Due importanti studi sulla COVID-19 sono stati ritirati

Erano stati pubblicati su Lancet e NEJM, tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo, basandosi su dati che gli stessi autori non hanno potuto verificare.

Lancet e il New England Journal of Medicine (NEJM) – due tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo – hanno ritirato due studi sulla sperimentazione di farmaci contro la COVID-19, che avevano avuto grandi ripercussioni nella ricerca di nuovi trattamenti contro la

malattia causata dal coronavirus. Uno dei due studi aveva indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a interrompere i test con l’idrossiclorochina, un antimalarico che aveva dato alcuni risultati positivi nel trattamento dei pazienti, ma che secondo la ricerca ora ritirata poteva avere in alcuni casi effetti collaterali gravi sui malati di COVID-19.

Non accade spesso che studi pubblicati su riviste di questo livello siano ritirati, e che questo accada così velocemente dopo la loro diffusione. Secondo diversi esperti, la vicenda dimostra come la ricerca di soluzioni per la pandemia abbia portato a una certa frenesia in ambito scientifico e clinico, con la pubblicazione di decine di nuove ricerche ogni giorno e poco tempo per verificarne l’affidabilità anche da parte delle riviste scientifiche più rispettate.

Entrambi gli studi erano stati realizzati dal cardiochirurgo Mandeep Mehra (Brigham and Women’s Hospital, Università di Harvard) insieme ad altri ricercatori, sulla base di un grande set di dati fornito da Surgisphere, una piccola azienda di Chicago gestita da Sapan Desai, indicato tra gli autori delle due ricerche.

Lo studio pubblicato su Lancet aveva segnalato che, in diverse circostanze, l’idrossiclorochina potesse causare più danni che benefici nei pazienti con COVID-19. Il farmaco viene utilizzato contro la malaria ed è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è soprattutto noto con il nome commerciale Plaquenil, usato anche per trattare malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. L’idrossiclorochina era finita al centro dell’interesse dei media un paio di settimane fa, quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva detto di avere iniziato ad assumerla come terapia preventiva contro la COVID-19, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche circa l’utilità del farmaco per prevenire l’infezione da coronavirus.

Dopo la pubblicazione della ricerca di Mehra su Lancet, diversi ricercatori avevano espresso dubbi circa l’affidabilità dei dati su cui era basata e forniti da Surgisphere. In molti si erano chiesti come avesse fatto un’azienda così piccola, con meno di una decina di dipendenti, ad avere raccolto ed elaborato i dati sanitari di decine di migliaia di pazienti, forniti da centinaia di ospedali con i quali dichiarava di avere avviato collaborazioni. Raccogliere dati sanitari non è semplice e richiede la stipula di contratti molto articolati con ogni ospedale, con specifiche garanzie per la tutela della privacy dei pazienti: appariva quindi improbabile che Surgisphere da sola fosse riuscita a ottenere risultati simili.

Le evidenze scientifiche in una ricerca dovrebbero valere più di qualsiasi curriculum, ma c’è sempre il rischio che la reputazione degli autori di una ricerca condizioni le valutazioni degli altri, almeno nei primi tempi dopo la pubblicazione dei loro lavori. Mehra è un ricercatore molto rispettato e nel corso della sua carriera ha pubblicato centinaia di studi, cosa che potrebbe avere condizionato il modo in cui è stato percepito il suo studio sull’idrossiclorochina. Leggendo le conclusioni del suo lavoro, diversi ricercatori avevano deciso di rivedere o fermare le loro sperimentazioni e la stessa OMS aveva annunciato una sospensione dei test, per precauzione, considerati i rischi indicati da Mehra e colleghi. L’Organizzazione ha da poco annunciato il riavvio delle sperimentazioni.

Lancet ha ritirato lo studio su indicazione degli autori, dopo che Surgisphere si è rifiutata di fornire i dati completi in suo possesso sui pazienti, rendendo impossibile la verifica degli stessi da parte di altri ricercatori non coinvolti direttamente nella ricerca. La società ha comunicato di non potere condividere quei dati a causa degli accordi con gli ospedali con cui collabora. Questa circostanza ha reso impossibile la verifica dei dati e quindi la stessa analisi dello studio.

Anche lo studio ritirato dal NEJM era basato sui dati di Surgisphere: segnalava che l’assunzione di alcuni farmaci per regolare la pressione non comportava un maggior rischio di morte tra i malati di COVID-19, come era stato invece indicato da altri studi. Gli autori della ricerca hanno pubblicato una nota sulla rivista dicendo di non avere avuto accesso ai dati grezzi forniti dall’azienda, e di non essere quindi in grado di avere ulteriori conferme sulla loro qualità. Il dettaglio paradossale è che oltre a Mehra tra gli autori dello studio c’è anche Desai (il capo di Surgisphere), che sembra non abbia accesso alle informazioni trattate dalla sua stessa azienda.

