Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Perché non ci sono vaccini contro i coronavirus

Non siamo riusciti a farne uno contro SARS e MERS negli ultimi 15 anni, ma l’attuale sforzo contro la COVID-19 è senza precedenti e i ricercatori sono ottimisti.

Un vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere la risorsa più importante per fermare la pandemia da coronavirus, ma tempi ed esiti delle numerose ricerche in corso per svilupparlo sono tutt’altro che scontati. I più ottimisti ritengono che un primo vaccino da impiegare sulla popolazione potrebbe essere pronto entro un anno, ma altri esperti invitano a maggiori cautele, ricordando che sviluppare e produrre vaccini richiede enormi risorse ed è estremamente complicato. A oggi, inoltre, non esiste alcun vaccino già impiegato sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni.

Coronavirus
Il primo coronavirus umano fu scoperto all’inizio degli anni Sessanta e ricondotto a una delle cause del comune raffreddore, che comporta una lieve infezione delle vie aeree superiori. Negli anni, i ricercatori avrebbero scoperto diversi altri tipi di coronavirus, chiamandoli in questo modo per la loro forma particolare: attaccate alla capsula che protegge il codice genetico (RNA) del virus, ci sono tante punte che ricordano quelle di una corona. È attraverso le proteine presenti su queste punte che i coronavirus riescono a legarsi alle membrane delle cellule, ingannando le loro difese per introdurre il codice genetico virale e sfruttare i meccanismi cellulari per replicarsi, con nuove copie che andranno poi a invadere altre cellule.

SARS
Dopo un lungo periodo di scarso interesse, i ricercatori hanno iniziato a occuparsi più intensamente dei coronavirus nel 2002, quando fu scoperta una grave malattia respiratoria – la SARS – causata proprio da uno di questi virus. In pochi mesi, la SARS causò la morte di almeno 700 persone su 8mila casi rilevati, rivelandosi particolarmente pericolosa e letale. La malattia si sviluppò per lo più negli ambienti ospedalieri in alcuni paesi asiatici e fu contenuta relativamente in fretta, con una drastica riduzione dei casi già nel luglio del 2003.

MERS
Una decina di anni dopo, un’altra malattia causata da un coronavirus – la MERS – portò nuove grandi preoccupazioni tra ricercatori e medici, per il suo alto tasso di letalità, intorno al 35 per cento: più di un terzo delle persone con la malattia moriva. Anche per la MERS la diffusione al di fuori degli ospedali, dove si concentrava la maggior parte dei casi, divenne in breve tempo estremamente sporadica e questo contribuì alla riduzione dei casi e a un più facile contenimento della malattia. I casi positivi rilevati furono circa 2.500 con quasi 900 morti. La MERS costituisce comunque ancora un pericolo per la salute pubblica, e per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mantiene iniziative e progetti per contenerla il più possibile.

Non ci sono vaccini per SARS e MERS
Le ricerche di un vaccino per la SARS furono avviate quasi immediatamente dopo la scoperta della malattia, ma con tempi piuttosto lunghi, se paragonati a quelli delle attuali ricerche contro il coronavirus della COVID-19 che si basano su tecnologie che non erano disponibili circa 20 anni fa. Per mappare le informazioni genetiche (genoma) del coronavirus della SARS furono necessari quasi quattro mesi, a differenza delle poche settimane necessarie a inizio anno per l’attuale coronavirus.

Fu poi necessario più di un anno per avere un primo vaccino sperimentale contro la SARS, i cui test iniziarono a Pechino (Cina) alla fine del dicembre del 2004. L’epidemia era ormai finita e la malattia non costituiva più un’immediata minaccia, quindi le attività di ricerca rallentarono e fu data la priorità ad altri studi. Con la MERS le cose non andarono molto diversamente: i tempi di mappatura del coronavirus che la causa furono un po’ più rapidi, ma lo sviluppo di un vaccino si rivelò comunque difficile e particolarmente dispendioso.

