L’OMS ha cambiato idea sulle mascherine

Ora dice di indossarle sempre nei luoghi pubblici, soprattutto dove è difficile garantire il distanziamento fisico: ed è una novità.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha diffuso nuove indicazioni sull’uso delle mascherine per limitare la diffusione del coronavirus (PDF): ha detto che le mascherine dovrebbero essere indossate sempre nei luoghi pubblici, perché «forniscono una barriera per le goccioline potenzialmente infettive». In precedenza l’OMS aveva sostenuto che non ci fossero prove sufficienti per dire che le persone sane dovessero indossare la mascherina.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto di avere cambiato idea sulle mascherine a seguito di alcuni studi completati nelle ultime settimane, ma ha aggiunto di continuare a considerarle come una delle tante misure da adottare per ridurre il rischio della trasmissione del virus: un’altra misura, per esempio, è il distanziamento fisico. L’OMS ha raccomandato l’uso delle mascherine soprattutto nei luoghi dove non è sempre possibile il distanziamento, come i trasporti pubblici, i negozi, nei posti di lavoro, e anche nelle scuole e nei luoghi di culto.

In particolare, l’OMS ha raccomandato alle persone di oltre 60 anni, e a quelle con patologie pregresse, di indossare mascherine chirurgiche o filtranti facciali, mentre per gli altri sono sufficienti generiche mascherine a triplo strato, anche autoprodotte (uno strato di cotone assorbente vicino al viso, uno di polipropilene e uno sintetico esterno impermeabile).

Come hanno notato diversi esperti, tra cui il giornalista scientifico David Shukman, si tratta di un cambio notevole nelle indicazioni date dall’OMS ai governi di tutto il mondo. Per mesi, infatti, l’OMS aveva sostenuto che indossare le mascherine potesse dare un falso senso di sicurezza, e ridurre il numero di dispositivi di protezione individuale disponibili per gli operatori sanitari, i più esposti al virus.

L’OMS ha sospeso i test sull’idrossiclorochina

Lo ha fatto «per abbondanza di precauzione», e dopo settimane in cui era stata indicata come possibile rimedio al coronavirus soprattutto da alcuni leader politici.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sospeso i test sull’efficacia contro il coronavirus dell’idrossiclorochina, un farmaco per la malaria che secondo valutazioni preliminari era stato descritto come potenzialmente utile per prevenire l’infezione da coronavirus (senza alcuna conferma scientifica). La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump aveva detto di avere iniziato una terapia a base di idrossiclorochina, mentre da tempo varie sperimentazioni erano state avviate un po’ in tutto il mondo, anche in Italia.

L’OMS non ha fornito molti dettagli sulla sua decisione. Mike Ryan, capo del programma che si occupa delle emergenze sanitarie, ha detto che è stata presa «per abbondanza di prudenza». Il capo dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto che la sperimentazione sull’idrossiclorochina è l’unica ad essere stata interrotta fra quelle gestite dall’OMS, comprese sotto il nome di SOLIDARITY.

Si era iniziato a parlare dell’impiego dell’idrossiclorochina contro la COVID-19 a febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la sua capacità di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione. Uno studio fatto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva coinvolto un numero limitato di persone.

L’OMS aveva comunque raccomandato ai medici di tutto il mondo di non prescrivere l’idrossiclorochina al di fuori dei test clinici, dato che la sua assunzione può provocare diversi effetti collaterali.

Si diventa immuni al coronavirus?

È la domanda delle domande di questa pandemia: non c’è ancora una risposta definitiva, ma iniziano a esserci i primi indizi.

Lo scorso fine settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha invitato i governi a non diffondere il concetto di “patente di immunità”, chiarendo che a oggi non ci sono prove scientifiche chiare per sostenere che si diventi immuni al coronavirus dopo avere superato l’infezione. Queste “patenti” dovrebbero consentire di identificare chi ha già avuto il virus e che potrebbe quindi tornare ad avere una vita attiva sia socialmente sia lavorativamente, senza comportare ulteriori rischi per i nuovi contagi. L’idea è stata molto promossa anche in Italia da alcuni esponenti politici, come il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, ma proprio come ha spiegato l’OMS è un messaggio rischioso che sembra ignorare la domanda più grande di questa pandemia: si diventa immuni al coronavirus?

Dalla risposta a questa domanda deriveranno moltissime decisioni e sviluppi dell’attuale emergenza sanitaria. Non solo perché la capacità di diventare immuni farà si che la malattia sia meno presente tra la popolazione, man mano che molte persone contrarranno il coronavirus, ma anche perché consentirà di capire se e quanto potremo fare affidamento sui vaccini per raggiungere un buon livello di immunizzazione.