In seguito alla vicenda, Mehra ha diffuso un comunicato a titolo personale, nel quale ha spiegato di essere entrato in contatto con Desai tramite un collega e di essersi poi reso conto di non avere elementi a sufficienza per fare completo affidamento sui dati di Surgisphere: “Non ho fatto abbastanza per assicurarmi che la fonte dei dati fosse adeguata all’uso che ne abbiamo fatto. Per questo, e per tutti i disagi causati – direttamente o indirettamente – chiedo sinceramente scusa”.

La scelta delle due riviste scientifiche di pubblicare le note degli autori degli studi, senza accompagnarle da proprie valutazioni sull’accaduto, è stata criticata da numerosi osservatori. Secondo i più critici, in un momento storico in cui si pubblicano ogni giorno decine di ricerche su una pandemia in corso sarebbero utili valutazioni e introspezioni sugli errori compiuti, soprattutto da parte di riviste molto importanti e rispettate.

L’OMS ha sospeso i test sull’idrossiclorochina

Lo ha fatto «per abbondanza di precauzione», e dopo settimane in cui era stata indicata come possibile rimedio al coronavirus soprattutto da alcuni leader politici.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sospeso i test sull’efficacia contro il coronavirus dell’idrossiclorochina, un farmaco per la malaria che secondo valutazioni preliminari era stato descritto come potenzialmente utile per prevenire l’infezione da coronavirus (senza alcuna conferma scientifica). La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump aveva detto di avere iniziato una terapia a base di idrossiclorochina, mentre da tempo varie sperimentazioni erano state avviate un po’ in tutto il mondo, anche in Italia.

L’OMS non ha fornito molti dettagli sulla sua decisione. Mike Ryan, capo del programma che si occupa delle emergenze sanitarie, ha detto che è stata presa «per abbondanza di prudenza». Il capo dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto che la sperimentazione sull’idrossiclorochina è l’unica ad essere stata interrotta fra quelle gestite dall’OMS, comprese sotto il nome di SOLIDARITY.

Si era iniziato a parlare dell’impiego dell’idrossiclorochina contro la COVID-19 a febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la sua capacità di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione. Uno studio fatto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva coinvolto un numero limitato di persone.

L’OMS aveva comunque raccomandato ai medici di tutto il mondo di non prescrivere l’idrossiclorochina al di fuori dei test clinici, dato che la sua assunzione può provocare diversi effetti collaterali.

L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Cosa fa il coronavirus al nostro corpo

Le ricerche delle ultime settimane mostrano quanto il virus possa essere devastante e pericoloso non solo per i polmoni, ma dal cervello alle dita dei piedi.

Gli sforzi di virologi, epidemiologi, ricercatori e medici per cercare terapie e per sviluppare un vaccino contro l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) si traducono nella pubblicazione di migliaia di ricerche scientifiche e rapporti clinici ogni settimana. Il sito di Science, una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo, ha raccolto le osservazioni e le scoperte più rilevanti sulla COVID-19, mostrando quanto l’attuale coronavirus si riveli estremamente aggressivo nel 5 per cento circa dei pazienti, causando sintomi molto gravi. La malattia interessa per lo più i polmoni, ma i ricercatori e i medici hanno notato effetti importanti su buona parte del resto del corpo, dal cervello fino alle dita dei piedi.

Polmoni
Il coronavirus si trasmette per lo più tramite le piccole gocce di saliva che emettiamo parlando o tossendo. La principale via di contagio è attraverso le alte vie respiratorie: gola e naso. Nelle cellule di quest’ultimo, il virus sembra trovarsi particolarmente a proprio agio: le loro membrane cellulari sono ricche di ACE2 (enzima 2 convertitore dell’angiotensina), un recettore che regola che cosa possa o non possa entrare nella cellula. L’ACE2 è piuttosto diffuso nei tessuti cellulari del nostro organismo e questo potrebbe spiegare perché il coronavirus riesca a fare danni diffusi: con le proteine nel suo involucro, inganna l’ACE2 per iniettare il proprio materiale genetico (RNA) nella cellula e sfruttarla per replicarsi migliaia di volte, con nuove copie che infetteranno poi altre cellule.

Man mano che avviene la replicazione, gli individui infetti diventano contagiosi, soprattutto nella prima settimana dal momento dell’infezione. Possono sviluppare sintomi estremamente lievi – anche al punto da non accorgersi di essere malati – oppure febbre, tosse secca, perdita di olfatto e gusto, dolori articolari, mal di testa e mal di gola. Nel caso in cui il loro sistema immunitario non riesca a sbarazzarsi del coronavirus, questo prosegue la sua invasione raggiungendo le parti più profonde del sistema respiratorio: i polmoni.