L’economia dei vaccini
La scarsa diffusione delle due malattie e le epidemie piuttosto contenute che hanno causato negli anni sono tra le principali cause dell’inesistenza di un vaccino. Si stima che dall’avvio delle prime ricerche alla commercializzazione i costi per lo sviluppo di un vaccino possano aggirarsi intorno a un miliardo di dollari, una spesa enorme e difficilmente alla portata di singoli centri di ricerca, che avviano quindi collaborazioni con le aziende farmaceutiche per proseguire le loro attività o provano ad accedere a fondi di iniziative internazionali benefiche.

Sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico, sviluppare un vaccino è come fare una scommessa: si punta su una soluzione investendo grandi risorse, confidando che questa si riveli efficace e che nel frattempo l’esigenza di avere un vaccino resti alta. La domanda è determinata da numerosi fattori, che si riconducono comunque all’esistenza e alla diffusione di una malattia infettiva che si vuole fermare: se la malattia è poco diffusa e porta a contagi piuttosto sporadici, viene meno l’esigenza di produrre un vaccino per contrastarla, perché le risorse impiegate per svilupparlo potrebbero essere investite meglio in altre iniziative.

Dinamiche di questo tipo sono sempre in gioco non solo nel settore farmaceutico, ma anche in quello della ricerca pubblica e derivano da valutazioni su costi e opportunità. La ricerca per malattie più diffuse può portare in prospettiva a benefici per un maggior numero di persone, soprattutto nel settore dei vaccini dove l’obiettivo è prevenire infezioni che causano altri problemi di salute (alcuni virus e batteri possono contribuire a far sviluppare patologie rare e invalidanti, per esempio).

Sviluppare vaccini
Tutti questi fattori, insieme alle difficoltà tecniche, hanno fatto sì che a oggi non fossero sviluppati vaccini contro la SARS e la MERS, ma questo non significa che gli sforzi non siano proseguiti. Di recente, l’OMS ha comunicato che su 33 vaccini sperimentali per la SARS solamente due hanno raggiunto la fase dei test clinici con esseri umani, tutti gli altri si sono fermati prima delle sperimentazioni sugli individui. Per la MERS solo tre vaccini hanno raggiunto la fase dei test clinici, su 48 candidati.

Semplificando molto, un vaccino serve a renderci immuni senza che prima ci si debba ammalare. Per ottenere questo risultato si possono impiegare diverse strategie, come somministrare una versione depotenziata dell’agente infettivo (virus o batterio) o solo dei suoi “pezzi”, in modo che il nostro sistema immunitario impari a riconoscere la minaccia, a contrastarla e a serbarne un ricordo nel caso di successive infezioni.

Nel Novecento, i vaccini hanno permesso di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e nell’ultimo secolo hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione, in buona parte del mondo.

Trovare il giusto sistema per istruire il nostro sistema immunitario senza farci ammalare non è però semplice, e le complicazioni sono spesso dovute a come sono fatti gli agenti infettivi. Si stima che esistano milioni di diverse specie di virus in natura e che di queste solo 5mila siano state descritte nel dettaglio. Ogni specie ha proprie caratteristiche e spesso una spiccata tendenza a mutare, cioè a modificare alcune delle proprie caratteristiche per eludere le difese degli organismi che attacca, in modo da poter diffondere l’infezione e proseguire la propria esistenza. Le differenze e le mutazioni sono il grattacapo più grande per i ricercatori che sviluppano i vaccini.

Identificata la soluzione più promettente, viene avviata la fase di sperimentazione vera e propria per comprendere capacità e limiti del nuovo vaccino. Di solito si effettuano prima sperimentazioni in laboratorio su cavie animali: viene somministrato loro il vaccino e dopo qualche tempo il virus contro il quale dovrebbero essere diventati immuni. Se gli animali si ammalano, significa che qualcosa non ha funzionato nella progettazione del vaccino.

Ci sono naturalmente molti altri scenari nella sperimentazione che comprendono, per esempio, la somministrazione di una o più dosi a cavie sane e che non verranno infettate, semplicemente per valutare la sicurezza del vaccino, l’attivazione della risposta immunitaria e la sua durata.