Come si diventa immuni
Il sistema immunitario è la nostra principale difesa dagli agenti esterni (antigeni), come virus e batteri. Semplificando moltissimo, possiamo dire che comprende due livelli di difesa: uno più generalizzato e uno più specifico.

Il primo livello è l’immunità innata, una risorsa di primo intervento sempre pronta ad attivarsi quando viene identificata la presenza di una minaccia esterna che si è intrufolata nel nostro organismo. Non costituisce una risposta mirata e può essere paragonata a un bombardamento a tappeto: induce la produzione di sostanze che distruggono le cellule esposte all’infezione e stimolano l’infiammazione, con un conseguente aumento della temperatura per creare un ambiente ostile alla minaccia.

È un sistema fatto per agire punto e basta. Si rivela spesso efficace, ma è piuttosto grezzo: provvede a distruggere, senza imparare nulla dall’antigene che ha incontrato sulla sua strada o a serbarne memoria per futuri incontri.

In molti casi, questa prima risposta viene seguita da una reazione più precisa e misurata che deriva dall’immunità adattiva. In pratica, il sistema immunitario impara a riconoscere l’antigene e a produrre anticorpi specializzati, che si occuperanno dell’agente infettivo e di distruggere solamente le cellule infette, preservando le altre. È una risposta molto più sofisticata di quella di primo livello, e richiede un po’ di tempo prima che possa attivarsi e rivelarsi efficace.

Nel caso dell’attuale coronavirus, le ricerche preliminari diffuse finora (quindi da prendere con qualche cautela in più) dicono che sia necessaria una decina di giorni prima che l’organismo inizi a produrre anticorpi specifici. Anche per questo motivo buona parte degli sforzi in ospedale, per i pazienti più gravi, sono orientati a prendere tempo e a rallentare la diffusione dell’infezione, nell’attesa che l’immunità adattiva faccia il proprio dovere.

Durata dell’immunità
Con diverse malattie, la memoria immunitaria si sviluppa proprio grazie alla risposta dell’immunità adattiva e molte ricerche indicano come, più è intensa la risposta, migliore sia la durata del ricordo acquisito dal nostro sistema immunitario sulla minaccia.

Diverse malattie tipiche dell’infanzia – come il morbillo, la varicella e la parotite (gli “orecchioni”) – inducono un’immunità di solito permanente, e lo stesso si può ottenere attraverso le vaccinazioni contro queste malattie evitando i rischi che comportano, talvolta letali (meglio vaccinarsi, che ammalarsi). Altre malattie si rivelano invece più sfuggenti e non comportano un’immunizzazione definitiva: può dipendere sia dagli agenti infettivi che le causano, sia dalla loro capacità di mutare nel tempo (come avviene per esempio con l’influenza stagionale).

Coronavirus
I coronavirus che interessano gli esseri umani sono sette, compreso l’attuale (SARS-CoV-2). I quattro noti da più tempo, cioè dai primi anni Sessanta, sono responsabili di sintomi lievi alle vie aeree superiori e sono tra le cause di quello che chiamiamo raffreddore comune. Li prendiamo più volte nella vita e il nostro sistema immunitario tende a serbarne memoria per poco meno di un anno.

Gli altri due coronavirus noti – oltre all’attuale – sono quelli che causano la SARS e la MERS, due sindromi respiratorie che possono portare a sintomi piuttosto gravi, e in alcuni casi alla morte.

Le due malattie sono di recente scoperta (la SARS fu identificata nel 2003, la MERS nel 2012) e non ci sono molti studi sulla durata dell’immunità nelle persone che le hanno avute. Sembra comunque che inducano una memoria più lunga dei coronavirus del raffreddore, con una durata di qualche anno. Il coronavirus che causa la SARS ha diverse cose in comune con l’attuale virus, e questo lascia quindi ottimisti alcuni virologi sulla possibilità di sviluppare una memoria immunitaria per un tempo sufficiente da rendere utile il ricorso a un vaccino.

Se e per quanto
Basandosi sulle conoscenze degli altri coronavirus e più in generale delle malattie infettive, diversi virologi e immunologi ritengono che probabilmente il problema non sia tanto se si diventi immuni, ma per quanto si resti immuni. La possibilità di diventarlo a vita sembra esclusa, ma un vaccino o l’immunizzazione per chi si è ammalato potrebbero essere sufficienti per offrire qualche protezione in più, rendendo meno rischiosa una seconda infezione da SARS-CoV-2.