Le strutture più piccole e delicate del polmone sono gli alveoli, il luogo in cui avviene lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica nella circolazione sanguigna. Le cellule del nostro organismo hanno infatti bisogno di ossigeno per vivere e gestire i loro processi, che portano alla produzione di anidride carbonica che deve essere invece eliminata con l’aria che espiriamo. Il sottilissimo strato di cellule che costituisce gli alveoli è ricco di ACE2, e questo favorisce il coronavirus.

Il sistema immunitario reagisce all’infezione con le sue prime risorse attraverso le chemochine, molecole che a loro volta attivano la risposta di altre cellule immunitarie che prendono di mira le cellule infettate dal virus e le distruggono. È una reazione molto violenta e paragonabile all’effetto di un bombardamento a tappeto: dopo il loro passaggio restano cellule morte e fluidi, sui quali possono prodursi batteri (pus). Per il paziente i sintomi di questa battaglia sono quelli tipici della polmonite: febbre, tosse e progressive difficoltà a respirare normalmente.

Molti pazienti riescono a superare questa fase della COVID-19 autonomamente, con l’assunzione di farmaci per tenere sotto controllo alcuni sintomi o con l’aiuto dell’ossigeno per favorire la respirazione. Nei casi più gravi, però, la malattia progredisce e si sviluppa una sindrome da distress respiratorio: i livelli di ossigeno nel sangue diminuiscono sensibilmente e la respirazione diventa sempre più difficile. Nelle TAC e radiografie i polmoni appaiono con opacità, nei punti in cui dovrebbero invece apparire scuri a indicazione della presenza dell’aria. Per i pazienti in queste condizioni si rende necessaria l’intubazione in terapia intensiva. Molti di loro muoiono: gli alveoli si intasano di fluidi, muco, cellule morte e altro materiale e non permettono lo scambio di ossigeno col sangue.

Diversi medici hanno inoltre segnalato che nei pazienti più gravi si sviluppa talvolta una “tempesta di citochine”, cioè una reazione oltre misura del sistema immunitario che si rivela molto più distruttiva nei tessuti polmonari. Alcuni pneumologi non sono così sicuri che il fenomeno sia molto ricorrente e invitano a qualche cautela in più, perché i farmaci che si utilizzano per ridurre queste reazioni fuori misura abbattono la reattività del sistema immunitario, con il rischio che nel frattempo il coronavirus riesca a prosperare e a portare avanti l’infezione.

Cuore e circolazione sanguigna
Nelle ultime settimane è diventato evidente come la COVID-19 interessi diverse altre parti dell’organismo oltre ai polmoni, comportando rischi importanti anche per il cuore. Non è ancora chiaro come il coronavirus colpisca il sistema cardiocircolatorio, ma ormai decine di ricerche e rapporti clinici segnalano danni consistenti piuttosto comuni, tra i pazienti gravi. Uno studio svolto a Wuhan, la città cinese da cui è cominciata la pandemia, ha indicato che circa un quinto di 416 pazienti esaminati con COVID-19 aveva riportato danni cardiaci. Un’altra ricerca, svolta negli ospedali della stessa città, ha segnalato la presenza di irregolarità nel battito cardiaco (aritmie) nel 44 per cento di 138 pazienti ricoverati.

Altri medici e ricercatori hanno segnalato la presenza di coaguli di sangue, che si formano nei vasi sanguigni a causa dell’infiammazione. Il nostro organismo ha sistemi per sciogliere questi coaguli, ma in alcuni casi piccoli frammenti non si disgregano e continuano a circolare. A livello dei polmoni, questi grumi possono bloccare vasi importanti portando a un’embolia polmonare, che può rivelarsi letale. Altri coaguli possono raggiungere il cervello, causando danni permanenti.

L’infezione da coronavirus può inoltre indurre una riduzione nell’ampiezza (lume) dei vasi sanguigni. Diversi studi riferiscono di casi clinici di pazienti con forme di ischemia alle dita dei piedi e delle mani: la ridotta circolazione del sangue in queste zone periferiche porta a gonfiore e dolore nelle dita, e nei casi più gravi a danni permanenti ai loro tessuti cellulari. Altri danni si verificano a livelli dei polmoni, complicando situazioni che in pazienti gravi sono già piuttosto compromesse.

La COVID-19 si sta rivelando sempre più come una malattia non solo polmonare ma anche cardiovascolare, e i ricercatori non ne hanno ancora compreso cause e dinamiche. Un’ipotesi è che anche in questo caso la presenza di ACE2 sulle pareti dei vasi sanguigni e del cuore favorisca la presenza del coronavirus. Potrebbe anche esserci una spiegazione più semplice e legata al fatto che i gravi danni polmonari si riflettono sul resto del sistema cardiocircolatorio, che è strettamente legato a quello polmonare. Comprendere meglio questi meccanismi sarà essenziale per trovare trattamenti più efficaci contro la malattia.