Una volta verificate sicurezza ed efficacia del vaccino, con tutte le cautele del caso – considerato che un test su cavie animali non implica risultati analoghi per gli esseri umani – si passa ai test clinici che coinvolgono volontari di solito in aree dove è presente la malattia infettiva. Per motivi etici non si procede a infettare i volontari come viene invece fatto nelle prime sperimentazioni sulle cavie animali, e questo implica ulteriori difficoltà nel mantenere tempi rapidi nella valutazione di un nuovo vaccino (il rischio di fare ammalare un individuo e di non poterlo poi curare nel caso in cui non funzionasse l’immunizzazione sarebbe del resto troppo alto).

Verificata l’efficacia, la parte più consistente e lunga diventa il periodo di osservazione sui volontari che hanno ricevuto il vaccino. Vengono tenuti periodicamente sotto controllo per alcuni anni, sia per assicurarsi che la vaccinazione non abbia portato a effetti collaterali imprevisti (un’evenienza piuttosto rara) sia per valutare la durata dell’immunizzazione di ogni individuo vaccinato.

È un passaggio essenziale e necessario, soprattutto perché, a differenza di quasi tutti gli altri farmaci, un vaccino viene somministrato per evitare una minaccia che le persone non hanno ancora incontrato e per la quale non stanno soffrendo, invece che per una malattia già esistente.

In condizioni normali l’intero processo può durare svariati anni e questo, insieme alle ragioni economiche che abbiamo visto prima, spiega perché a quasi 20 anni dai primi casi di SARS rilevati e poi di MERS non esista ancora un vaccino contro i loro coronavirus.

E per l’Ebola e l’AIDS?
L’Ebola e l’AIDS sono due malattie causate da virus diversi tra loro e diversi dai coronavirus, quindi fare un confronto diretto sarebbe piuttosto fuorviante. Si possono però derivare alcuni insegnamenti dalla ricerca dei vaccini per queste due malattie.

La malattia da virus Ebola causa febbre molto alta ed emorragie interne che si rivelano spesso letali. È diffusa per lo più nell’Africa sub-sahariana e causa focolai relativamente limitati perché è molto letale: in media uccide più della metà degli infetti e quindi i virus che la causano (ce ne sono più tipi) non rimangono molto a lungo in circolazione. Sono stati necessari quasi 15 anni prima che un vaccino fosse realizzato e poi approvato per uso medico dalle principali autorità sanitarie internazionali. L’approvazione definitiva è avvenuta appena lo scorso anno, anche se il vaccino (il suo nome commerciale è Ervebo) era già stato impiegato nelle emergenze sanitarie dovute alle epidemie degli ultimi anni nella Repubblica Democratica del Congo con risultati incoraggianti.

Contro l’AIDS non esiste invece a tutt’oggi un vaccino, nonostante il virus implicato nel suo sviluppo (HIV) sia noto da circa 40 anni. La ricerca di una soluzione efficace si è rivelata estremamente complessa, sia a causa dell’alta capacità del virus di mutare, sia perché lo stesso profilo genetico dell’HIV è estremamente variabile e non è semplice creare un vaccino “ad ampio raggio” che riesca a coprire tutte queste differenze. L’HIV inoltre può rimanere per decenni inattivo nelle persone infette, che conducono una vita senza sintomi. Non è chiaro dove restino queste “riserve” del virus e che cosa fa sì che diventino attive a un certo punto, così come non ci sono casi chiari di guarigione che potrebbero aiutare i ricercatori a sviluppare vaccini di nuova generazione.

Quindi il vaccino contro la COVID-19?
Con circa 2,6 milioni di casi positivi rilevati in tutto il mondo e oltre 180mila morti, la COVID-19 è la più grande emergenza sanitaria degli ultimi tempi legata a una malattia infettiva, e per questo ha suscitato una mobilitazione molto più grande rispetto a quanto avvenne per SARS e MERS, rimaste confinate in aree geografiche molto più ristrette. Oltre agli sforzi sanitari in corso, che interessano milioni di medici in tutto il mondo, la pandemia ha portato a una produzione senza precedenti di ricerche sui coronavirus e nello specifico sul SARS-CoV-2 che causa la COVID-19.