Se fossero confermate queste circostanze, un vaccino potrebbe consentire di tenere sotto controllo la malattia, riducendo la circolazione del coronavirus a livelli più che accettabili per evitare nuove epidemie su larga scala. Per i primi anni potrebbe essere necessario vaccinare periodicamente le persone più esposte al rischio di contagio o di sviluppare sintomi gravi, in attesa che il coronavirus circoli sempre meno nella comunità.

E chi si riammala?
Nelle settimane scorse sono circolate informazioni su persone che dopo essere guarite dalla COVID-19 si sarebbero ammalate nuovamente. Le segnalazioni sono state sporadiche e le cause di questi episodi potrebbero essere diverse e non strettamente legate all’immunizzazione.

Di solito una persona viene definita “guarita” quando non manifesta più i sintomi della malattia e risulta negativa a un test di controllo, eseguito tramite un prelievo con tampone. Test di questo tipo sono piuttosto affidabili, ma può accadere che in alcune circostanze non diano un esito chiaro sull’effettiva scomparsa del coronavirus. Secondo gli esperti i rari casi segnalati sono probabilmente ricadute, dovute alla carica virale che torna a crescere causando nuovamente sintomi, che comunque si rivelano di solito molto più lievi rispetto all’infezione precedente.

Per comprensibili motivi etici e di tutela della salute dei pazienti, non sono stati condotti esperimenti su individui guariti per provare a indurre una nuova infezione, esponendoli nuovamente al coronavirus. Un gruppo di ricercatori ha tentato questa strada con due macachi, infettandoli una prima volta per indurre una risposta immunitaria e una seconda volta per verificare se fosse stato mantenuto il ricordo dell’agente infettivo. I due macachi non si sono ammalati nuovamente, indicando il probabile mantenimento dell’immunità, ma lo studio ha previsto condizioni molto specifiche e l’impiego di due sole cavie animali, quindi non offre grandi spunti per ipotizzare che cosa possa accadere negli esseri umani.

Riassumendo
A oggi non ci sono evidenze scientifiche sufficienti per affermare che si diventi immuni al coronavirus, anche se ci sono indizi in questo senso, né tanto meno elementi per stabilire quanto a lungo possa durare un’eventuale immunizzazione. La malattia causata dal virus è del resto conosciuta da circa quattro mesi, un tempo molto limitato per fare analisi e valutazioni sugli ex infetti e che potrebbero avere sviluppato un’immunità. Saranno necessari mesi prima di stabilire modalità e tempo di immunizzazione, e per questo come suggerisce l’OMS non si potrà fare ancora troppo affidamento sui test sierologici.

Il grande test dell’OMS contro il coronavirus

I quattro trattamenti più promettenti contro la COVID-19 saranno sperimentati su scala globale, con un sistema di raccolta dati in tempo reale per verificarne l’efficacia.

La pandemia da coronavirus sta portando alla realizzazione di uno dei più grandi test clinici a livello globale mai tentati. L’iniziativa si chiama SOLIDARITY ed è stata ideata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con l’obiettivo di sperimentare i quattro trattamenti che al momento sembrano essere più promettenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. I test coinvolgono farmaci già esistenti e usati – per esempio – contro l’HIV ed Ebola, e potranno essere svolti in migliaia di ospedali in giro per il mondo, senza particolari complicazioni per il personale medico alle prese con la più grande crisi sanitaria di questo secolo.

Nell’80 per cento dei casi il coronavirus causa sintomi lievi che non rendono necessario il ricovero in ospedale, ma per i casi restanti con sintomi più importanti o gravi il ricovero è talvolta inevitabile. I pazienti più a rischio possono sviluppare pericolose polmoniti, che devono essere trattate nei reparti di terapia intensiva, spesso facendo ricorso all’intubazione per facilitare la respirazione. I trattamenti servono a prendere tempo, in attesa che il sistema immunitario riesca a sconfiggere la malattia.

Un ricovero in terapia intensiva può quindi durare diverse settimane, e questo complica la gestione di molti pazienti gravi, perché i posti in questi reparti altamente specializzati sono pochi. Farmaci più efficaci nel trattare la COVID-19 potrebbero contribuire enormemente a ridurre i tempi di degenza, consentendo al personale sanitario di trattare molti più pazienti, evitando il sovraffollamento ospedaliero (che inevitabilmente si riflette sulla qualità dell’assistenza).

Da quando è iniziata l’epidemia da coronavirus, medici e ricercatori hanno valutato e sperimentato su piccola scala decine di diversi farmaci, già disponibili e sviluppati per altre malattie. Alcuni test si sono rivelati fallimentari, altri un poco più promettenti, ma è mancato un coordinamento internazionale per avere dati su scala più grande. L’OMS vuole quindi concentrare le attenzioni su quattro trattamenti e offrire ai medici una piattaforma online dove condividere facilmente le loro esperienze, in modo da raccogliere i dati il più rapidamente possibile.

