul virus che causava la grave sindrome respiratoria. Nel 2015 per il virus Zika furono invece necessari appena 6 mesi, a testimonianza dei progressi in ambito tecnico e della ricerca.

Nel caso della SARS le lentezze furono in parte dovute alle reticenze del governo cinese, che preferì non diffondere da subito alcune informazioni sulla malattia e i contagi, temendo che la notizia potesse danneggiare l’economia della Cina in piena crescita. Con il nuovo coronavirus le cose sono andate diversamente: nei primi giorni del 2020, i ricercatori cinesi hanno messo a disposizione i profili genetici del virus, condividendoli con la comunità scientifica internazionale.

I ricercatori statunitensi dell’NIH hanno potuto confrontare le caratteristiche genetiche del nuovo coronavirus con quelle dei coronavirus che causano la SARS e la MERS, altra malattia infettiva particolarmente aggressiva emersa qualche anno fa in Cina (e contenuta prima che potesse causare un’epidemia su larga scala). Si sono concentrati sulle “punte” del coronavirus, quelle che danno il nome a questa famiglia di virus proprio perché i loro contorni ricordano il profilo di una corona.

Due virioni del nuovo coronavirus al microscopio elettronico (Centro Dati Nazionale di Microbiologia, Cina)

Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).

I ricercatori sanno che bloccando le punte si può togliere al coronavirus la sua capacità di legarsi alle cellule che vuole colonizzare. Per questo in passato all’NIH, come in altri centri di ricerca, sono stati sviluppati vaccini sperimentali che spuntavano le corone dei coronavirus che causano la SARS e la MERS. Nel primo caso il vaccino non è mai stato commercializzato perché la SARS è stata contenuta per tempo, mentre nel secondo il vaccino è ancora in fase di perfezionamento e lo scorso anno ha superato i primi test su esseri umani.

Considerate le somiglianze tra il coronavirus della SARS e l’attuale, i ricercatori dell’NIH hanno pensato di accelerare lo sviluppo di un nuovo vaccino riproducendo alcuni dei meccanismi già sviluppati. Hanno quindi sostituito solo parte del codice genetico, inserendo quello del nuovo coronavirus, e poi ne hanno testato l’efficacia. È il primo passo di un lavoro di ricerca più lungo, che potrà essere proseguito dalle aziende farmaceutiche come Moderna. L’obiettivo è di trovare il modo di creare un vaccino che “insegni” al sistema immunitario a riconoscere le punte del coronavirus, e a contrastarle evitando che il virus riesca a legarsi alle cellule.

Il progetto prevede una collaborazione che interesserà altre istituzioni e centri di ricerca, in modo da avere in poche settimane un prototipo del vaccino da testare in laboratorio. Se il vaccino sperimentale si rivelerà promettente a sufficienza, continuerà a essere sviluppato e, appurata la sua sicurezza, messo alla prova sugli esseri umani.

Inovio, un’altra azienda farmaceutica, confida invece di avere un altro vaccino sperimentale pronto per l’inizio dell’estate. I suoi ricercatori hanno analizzato il profilo genetico del nuovo coronavirus e, tramite alcuni modelli al computer, si sono concentrati sulle sue parti più vulnerabili. Se i test nell’estate dovessero dare esiti positivi, i ricercatori potrebbero iniziare a sperimentare il vaccino in Cina entro la fine dell’anno.

Johnson & Johnson stima che potrebbero essere necessari dagli 8 ai 12 mesi per iniziare i test clinici del suo vaccino su esseri umani. Per allora la crisi sanitaria legata a 2019-nCoV potrebbe essere finita, ma non c’è ancora modo di saperlo e le organizzazioni sanitarie internazionali preferiscono non farsi trovare impreparate. Anche per questo motivo il modello della partecipazione tra governi e fondazioni adottato da qualche anno si sta rivelando proficuo: fa da incentivo alla ricerca per lo sviluppo di soluzioni che potrebbero rivelarsi superflue, e che in altre circostanze non verrebbero esplorate.

Allo stato attuale, salvo particolari complicazioni, in buona parte dei casi il sistema immunitario delle persone con nuovo coronavirus impara a contrastare la sua presenza, portando alla guarigione. Le notizie sulle persone infette e poi guarite provenienti dalla Cina non sono però ancora molto chiare, così come non lo sono quelle su chi sviluppa sintomi gravi e deve restare a lungo in ospedale, per ricevere trattamenti che riducano i sintomi e aiutino il sistema immunitario a reagire.

Il sistema immunitario mantiene di solito memoria dei virus che ha incontrato, e impedisce loro di costituire nuovamente un rischio. I vaccini sono un’ottima soluzione per far sviluppare questa memoria senza che ci si debba ammalare, riducendo quindi i rischi soprattutto per le persone più esposte a causa di altri problemi di salute. L’immunizzazione e la riduzione dei contagi contribuiscono a fermare un’epidemia, evitando che si diffonda.

Mentre si lavora ai vaccini, l’attività più importante per ridurre i rischi di nuovi contagi passa dall’isolamento dei nuovi casi e dalle buone pratiche igieniche. Seppure con colpevoli ritardi iniziali da parte delle autorità cinesi, lo sforzo internazionale permise 16 anni fa di contenere l’epidemia di SARS senza che fosse ancora disponibile un vaccino, e qualcosa di analogo sarebbe successo qualche anno dopo con la MERS.