Il senso di urgenza per un vaccino è condiviso dall’OMS, dalle istituzioni sanitarie e dai governi di buona parte del mondo. Complici i progressi raggiunti negli ultimi anni nelle tecniche di analisi e sequenziamento genetico, numerosi centri di ricerca hanno potuto sviluppare vaccini sperimentali in tempi stretti.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OMS, a oggi ci sono 83 vaccini candidati contro la COVID-19 e sei di questi sono entrati nelle fasi iniziali dei test clinici. Ciò non implica che un vaccino sia praticamente pronto, ma indica comunque un grande fermento nella ricerca che rende ottimisti osservatori ed esperti.

A marzo a Seattle (Stati Uniti) è stato avviato il primo test clinico su esseri umani, saltando quelli preliminari sugli animali, per verificare sicurezza ed efficacia del loro vaccino. L’Università di Oxford (Regno Unito) ha anche avviato i primi test su esseri umani e confida di produrre entro la fine dell’estate un milione di dosi, per verificare l’efficacia della sua soluzione su un campione rappresentativo della popolazione. Sanofi e GSK, due delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, hanno annunciato una collaborazione per sviluppare un loro vaccino.

Sicurezza e immunità
La strada verso un vaccino contro la COVID-19 è comunque ancora lunga. I ricercatori dovranno dimostrare che le loro proposte siano prima di tutto sicure e che non causino più rischi per la salute rispetto a quelli che dovrebbero prevenire. Dovranno poi dimostrare che il vaccino attivi una risposta immunitaria nel nostro organismo e che questa rimanga per un lasso di tempo accettabile.

A oggi non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni al SARS-CoV-2, e questo potrebbe condizionare sforzi ed esiti delle ricerche per un vaccino. Per altri coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, la memoria immunitaria dura poco meno di un anno, poi sembra svanire esponendoci nuovamente alla malattia. Per la SARS, il cui coronavirus ha diverse cose in comune con quello attuale, il periodo di immunizzazione sembra essere più ampio, e questo lascia un poco più ottimisti gli esperti.

Se il periodo di immunità dovesse corrispondere a un anno circa, e si trovasse un vaccino efficace, potrebbe essere necessario vaccinarsi ogni anno, come già avviene con le campagne vaccinali stagionali per l’influenza (che è causata da virus diversi dai coronavirus, e che sono più mutevoli).

Verifiche e produzione
Una volta dimostrata l’affidabilità e la capacità di immunizzare, il vaccino dovrà essere analizzato e poi approvato dai principali organismi di controllo per la sicurezza dei farmaci. Questi controlli sono basati sulle analisi svolte da chi propone il vaccino, ma le autorità possono chiedere ulteriori approfondimenti e test, se ritengono che le evidenze presentate non siano sufficienti.

Quando un vaccino sarà approvato, occorrerà affrontare un’altra grande sfida: produrne quantità sufficienti per diffonderlo tra la popolazione. Considerata la diffusione della malattia e le fasce di età più a rischio, potrebbero essere necessari miliardi di dosi di vaccino, una quantità che richiederebbe uno sforzo produttivo senza precedenti. I tempi per produrre i vaccini variano molto a seconda delle soluzioni e delle tecnologie utilizzate: per quelli influenzali sono necessarie settimane.

Stimare con precisione il numero di persone da vaccinare è complicato e molto dipenderà dalle valutazioni dei singoli stati, e dalla disponibilità di quantità sufficienti di vaccini. Gli esperti dicono che dovrebbe diventare immune il 60-70 per cento della popolazione per ridurre la diffusione della malattia. Nella percentuale sono comprese le persone che si ammalano e guariscono, ma questo lascia comunque la necessità di vaccinare milioni di persone in ogni paese. Un vaccino non è inoltre mai efficace al 100 per cento, quindi nei conteggi occorrerà tenere in considerazione gli individui che lo riceveranno, ma non svilupperanno comunque una risposta immunitaria tale da proteggerli.

Scelte
I governi dovranno quindi fare scelte sulla base delle dosi di vaccino di cui disporranno. I primi a essere vaccinati potrebbero essere gli operatori sanitari, per ridurre il loro rischio di infezione e assicurarsi che possano fornire assistenza medica. Il vaccino potrebbe essere poi somministrato ai lavoratori nei settori essenziali, nelle altre persone a rischio (per esempio con malattie già in corso) e negli anziani, la fascia della popolazione più esposta al coronavirus. Per le persone anziane rimane il problema di una minore risposta immunitaria rispetto ai soggetti più giovani, condizione che potrebbe rendere necessari più richiami del vaccino.

