I ricercatori stanno studiando il meccanismo con cui si lega alle cellule del nostro organismo per replicarsi, in modo da sviluppare farmaci per bloccarlo.
Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus a gennaio, nel mondo sono stati segnalati oltre 120mila casi positivi e più di 4mila morti: 80mila solo in Cina, dove è iniziata la crisi sanitaria, e più di 10mila in Italia. I motivi del progressivo aumento dei casi è legato sia alle strategie adottate dai singoli paesi per affrontare il contagio – in alcuni casi con soluzioni carenti o che hanno inizialmente sottostimato il rischio – sia alle caratteristiche stesse del coronavirus, sulle quali i ricercatori stanno compiendo studi e analisi per comprendere come faccia a diffondersi facilmente.
L’attuale coronavirus è mediamente contagioso e lo è di più rispetto a quello che causa la SARS, un’altra sindrome respiratoria grave, e con il quale sembra essere imparentato. In un paio di mesi ha infettato dieci volte il numero di persone che avevano contratto la SARS. Capire i meccanismi con cui si lega alle cellule per replicarsi potrebbe essere la chiave per produrre vaccini e farmaci, essenziali per ridurre la letalità della malattia (COVID-19) causata dal coronavirus.
Come gli altri virus, anche i coronavirus sfruttano per replicarsi le cellule degli organismi che infettano: sulla superficie delle capsule che contengono il loro materiale genetico, hanno minuscole punte che ricordano quelle di una corona (da qui il nome “coronavirus”). Le punte sono costituite da una proteina che si lega alla membrana cellulare, sfruttando un processo che viene attivato da un enzima della cellula (in pratica fa da portinaio). Sfruttando questo meccanismo, il coronavirus può avere accesso alla cellula, iniettarvi il suo codice genetico (RNA) e sfruttare poi gli organuli cellulari per replicarsi. Le copie prodotte lasciano poi la cellula, andando a infettarne altre.
Diversi gruppi di ricerca nelle ultime settimane hanno notato che l’attuale coronavirus ha una particolare proteina sulle sue punte, diversa da quella che si trova solitamente sugli altri coronavirus. L’ipotesi è che questa proteina abbia un punto di attivazione adatto a reagire con la furina, un enzima della cellula che ha proprio il compito di rimuovere alcuni pezzetti delle proteine per renderle attive (spesso le proteine sono inattive quando vengono prodotte dalla cellula e diventano attive solo dopo l’intervento di un enzima che elimina una loro sezione).
La furina è presente nelle cellule di numerosi tessuti del nostro organismo, come i polmoni (dove il coronavirus può causare molti danni, come dimostrano i casi gravi di polmoniti dovute alla COVID-19), il fegato e parte dell’intestino. Secondo Li Hua, ricercatore presso l’Università di Scienze e Tecnologie Huazhong di Wuhan – la città dove è iniziata l’epidemia – questo potrebbe spiegare perché sono stati segnalati casi di pazienti con sintomi gravi al fegato oltre che ai polmoni. Insieme ai suoi colleghi, Li ha realizzato un’analisi genetica del coronavirus, notando che altri coronavirus parenti stretti dell’attuale non sfruttano la furina.
Gary Whittaker, virologo presso la Cornell University (Stati Uniti), ha spiegato al sito di Nature che l’attivazione tramite la furina: «Rende il coronavirus differente da quello della SARS in termini di meccanismo di entrata nelle cellule, e potrebbe influenzare la stabilità del virus e la sua capacità di trasmettersi». Insieme ai colleghi, Whittaker ha pubblicato a febbraio un’analisi strutturale della proteina sulle punte dell’attuale coronavirus.
Il punto di attivazione è stato oggetto di diversi altri studi nelle ultime settimane, diventando uno dei principali indiziati per provare a spiegare la capacità del coronavirus di diffondersi facilmente tra la popolazione, e di replicarsi in maniera così efficiente nelle persone infette. La furina viene del resto sfruttata anche nei meccanismi di replicazione di altri virus, come alcuni di quelli influenzali (che non sono però coronavirus).
Le nuove ricerche hanno aperto un confronto acceso tra i virologi, con alcuni che hanno invitato a non arrivare a conclusioni azzardate, ricordando che per ora gli studi sono preliminari e richiederanno ulteriori approfondimenti. Per avere informazioni più chiare saranno necessari test di laboratorio su campioni cellulari e su cavie, in modo da verificare meglio il meccanismo di attivazione che apre al virus la possibilità di entrare nelle cellule. Whittaker e colleghi stanno per esempio sperimentando un sistema per modificare il punto di attivazione, per verificare se in questo modo la proteina sulla punta del coronavirus riesca o meno a mantenere la propria funzione.
Li sta invece lavorando su alcune molecole da impiegare per bloccare la furina, in modo da rompere il legame con il coronavirus. Nel suo caso gli studi sono rallentati dal fatto di trovarsi a Wuhan, città che solo ora dopo un paio di mesi di isolamento inizia lentamente a tornare alla normalità
Altri ricercatori stanno intanto studiando gli altri meccanismi che il coronavirus sfrutta per legarsi alle membrane cellulari, eludendo i sistemi di sicurezza delle cellule per evitare di essere contaminate. La loro identificazione potrebbe consentire di sviluppare farmaci per impedire al coronavirus di legarsi alle membrane cellulari e di inserire all’interno delle cellule il suo RNA.