Il nuovo studio su coronavirus e terapie intensive in Lombardia

È il più completo diffuso finora: tra i 1.600 casi gravi esaminati un paziente su quattro è morto dopo il ricovero, e i tempi di degenza per chi sopravvive sono spesso lunghi.

Un gruppo di medici e ricercatori che lavorano in Lombardia ha pubblicato una prima indagine sulle caratteristiche e gli esiti di quasi 1.600 ricoveri nelle unità di terapia intensiva, effettuati nelle ultime settimane negli ospedali lombardi a causa delle infezioni da coronavirus. Lo studio, uno dei più completi finora diffusi sui casi della Lombardia, è stato pubblicato sulla rivista scientifica JAMA e mostra quanto la COVID-19 comporti lunghi periodi di degenza nelle terapie intensive, con un’incidenza piuttosto alta dei decessi soprattutto tra i pazienti più a rischio (anziani e con precedenti malattie).

Nell’80 per cento dei casi circa la COVID-19 causa sintomi piuttosto lievi, come febbre e tosse secca, che possono essere trattati a casa con i comuni farmaci da banco. Il restante 20 per cento manifesta invece sintomi più seri, soprattutto ai polmoni, che possono rendere necessario il ricovero in ospedale. Nei casi più gravi si fa ricorso all’intubazione nelle unità di terapia intensiva, per aiutare i pazienti a respirare meglio e ad affrontare i sintomi della malattia, in attesa che il sistema immunitario impari a riconoscere e a sconfiggere il coronavirus.

Lo studio, che ha come primo firmatario Giacomo Grasselli del Policlinico di Milano, ha utilizzato i dati raccolti dalla rete delle terapie intensive organizzata dalla Regione Lombardia per coordinare i ricoveri negli ospedali lombardi, e che soprattutto nelle prime settimane dell’emergenza sanitaria ha dovuto gestire centinaia di nuovi casi gravi ogni giorno.

I pazienti compresi nell’indagine avevano ricevuto una diagnosi di COVID-19 tramite test di laboratorio, ed erano stati trasferiti in una delle terapie intensive dei 72 ospedali della Lombardia compresi nella rete di coordinamento. I dati fanno riferimento a quasi un mese di attività, da metà febbraio a metà marzo, comprendendo quindi l’inizio dell’epidemia italiana con i casi nel lodigiano.

I casi presi in considerazione sono stati 1.591. L’età mediana dei pazienti era di 63 anni: 363 pazienti avevano almeno 71 anni, 203 ne avevano meno di 51. L’82 per cento dei pazienti era di sesso maschile.

Il 68 per cento dei pazienti aveva almeno una comorbidità, cioè la coesistenza di altri problemi di salute. L’ipertensione era la patologia più comune (49 per cento) tra un sottogruppo di 1.043 pazienti per i quali erano disponibili informazioni più dettagliate. La seconda comorbidità erano problemi cardiovascolari (21 per cento) e il colesterolo alto (18 per cento). Solamente il 4 per cento dei pazienti aveva problemi pregressi seri a carico del sistema respiratorio. Tutti i pazienti con più di 80 anni avevano almeno una comorbidità, così come il 76 per cento dei pazienti sopra i 60 anni.

Lo studio fornisce informazioni interessanti su condizioni ed esiti dei ricoveri in terapia intensiva. Su un sottogruppo di 1.300 pazienti con informazioni più dettagliate, il 99 per cento ha avuto bisogno di ventilazione non invasiva (mascherine con ossigeno, caschi) o invasiva (intubazione): la stragrande maggioranza di loro – 1.150 pazienti – è stata intubata.

Il 26 per cento dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel periodo preso in esame è morto, con una maggiore incidenza della mortalità tra gli individui più anziani. La mortalità tra i pazienti fino a 60 anni è stata del 15 per cento contro il 29 per cento di quella per gli individui da 61 anni in su.

Alla fine del periodo preso in analisi, il tempo mediano di permanenza dei pazienti in terapia intensiva è stato di 9 giorni. Il tempo mediano di permanenza per gli individui morti in terapia intensiva è stato di 7 giorni. Le cause dei decessi sono molto varie e l’incidenza è probabilmente dipesa dal momento del ricovero, rispetto all’avanzamento della malattia e alle condizioni dei singoli pazienti.

Lo studio segnala quindi che circa un paziente ogni quatto ricoverati in terapia intensiva è morto a causa della malattia e delle sue condizioni di salute pregresse (anche se queste non sono sempre state necessariamente un fattore determinante). La maggior parte degli individui in condizioni critiche era di sesso maschile e con età al di sopra dei 64 anni. La ricerca osserva inoltre come la percentuale di pazienti sottoposti a intubazione fosse particolarmente alta se confrontata con i dati messi a disposizione da ricerche svolte in altri paesi sempre sui reparti di terapia intensiva.