Tempi
Come abbiamo visto, il percorso verso un vaccino contro la COVID-19 è ancora piuttosto lungo e tortuoso. Gruppi di ricerca e aziende farmaceutiche mostrano un certo ottimismo, sostenendo che entro la fine dell’anno si potrebbero già avere vaccini sufficientemente sicuri e sui quali effettuare test su larga scala. Il parere di diversi immunologi è che non avremo a disposizione un vaccino prima del prossimo anno, e che potrebbero essere necessari fino a un paio di anni per avere dosi disponibili per coprire le esigenze della maggior parte della popolazione.

Nel frattempo, medici e ricercatori confidano di elaborare protocolli di cura più efficaci contro la COVID-19, anche grazie ai numerosi studi che vengono pubblicati quotidianamente sugli effetti della malattia sul nostro organismo. Le pratiche di distanziamento sociale e i nuovi cicli di isolamento, come rimanere a casa, contribuiscono inoltre a tenere sotto controllo la situazione, dando più possibilità agli ospedali di trattare i malati senza essere sopraffatti da ondate di pazienti, come avvenuto all’inizio dell’epidemia in Italia.

Cos’è la febbre

Cosa sappiamo – e come lo abbiamo scoperto – dell’aumento della temperatura dei nostri corpi.

Uno dei sintomi più comuni della COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è la febbre, ma la febbre non è necessariamente un sintomo della COVID-19: si può avere la COVID-19 senza febbre (e con sintomi lievissimi) così come si può avere la febbre senza che questo sia per forza segno di una infezione da coronavirus.

In questi giorni scoprire di avere qualche linea di febbre può fare una differenza impensabile fino a qualche mese fa, ma ci sono ancora tante cose che non sappiamo sulla temperatura corporea umana: a cominciare dal fatto che non esiste un singolo valore per il quale si possa parlare davvero di “febbre” in modo univoco. E anche una volta che si sceglie un certo valore, è difficile fare misurazioni davvero precise e omogenee.

La prima cosa da dire sulla febbre è che è un sintomo di qualcos’altro, non una malattia “indipendente”. Per capirlo, però, ci è voluto molto tempo: «Per la maggior parte della storia umana», scrisse l’Atlantic qualche anno fa, «una temperatura corporea insolitamente alta era considerata un segno del soprannaturale». Gli stati febbrili, allora ancor più che ora, erano però piuttosto comuni, al punto che nell’antica Roma c’erano addirittura templi in cui si andava appositamente per chiedere alla dea Febris un qualche tipo di intervento divino che aiutasse la guarigione. La febbre, tra l’altro, era a suo modo paradossale: a cominciare dal fatto che si era caldi ma si sentiva freddo.

Per millenni la febbre continuò a essere considerata come qualcosa di diverso da un semplice aumento della temperatura corporea, e si faticava a capire che fosse un sintomo e non un qualche tipo di morbo o malattia. Non si capiva, inoltre, come fosse possibile che una febbre alta potesse a volte passare velocemente mentre altri stati febbrili più moderati potessero non passare e, in certi casi, avere gravissime conseguenze. Nei secoli, l’esperienza e lo studio aiutarono a migliorare un po’ le cose.

Già nel Diciottesimo secolo il medico italiano Francesco Torti realizzò un “albero delle febbri“, per provare a distinguere i vari tipi di stati febbrili. Ma ancora nel Diciottesimo e nel Diciannovesimo secolo i giornali erano pieni di pubblicità di prodotti per “curare la febbre”, ed era frequente leggere di persone “morte per febbre” o di città in cui era “arrivata la febbre”: come se a diffondersi contagiando sempre più persone fosse quella, e non la malattia che spesso la causava. Tracce di queste idee restano ancora oggi nel fatto che, per esempio, parliamo del tifo itteroide come della “febbre gialla“.

Nel tentativo di curare il sintomo, senza capire (e quindi trattare) la malattia, si finì spesso per fare gravi danni alla salute di chi si voleva curare. Con il passare del tempo si capì infine che la febbre era una reazione del corpo a qualche altro tipo di problema: mentre si capiva cosa fare per provare a far scendere la febbre si capì, soprattutto, che bisognava anche capire cosa l’avesse causata.