Clorochina e idrossiclorochina
Sono due farmaci utilizzati da quasi un secolo per prevenire e trattare la malaria. Riducono l’acidità negli endosomi, le vescicole che fanno transitare materiale attraverso la membrana cellulare, uno dei meccanismi sfruttati da alcuni virus per entrare nelle cellule. Il coronavirus, però, utilizza un sistema diverso per penetrare nella cellula (tramite le proteine sulle sue punte, da cui deriva il prefisso “corona”) e non è quindi chiaro se clorochina e idrossiclorochina siano efficaci. Alcuni test di laboratorio, quindi su culture cellulari in vitro, hanno indicato un qualche effetto sul coronavirus, ma le dosi necessarie per ottenere risultati apprezzabili sono alte e questo potrebbe comportare un’eccessiva tossicità del trattamento.

Finora medici e ricercatori cinesi hanno pubblicato una ventina di studi e relazioni sulle loro esperienze cliniche con clorochina e idrossiclorochina per trattare la COVID-19, ma senza dati chiari e univoci sugli effetti dei farmaci. Altri studi condotti in Europa hanno dato esiti incerti e rimangono le preoccupazioni sulla tossicità del trattamento.

Inizialmente l’OMS non aveva intenzione di inserire i due farmaci in SOLIDARITY, ma i suoi esperti hanno poi cambiato idea in seguito al grande dibattito scientifico e nell’opinione pubblica intorno a questi trattamenti. Il confronto è stato in parte incentivato da alcune dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che in una conferenza stampa aveva definito “rivoluzionari” i due farmaci, senza però mostrare di avere compreso molto il contesto.

Lopinavir e ritonavir
La sperimentazione riguarda anche due antiretrovirali solitamente utilizzati nelle infezioni da HIV e combinati nel farmaco dal nome commerciale Kaletra. Il medicinale ha la capacità di bloccare l’attività di un enzima che attiva alcune proteine virali, consentendo in questo modo al virus dell’HIV di ottenere l’accesso alle cellule, nelle quali si replica facendo aumentare l’infezione nell’organismo.

Il Kaletra è impiegato da circa 20 anni e si è notato che può avere effetti simili con virus diversi dall’HIV. Negli anni scorsi, per esempio, si è rivelato promettente per trattare la MERS, un’altra sindrome respiratoria causata da un coronavirus, nelle cavie di laboratorio.

I primi test con il Kaletra contro l’attuale coronavirus non sono stati però molto incoraggianti. Una ricerca – svolta in Cina su 199 pazienti e pubblicata sulla rivista scientifica NEJM – spiega di non avere rilevato particolari differenze nel trattamento dei pazienti con o senza il farmaco. Lo studio specifica comunque che il medicinale è stato impiegato in uno stadio avanzato della COVID-19, quando i pazienti avevano sviluppato sintomi molto gravi, e che ci potrebbero quindi essere margini per impiegarlo su casi meno gravi e prevenire ulteriori peggioramenti.

Kaletra e interferone beta
Il trattamento prevede l’impiego di lopinavir e ritonavir con l’interferone beta, una molecola coinvolta nei sistemi di regolazione dell’infiammazione nel nostro organismo (è il sistema immunitario a causare l’infiammazione per superare le infezioni, facendo aumentare tra le altre cose la temperatura dei tessuti). Un trattamento simile era già stato sperimentato su cavie di laboratorio contro la MERS. L’impiego dell’interferone beta è però rischioso nei pazienti con COVID-19, perché potrebbe ridurre la capacità del sistema immunitario di contrastare la diffusione nell’organismo del coronavirus.

Remdesivir
Il remdesivir era stato sviluppato dall’azienda farmaceutica Gilead contro Ebola, ma senza che si rivelasse efficace come sperato nei test sul campo. Il farmaco prende comunque di mira un enzima coinvolto nella replicazione dei virus a RNA (il modo in cui è organizzato il loro codice genetico) come i coronavirus. Un paio di anni fa, una ricerca ha per esempio dimostrato che il remdesivir inibisce i coronavirus responsabili della MERS e della SARS, malattia respiratoria causata da un coronavirus simile all’attuale.