Reni
Uno studio condotto a Wuhan su 85 pazienti ha messo in evidenza come circa un quarto avesse sofferto di gravi forme di insufficienza renale. In un’altra ricerca, condotta su 200 pazienti ricoverati, sono state riscontrate nel 59 per cento dei casi proteine e sangue nelle urine, una condizione che si verifica quando i reni non riescono a filtrare adeguatamente il sangue che li attraversa. Gli individui con precedenti problemi renali seri si sono inoltre rivelati più esposti al rischio di morte dopo avere contratto il coronavirus.

Non è chiaro se e come il coronavirus attacchi direttamente i reni. Per ora gli studi in tema sono scarsi, anche se una ricerca svolta conducendo autopsie sui pazienti ha consentito di rilevare la presenza di tracce del virus nei tessuti renali. L’insufficienza renale potrebbe essere comunque dovuta più in generale ai forti stress cui è sottoposto l’organismo dei malati: l’intubazione è un fattore di rischio per i reni, così come lo sono l’assunzione di farmaci molto pesanti, come gli antivirali che vengono somministrati per rallentare la replicazione del virus.

Nei primi mesi della pandemia ci si è concentrati molto sui ventilatori, essenziali per aiutare i pazienti gravi a respirare e a tenerli in vita, in attesa che il loro sistema immunitario riesca a sbarazzarsi del coronavirus. Diversi medici segnalano nelle loro ricerche l’importanza di dotare gli ospedali di un maggior numero di macchine per la dialisi, terapia che serve a ripulire il sangue da scorie e tossine, nel momento in cui un’insufficienza renale non permetta all’organismo di farlo autonomamente. Una maggiore disponibilità di questi macchinari potrebbe rivelarsi essenziale per salvare la vita di alcuni pazienti gravi.

Cervello
Un’infezione da coronavirus può anche comportare danni importanti a livello neurologico, soprattutto a carico del sistema nervoso centrale. Sono stati segnalati casi di encefaliti (infiammazioni del cervello) e di ictus. Il sistema nervoso centrale è relativamente isolato dal resto dell’organismo, proprio per proteggerlo dagli attacchi degli agenti esterni, e per ora non è chiaro in che misura il coronavirus possa creare danni. Un’indiziata è la presenza di ACE2 nella corteccia cerebrale, ma non ci sono per ora molti elementi in letteratura scientifica.

Uno studio condotto in Giappone ha evidenziato la presenza di tracce del virus nel liquor, il fluido cerebrospinale nel quale galleggia il sistema nervoso centrale. La ricerca è però basata sulle analisi di un solo paziente, che aveva sviluppato encefalite e meningite.

I dati sugli effetti per il cervello della COVID-19 sono ancora molto scarsi, e per questo alcuni neurologi stanno organizzando collaborazioni internazionali per raccogliere informazioni sui pazienti, con l’obiettivo di avere un quadro più preciso della situazione.

Intestino
Diverse ricerche segnalano che il coronavirus riesce a raggiungere anche le parti inferiori del sistema digestivo, dove c’è un’abbondanza di ACE2. In circa la metà delle feci di pazienti con COVID-19 analizzate in uno studio è stata rilevata la presenza di tracce del virus. Un’altra ricerca ha consentito di identificare tracce del coronavirus nelle cellule del retto, del duodeno e di altri tratti intermedi dell’intestino. Questa presenza spiegherebbe perché circa un quinto dei malati di COVID-19 abbia ricorrenti episodi di diarrea.

Altri sintomi
Fino a un terzo dei pazienti ricoverati sviluppa una fastidiosa congiuntivite, un’infezione dell’occhio, anche se non ci sono ancora elementi chiari per capire se e come il coronavirus colpisca direttamente gli occhi. Altri sintomi indicano forti stress per il fegato, anche se in questo caso la causa potrebbero essere i farmaci per rallentare l’avanzamento dell’infezione o più in generale il forte stress che il coronavirus comporta per il sistema immunitario.

Tempo e cautele
Saranno necessari mesi, probabilmente anni, prima di avere conoscenze più approfondite e chiare sulla COVID-19 e gli effetti del coronavirus sul nostro organismo. La maggior parte degli studi diffusi finora sono in formato preprint, quindi pubblicati direttamente dai ricercatori senza che sia effettuata una verifica da loro colleghi alla pari. È una condizione inevitabile per rendere disponibili il prima possibile nuovi elementi alla comunità scientifica, ma questo implica che siano assunte cautele in più nel riferirne i contenuti: alcune evidenze potrebbero essere smentite, e altre potrebbero essere integrate con nuovi elementi.