Oggi possiamo dire che dal punto di vista medico la febbre è una «condizione patologica temporanea che modifica la temperatura organica di riferimento, alterando il livello della normale termoregolazione corporea su una soglia di valori più alta». Questa condizione in genere segue un particolare decorso – le cui fasi sono note come accensione, fastigio e defervescenza – e che può manifestarsi in modi diversi (può cioè essere costante oppure avere anche oscillazioni e intermittenze).

La febbre, spiega il sito dell’Humanitas, ospedale e centro di ricerca di Milano, è «un segnale che l’organismo sta cercando di controllare fenomeni anomali, solitamente di natura infettiva», ma in certi casi può avere anche altre cause. Per regolare la propria temperatura – che è ottenuta grazie al modo in cui le cellule processano le sostanze nutrienti – l’organismo ha diversi mezzi: l’aumento o la diminuzione della circolazione sanguigna, il sudore o i brividi.

Semplificando molto le cose, il centro di controllo della temperatura di un organismo – il nostro termostato – è l’ipotalamo, alla base del cervello. In normali condizioni usa i mezzi a sua disposizione per regolare la temperatura in base alle informazioni che gli arrivano dalle terminazioni nervose. In caso di infezioni l’ipotalamo aumenta la temperatura corporea perché alcune molecole gli fanno sapere, attraverso il nostro flusso sanguigno, che c’è qualcosa che non va: che bisogna fare qualcosa per stimolare il sistema immunitario e creare un contesto più ostile a eventuali agenti infettivi (per lo più virus e batteri). La febbre, quindi, è una sorta di messaggio di allerta.

È invece impossibile dire con esattezza dove inizi la febbre. L’Humanitas parla di «temperatura corporea normale compresa tra 36 e 37,2 gradi». In relazione al coronavirus, l’NHS, il sistema sanitario britannico, scrive che in genere si può parlare di febbre quando la temperatura è superiore ai 37,8 °C. Il CDC, il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica statunitense, parla invece di 100 gradi Fahrenheit, cioè poco più di 37,7 °C.

Sul sito dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si trovano un documento di gennaio che invita a fare attenzione a quando la temperatura del corpo supera i 38 °C e uno più recente che, tra i sintomi possibilmente collegati al coronavirus, mette la “febbre bassa” e dice che è da considerarsi febbre qualsiasi caso in cui la temperatura corporea sia superiore ai 37,3 °C.

Il ministero della Salute italiano, invece, ricorda che «ai soggetti con febbre superiore a 37,5 gradi è fortemente raccomandato di rimanere a casa e limitare al massimo i contatti sociali». La regione Lombardia dice che con una temperatura superiore ai 37,5 °C non si può andare a fare la spesa e che nel caso di «operatori sanitari» (ai quali andrebbe fatta la «rilevazione della temperatura corporea prima dell’inizio del turno di lavoro») «il rilievo del rialzo della temperatura oltre i 37,5 °C comporta l’effettuazione del tampone nasofaringeo per ricerca di SARS-CoV-2 e l’allontanamento dal luogo di lavoro con sospensione dell’attività lavorativa».

Non c’è un dato giusto e uno sbagliato: la temperatura corporea dipende da molti fattori legati alla persona e da luogo, modo e strumenti con cui la temperatura viene rilevata. Ci sono studi che dicono che sulla temperatura influiscono, tra le altre cose, l’ora del giorno (è più alta di sera), il sesso, il peso, l’indice di massa corporea (più è alto, più può essere alta la temperatura), l’età (gli anziani tendono ad avere una temperatura corporea un po’ più bassa) e anche diverse situazioni ambientali (stare in casa col cappotto è diverso che stare in maglietta all’aperto). La stessa persona, al cambiare di poche variabili, può avere temperature diverse.

Inoltre, due misurazioni fatte alla stessa persona variano a seconda del termometro usato e del punto in cui si misura la temperatura. La temperatura rettale, ovviamente, è più alta di quella orale e ascellare, a loro volta leggermente più alte di quella rilevata direttamente sulla pelle. Ogni tipo di misurazione ha i suoi vantaggi e svantaggi (anche legati alle situazioni e al tipo di invasività richiesto).