Le esperienze su remdesivir e COVID-19 disponibili finora sono aneddotiche, ma comunque incoraggianti. È però necessario uno studio molto più ampio per verificare non solo l’efficacia del farmaco, ma anche la sua sicurezza su pazienti con particolari condizioni cliniche. Come per altri farmaci simili, il remdesivir potrebbe essere efficace soprattutto se somministrato dopo l’insorgere dei primi sintomi, riducendo il rischio che peggiorino.

SOLIDARITY
L’OMS ha cercato di mantenere il più semplice possibile l’accesso al suo test globale, in modo che possano partecipare ospedali e operatori sanitari da tutto il mondo. Quando una persona risulta positiva al coronavirus, viene ritenuta compatibile per testare i farmaci e presta il proprio consenso, spetta al suo medico inserire i dati su un portale dell’OMS, specificando la presenza di eventuali malattie pregresse come problemi cardiaci, diabete o HIV. Il medico deve poi indicare quali farmaci sono disponibili nell’ospedale in cui è ricoverato il paziente ed è il sito ad assegnare una delle quattro terapie.

L’inserimento sul portale è l’unica azione richiesta ai medici per tutto il tempo di degenza del paziente. Al termine della terapia, il medico si collega nuovamente e indica sul portale la data di dimissione del paziente o del suo decesso, insieme a poche altri dettagli (per esempio se si fosse resa necessaria o meno l’intubazione).

Il grande test clinico globale organizzato dall’OMS non è “a doppio cieco”, cioè nella modalità in cui sia gli sperimentatori sia i pazienti ignorano informazioni fondamentali la cui conoscenza potrebbe influenzare i risultati. I pazienti potrebbero quindi subire l’effetto placebo sapendo di avere ricevuto uno dei farmaci della sperimentazione, rispetto ai trattamenti standard. Gli esperti dell’OMS hanno spiegato di aver valutato i costi e i benefici di questa scelta, optando per un sistema che permetta di avere il più rapidamente possibile molti dati da numerose esperienze cliniche.

SOLIDARITY non funziona comunque con uno schema completamente fisso: l’OMS terrà sotto controllo da subito i dati, man mano che arrivano tramite il portale, e interverrà per affinare le ricerche, eventualmente escludere uno dei quattro trattamenti o aggiungere nuovi farmaci sperimentali. Più medici, ospedali e istituzioni parteciperanno condividendo le esperienze su migliaia di pazienti, più il sistema si potrà rivelare utile per capire su quali soluzioni puntare.

Discovery e altri
L’Institut national de la santé et de la recherche médicale della Francia, ha annunciato “Discovery”, un progetto simile a SOLIDARITY che coinvolgerà 3.200 pazienti da sette paesi. Altri centri di ricerca stanno organizzando iniziative simili, che potranno contribuire a raccogliere dati e informazioni sui trattamenti con il maggior potenziale per trattare la COVID-19.

Esiti
L’iniziativa avviata dall’OMS è estremamente ambiziosa e non era mai stata tentata prima in questi termini, soprattutto per i tempi rapidi che si è data l’Organizzazione. Entro poche settimane dovrebbero essere disponibili i primi risultati, su cui ragionare per trovare nuove soluzioni contro la malattia. L’attuale coronavirus è del resto noto da circa tre mesi e molte delle sue caratteristiche sono ancora da scoprire. L’assenza di un vaccino, ancora in fase di sviluppo e con la prospettiva di non averlo pronto prima del prossimo anno, rende i trattamenti con i farmaci l’unica vera alternativa per ridurre la letalità della COVID-19 e fare in modo che gli ospedali possano lavorare evitando il collasso.

La differenza tra epidemia e pandemia

E perché per ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità non parla di pandemia per il coronavirus.

Ieri il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante il punto sui contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) ha detto che al momento non si può ancora parlare di “pandemia”, ma solo di “epidemia”. Qual è la differenza?

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione. La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono finora da altre parti del mondo, al di fuori della Cina, indicano un numero ancora relativamente basso di nuovi casi e inducono quindi a qualche prudenza nel parlare di pandemia. Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Mary-Louise McLaws, esperta nel controllo delle infezioni che ha lavorato come consulente dell’OMS, ha spiegato al Guardian che dichiarare una pandemia non è sempre un procedimento automatico e chiaro, perché i parametri utilizzati possono variare. Non esiste una soglia ben definita, come per esempio un numero preciso di decessi o di contagi, né esiste un numero preciso di paesi colpiti che deve essere raggiunto: spetta alla discrezionalità dei responsabili dell’OMS. Il virus della SARS, identificato nel 2003, non venne dichiarato pandemico dall’OMS nonostante avesse interessato 26 paesi, anche perché la sua diffusione fu contenuta rapidamente e poche nazioni ne furono significativamente colpite.