L’indagine svolta in Lombardia è importante soprattutto per la quantità dei dati raccolti, che ha permesso di avere un quadro complessivo della situazione nelle terapie intensive finora non disponibile. Gli autori invitano comunque a valutare con cautela alcuni dati, ricordando che lo studio ha qualche limite sia per il fatto di avere raccolto informazioni retrospettivamente, sia per non avere avuto accesso a tutti i dati necessari per ogni paziente.

Lo studio non offre inoltre elementi per valutare la convalescenza degli individui dimessi, né le prospettive per chi continua a essere ricoverato da settimane in terapia intensiva. L’intubazione per un periodo di tempo prolungato può causare forti stress al sistema respiratorio, con danni ai polmoni che richiedono tempi di recupero lunghi e in alcuni casi conseguenze permanenti, che si possono rivelare debilitanti. Il controllo nel medio periodo dei pazienti dimessi dovrebbe offrire nuove informazioni, per comprendere costi e benefici dell’intubazione e per migliorare protocolli e terapie da seguire per i pazienti ricoverati.

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.

L’OSS E IL PAZIENTE RADIOATTIVO

La presenza di operatori socio sanitari (oss/osss) all’interno di una unita’ operativa complessa di medicina nucleare o in divisioni diverse dove siano presenti pazienti che sono stati sottoposti ad indagini con somministrazione di radioisotopi (pet-scintigrafie -datscan ecc …) Impone ai responsabili di tali servizi e/o divisioni, la necessita’ di fornire elementi e informazioni utili affinche’ l’operatore non venga esposto alle radiazioni emesse dal paziente o dai suoi escreti.

Nel corso di tali indagini infatti, non e’la macchina ad emettere radiazioni, ma lo stesso paziente/utente che proprio per la peculiarita’ del lavoro svolto dall’oss, se non e’in grado di svolgere le sue normali attivita’ di vita (lavarsi, mobilizzarsi, nutrirsi ecc …), necessita di tutto il sostegno ed aiuto dell’operatore che si sostituisce a lui nel quotidiano impegno lavorativo.

E’dunque necessario attuare precauzioni che tutelino l’operatore che si trova a dover gestire tali attivita’.

A tal proposito occorre distinguere l’oss che opera in una u.o.c.di medicina nucleare, da quello che opera in divisioni diverse dove il paziente si trova in regime di ricovero, soprattutto quello alllettato.

Infatti, mentre il primo e’provvisto di dosimetro e sottoposto ai controlli medici previsti dalla normativa, il secondo spesso non sa neppure le regole di base per gestire il paziente radioattivo.

Di seguito sara’riportato uno schema utile a tale scopo cosicche’ si possa avere un quadro piu’ chiaro di come debba procedere nell’espletamento delle proprie attivita’ tale figura.

 

 

OSS/OSSS DI MEDICINA NUCLEARE OSS/OSSS DIVISIONE
Limitare il tempo di esposizione Idem
Aumentare la distanza dal paziente e/o dai suoi escreati Idem
Le urine e/o gli escreati convogliano direttamente dai bagni (zona calda) direttamente in vasche di raccolta Le urine e gli escreati vanno raccolti in contenitori tenuti lontano dagli altri, da chiudere e smaltire dopo 24 h
Indossare DPI di protezione adeguati al tipo di radiazioni Gestire il paziente avendo cura di indossare i DPI così da evitare che possa essere contaminata la divisa abituale
In caso di contaminazione, lavare attentamente e a lungo le mani con acqua e sapone Idem
Accanto al letto del paziente porre un contenitore per rifiuti speciali da utilizzare per smaltire eventuali fazzoletti, stoviglie monouso, medicazioni, sacche delle urine, deflussori, materiali che sono stati a contatto con il paziente
E’ buona regola utilizzare padelle e/o storte contrassegnandole (es. bollino rosso adesivo) che verranno poste lontano dalle altre in uso
Eventuali medicazioni vanno rimosse manipolando il materiale con pinze a manico
Il trasporto del paziente dalla U.O.C. di Medicina Nucleare al reparto di provenienza, va eseguito dall’operatore che avrà cura di mantenere la distanza di un metro specie in ascensore
I parenti del paziente vanno informati sul comportamento da tenere durante l’orario delle visite.

Va vietato l’ingresso alle donne in stato di gravidanza e ai bambini

Sarebbe auspicabile porre il paziente in camera singola o comunque ad una distanza da altro paziente di almeno due metri

 

 

Le precauzioni descritte non devono indurre a facili allarmismi poiché conoscere le corrette procedure si trasforma in comportamenti corretti e rischi nulli sia per l’operatore che per il paziente/utente.