È certo, comunque, che la misurazione “a distanza” fatta con i termometri a infrarossi (quella a cui si viene in genere sottoposti al lavoro, per strada o al supermercato nel caso di controlli legati al coronavirus) sia la meno precisa di tutte. Come ha scritto il New York Times, questi termometri «tendono a essere inaffidabili se usati fuori da contesti medici attentamente controllati». James Lawler, esperto di medicina, ha detto che quando era in Africa occidentale durante l’epidemia di ebola gli capitò spesso che quei termometri dicessero che stava praticamente per morire di ipotermia, visto che la temperatura che rilevavano erroneamente era di 35 °C, ben al di sotto di quella che sappiamo essere la temperatura media del corpo umano.

Ma anche su quale sia esattamente la giusta temperatura media ci sono molti dubbi. L’importanza che diamo al valore simbolico dei 37° C ha molto a che fare con misurazioni fatte intorno alla metà dell’Ottocento, in un periodo storico in cui la scienza medica era ancora piuttosto incerta, dal medico Carl Reinhold August Wunderlich. Sulla base di circa 25mila misurazioni, Wunderlich concluse infatti che la temperatura ideale del corpo umano fosse appunto di 37 °C.

Per quanto fossero meticolosi per gli standard del tempo, dagli studi di Wunderlich sono cambiate molte cose (compresa la precisione dei termometri) e negli ultimi anni sono arrivati studi che parlano di temperature corporee medie più basse, seguiti a loro volta da una ricerca pubblicata da eLife secondo cui a cambiare è stata proprio la temperatura media dei nostri corpi, che con il passare dei decenni si sarebbe abbassata. Questi cambiamenti sarebbero influenzati dai diversi stili di vita (è possibile che l’avvento di sistemi di condizionamento e riscaldamento, negli ambienti in cui trascorriamo più tempo, abbia influito sulla nostra termoregolazione) e dal miglioramento nel trattamento di diverse malattie (una cosa che, nel complesso, ha diminuito la frequenza degli stati infiammatori e di conseguenza i meccanismi che comportano una temperatura corporea più alta).

È presto per dire con certezza se e quanto siamo diventati più caldi, ma è sicuro che –nonostante il termometro esista già da secoli e sia da decenni «una delle icone delle medicina moderna» – il coronavirus ha dato alla febbre un’importanza che per la maggior parte delle persone ormai aveva smesso di avere. Parlando al New York Times, l’epidemiologo Waleed Javaid ha detto: «Penso che finiremo col decidere che, così come certe persone si misurano la pressione per tenerla sotto controllo, dovranno anche misurarsi la temperatura in condizioni normali». Julie Parsonnet, esperta di malattie infettive, ha ricordato però che la temperatura è solo un numero e un fattore, tra tanti altri. Così come un’alta temperatura non sempre è sinonimo di malattia, si può essere malati anche senza febbre.

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.

La differenza tra epidemia e pandemia

E perché per ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità non parla di pandemia per il coronavirus.

Ieri il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante il punto sui contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) ha detto che al momento non si può ancora parlare di “pandemia”, ma solo di “epidemia”. Qual è la differenza?

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione. La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono finora da altre parti del mondo, al di fuori della Cina, indicano un numero ancora relativamente basso di nuovi casi e inducono quindi a qualche prudenza nel parlare di pandemia. Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Mary-Louise McLaws, esperta nel controllo delle infezioni che ha lavorato come consulente dell’OMS, ha spiegato al Guardian che dichiarare una pandemia non è sempre un procedimento automatico e chiaro, perché i parametri utilizzati possono variare. Non esiste una soglia ben definita, come per esempio un numero preciso di decessi o di contagi, né esiste un numero preciso di paesi colpiti che deve essere raggiunto: spetta alla discrezionalità dei responsabili dell’OMS. Il virus della SARS, identificato nel 2003, non venne dichiarato pandemico dall’OMS nonostante avesse interessato 26 paesi, anche perché la sua diffusione fu contenuta rapidamente e poche nazioni ne furono significativamente colpite.