Alla base di ogni gesto deve esserci, sempre, il riconoscere la dignità di chi ci viene affidato affinchè non si senta un pericolo per gli altri e per se stesso.

 

Articolo scritto dalla Dott.ssa Sardella

L’ASSISTENZA DELL’O.S.S. E O.S.S.S. NEI CONFRONTI DEL PAZIENTE SOTTOPOSTO A RADIOTERAPIA

Secondo l’Accordo Stato Regioni 22 febbraio 2001 Gazzetta Ufficiale 19 aprile 2001, n. 91 “ O.S.S.”

E l’Accordo Stato Regioni 23 gennaio 2003 “O.S.S.S.”

 

Il paziente oncologico, può essere sottoposto a radioterapia in diverse regioni del corpo.

  • Le norme generali che l’OSS/OSSS deve praticare a tutti i pazienti sono:
  • identificare i fattori di Rischio;
  • ricevere informazioni da pazienti e caregivers per individuare i bisogni assistenziali ;
  • fornire/garantire agli utenti informazioni laddove siano ridotte , e/o radicate e/o assenti, pensiamo a quanti tabù ci sono dietro la parola “radioterapia” molti pensano che non possono stare vicino agli altri perché sono radioattivi, che non devono lavarsi sulla zona irradiata ( con le dovute conseguenze dal punto di vista odori , sudorazione ecc..!);
  • essere di supporto nella continuità delle cure;
  • limitare lo stato d’ansia del paziente.

La regione testa-collo comprende tutti i tumori dell’encefalo, cavo orale orofaringe, rinofaringe, ghiandole salivari, faringe e laringe.

Nel caso di irradiazione dell’encefalo il rischio maggiore è quello della crisi epilettica, quindi le priorità assistenziali dell’OSS/OSSS consistono nel prevenire le lesioni durante la crisi con degli accorgimenti di seguito riportati:

– posizione laterale

– togliere dalla bocca qualsiasi corpo estraneo (dentiera)

– non sforzare la mandibola ma mantenerla

– sollevare il mento

– inserire un tampone in bocca per evitare che si morda la lingua

– far mantenere una posizione sicura utilizzando dove possibile delle sponde

– non immobilizzare le gambe e le braccia del paziente

– stare vicino ad esso ed assicurargli la privacy

– controllare il livello di coscienza, diuresi e respiro

– assicurare una corretta ossigenazione

 

 

Quando vengono irradiate le altre parti del capo – collo, esempio laringe /faringe, i rischi maggiori sono:

  • – Mucosite
  • – Eritema
  • – Perdita dello smalto dei denti
  • – Riacutizzazione di ascessi
  • – Osteonecrosi

 

Questi sintomi in genere, compaiono dopo 2 settimane dall’inizio del trattamento radioterapico e regrediscono dopo alcuni giorni della fine del trattamento.

 

L’OSS/OSSS in questo caso deve:

  • Assicurare una corretta igiene orale per evitare la formazione di carie.
  • Preservare lo smalto dei denti.
  • Fornire un’adeguata nutrizione.
  • Mantenere un adeguato peso corporeo.
  • Controllare l’adesione da parte del paziente ai protocolli che gli sono stati forniti.
  • controllare ogni giorno lo stato della bocca
  • controllare la secchezza delle fauci
  • controllare la diminuzione di produzione di saliva
  • controllare l’alterazione del gusto
  • controllare che non vi siano disturbi nella deglutizione e reazioni cutanee.
  • controllare 2 volte alla settimana il peso del paziente (lunedì/venerdì).
  • segnalare qualsiasi situazione di disagio all’infermiere .

 

L’OSS/OSSS nella presa in carico del paziente in trattamento radioterapico, deve suggerire alcuni consigli importanti :

  • Bere molto.
  • Fare sciacqui frequenti.
  • Dieta semi liquida.
  • Masticare chewing-gum, ghiaccio e caramelle al limone non zuccherate, proteggere le labbra con miele rosato, migliorare i sapori dei cibi e concentrarsi su essi, non assumere cibi irritanti, salati, agrumi, verdura cruda, crosta di pane, grissini o fette biscottate, assumere alimenti molto idratati per rendere più facile la deglutizione.
  • Evitare fumo e alcolici.

 

L’approccio Olistico, ovvero la presa in carico globale dell’utente garantisce un risultato strategico e vincente.

L’EMPATIA ED IL RIMANDO EMPATICO NELLA RELAZIONE OSS PAZIENTE ANZIANO E BAMBINO MALATO _BOURNOUTL’EMPATIA ED IL RIMANDO EMPATICO NELLA RELAZIONE OSS – PAZIENTE ANZIANO E BAMBINO MALATO _BOURNOUT

L’empatia e’ l’atto attraverso cui ci rendiamo cui ci rendiamo conto che un altro un’altra e’ soggetto di esperienza come lo siamo noi,vive di sentimenti ,emozioni ,compie atti volitivi e cognitivi. Capire quello che sente, vuole e pensa l’altro ,e’ elemento di essenziale importanza nella convivenza  umana , in tutti i suoi aspetti,sociali,politici,morali.Di empatia e rimando empatico si parla in tutti i modi veramente i piu disparati.

La capacità di entrare in sintonia con i sentimenti piu’ intimi dell’altro,dalla gioia,al dolore,alla vergogna è la vera forza di un essere EMPATICO.

L’empatia e’una parola predestinata,sprigiona fascino ed al contempo pero’ puo’ suscutare imbarazzo.Risale alla radice greca pathien (patire soffrire) dalla quale derivano il termine italiano o quello inglese EMPATHY che rimanda al verbo tedesco fuhlen sentire .Ebbene sentire l’altro e’ questo che un bravo/a operatore socio sanitario dovrebbe fare quando si accosta al paziente.Ormai nei testi di formazione professionale per operatori socio sanitari ,sono dedicati capitoli,all’empatia al rimando empatico,ed al distacco emozionale,l’essere operatore socio sanitario,prevede una sorta di fusione tra le competenze tecniche e quelle empatiche.L’ascolto,la postura,lo sguardo,il tatto, il tocco,il sorriso ,sono elementi indispensabili per entrare in empatia con il paziente, sia se ci si trova a svolgere la propria attività in privato,o in una struttura ospedaliera.Soprattutto questo avviene quando l’oss è impegnato nel dedicarsi all’anziano, i doloreentrare dentro al suo mondo con senso di partecipazione concreto,ascoltare il ritmo le pause e anche il silenzio che è risonante, il rumore del respiro ,i borbottii del corpo serve ad entrare in empatia, e l’assistito si sente ,amato,protetto,accompagnato,farlo sentire parte integrante della relazione,è veramente importante per l’assistito.Diverso e piu’ ampio è l’accostamento al paziente bambino,li’ l’operatore entra in un mondo dove deve con garbo e gentilezza vivere un contesto familiare.In questo caso,l’operatore entra dentro il mondo del bambino stesso , ma l’entrare in empatia con l’intera famiglia.Con i sentimenti di rabbia di impotenza di dolore genitoriale ed oltre.Entrare in empatia ed avere queste caratterischiche èun esperienzio sanitario a incredibilmente forte .,che implica un umanizzazione del servizio socio sanitario importante ed ineludibile,essendo l’operatore socio sanitario chiamato a svolgere assistenza diretta alla persona e miglioramento delle condizionidi vita dell’assistito,del bambino e di tutto cio’ che lo circonda.

ecco perchè l’operatore socio sanitario oltre a focalizzarsi sui sintomi fisici,da anni ormai è preso in considerazione soprattutto per la parte empatica relazionale per essere di effettivo aiuto nel migliorare ed elaborare le emozioni del paziente correlate strettamente alla salute.

L’operatore vive emozioni, sentimenti relativi al contesto nel quale opera.Vivono molto spesso,l’ansia del contatto quotidiano con il paziente con la sofferenza di non riuscire a “guarirli”o aiutarli, e a volte questo senso di impotenza  porta loro a vivere dei contraddittori ed a entrare in burnout.

L’oss,come i medici gli infermieri ,gli psicologi,gli avvocati ,gli assistenti sociali ,gli io del fuocnsegnanti,i preti in missione ,i vigili del fuoco i polizziotti i carabinieri,operatori per l’infanzia sono categorie soggette al burnout, che lettealmente significa “BRUCIATO” prorio perchè esistono in questa professione elementi e fenomeni di affaticamento mentale e fisico ,delusioine,logoramento,tutti elementi che sfociano in improduttività,prostrazione e delusione e soprattutto disinteresse per la propria attività professionale tanto è il carico emotivo nella quotidianeità

Non basterebbero fogli per parlare del burnout, che si associa ormai allo stress da lavoro correlato ,il mio intento in queste poche righe è di mettere l’accento su questa professione nobile, ingentilita dalla capacità di entrare empaticamente nell’altro che fa’ dell’operatore socio sanitario una figura di assistenza e di supporto professionale di coscienzae responsabilitàdel progetto assistenziale rivolto alle persone.

 

Claudia Battaglia

counsellor relazionale