Come si rischia il contagio da coronavirus

Capirlo è fondamentale per decidere come e in che misura ridurre le restrizioni per tornare a lavorare, o a uscire a cena al ristorante.

Erin Bromage è un biologo, si occupa di immunologia e insegna presso l’University of Massachusetts, Dartmouth, negli Stati Uniti. Da qualche giorno un suo articolo divulgativo dedicato alle modalità di diffusione del coronavirus ha ottenuto grandi attenzioni e apprezzamenti, compresi quelli del New York Times, per avere spiegato in modo accessibile quali siano i rischi nell’allentare le restrizioni che diversi governi hanno imposto per rallentare la diffusione del contagio. Il suo post è stato visto più di 10 milioni di volte e aiuta a farsi meglio un’idea non solo di cosa potrebbe accadere, una volta attenuate le limitazioni, ma anche del perché alcuni luoghi di aggregazione sono più a rischio di altri.

Sulla base delle indagini epidemiologiche condotte in diversi paesi, sappiamo che il principale luogo di contagio sono le abitazioni, dove un infetto contagia le altre persone vivendo a stretto contatto con loro. È invece più complicato determinare con certezza come sia stata contagiata la prima persona infetta. Molti ritengono che il luogo di principale contagio possa essere il supermercato, un ambiente condiviso con molte persone e con numerose possibilità di toccare superfici che potrebbero essere contaminate. Bromage spiega invece che i dati dicono quasi sempre un’altra cosa, con diversi altri contesti più a rischio, e che dipendono dalle modalità di diffusione del coronavirus.

Come si diventa infetti
In generale, un contagio da virus si verifica quando si viene esposti a una certa dose di particelle virali (virioni), cioè i virus nella loro forma al di fuori degli organismi. Non è semplice stabilire quante particelle siano necessarie per avviare un’infezione, ma si possono fare stime abbastanza accurate. Per i coronavirus che causano la MERS e la SARS (una malattia respiratoria causata da un virus con cose in comune con l’attuale coronavirus) si stima che siano necessarie un migliaio di particelle virali, e che lo stesso valga per il coronavirus che causa la COVID-19. È una stima ritenuta affidabile, ma che richiederà ulteriori ricerche e approfondimenti per essere confermata.

Ci sono molti modi in cui si può venire a contatto con mille particelle virali: possono essere inalate se qualcuno starnutisce a breve distanza da noi, oppure se ci tocchiamo la faccia dopo avere passato le mani su superfici sulle quali era presente il coronavirus. Si può rimanere infetti sia nel caso in cui si venga esposti a mille particelle in una volta sola sia nel caso in cui – in breve tempo – si ripetano operazioni che portano a un accumulo di virioni, fino a superare la soglia che rende possibile l’infezione vera e propria.

Sulla base degli studi realizzati finora, Bromage scrive che i bagni possono essere considerati tra i luoghi più a rischio per la diffusione del coronavirus: sono pieni di superfici che vengono inevitabilmente toccate da chi li utilizza, e sulle quali si potrebbero quindi accumulare molti virioni. La loro diffusione avviene sia tramite le superfici sia tramite le goccioline (droplet) che si sollevano in particolari circostanze, per esempio quando si attiva lo sciacquone. Per questo viene consigliato di utilizzare i bagni pubblici con grande cautela, in attesa di avere valutazioni del rischio più precise.

Respiro, tosse e starnuti
Con un solo colpo di tosse si producono fino a 3mila droplet che possono essere proiettati a diversi metri di distanza da chi tossisce, a una velocità di circa 75 chilometri orari. Le gocce più grandi ricadono quasi subito al suolo, perché più pesanti, mentre le altre possono rimanere sospese più a lungo e quindi diffondersi più facilmente nei luoghi chiusi, dove c’è un minore ricambio di aria.

Nel caso di uno starnuto, i droplet prodotti possono essere circa 30mila, con una velocità che in alcuni casi supera i 300 chilometri orari. A differenza della tosse, la dimensione delle goccioline è più piccola e questo contribuisce a far coprire loro distanze più grandi.

Bromage scrive che i droplet prodotti con la tosse o uno starnuto da una persona infetta possono contenere fino a 200 milioni di particelle virali. È bene specificare che i virioni viaggiano nelle gocce di saliva e muco proiettate con tosse, starnuti e (in misura molto minore) con il respiro: il coronavirus non circola di suo liberamente nell’aria, si trova in sospensione solo nel caso in cui qualcuno lo abbia emesso e ci rimane per poco tempo. È inoltre difficile stabilire quante persone siano contagiate respirando i droplet, rispetto a quelle che diventano infette dopo avere toccato superfici contaminate ed essersi poi portate le mani alla faccia.

Quando espelliamo l’aria con la respirazione produciamo tra i 50 e 5mila droplet a velocità molto inferiori rispetto a quelli prodotti con tosse e starnuti: ricadono rapidamente a terra, senza rimanere in sospensione. Inoltre, con l’espirazione non espelliamo quantità significative di materiale dalle vie respiratorie profonde, dove si accumulano le maggiori riserve del coronavirus. La carica virale dei respiri è quindi molto bassa, almeno basandosi sull’esperienza con altri virus come quelli dell’influenza stagionale (che non hanno nulla a che fare con l’attuale).

In una stanza
Nel caso in cui una persona starnutisca o tossisca emettendo 200mila particelle virali, c’è chiaramente un rischio maggiore per un ipotetico interlocutore di ricevere in un colpo solo un migliaio di virioni sufficienti per portare a un contagio. Seppure minore, il rischio rimane anche se ci si trova in un altro punto della stanza rispetto a chi ha starnutito: i droplet che ha prodotto restano in sospensione nell’aria per qualche minuto e potrebbero essere respirati ugualmente da un’altra persona.

Se si entra in una stanza di piccole dimensioni, dove una persona positiva al coronavirus ha appena starnutito, c’è quindi il rischio di rimanere infetti dopo avere fatto qualche respiro. Questa eventualità diventa molto più remota nel caso in cui la persona infetta respiri normalmente, ma non tossisca o starnutisca: in questo caso non sarebbero sufficienti pochi minuti per ricevere la quantità minima di virioni per avviare l’infezione, ma fino a un’ora ipotizzando che in media l’infetto emetta 20 particelle virali al minuto e che per assurdo siano tutte inalate.

Nel caso di una riunione di lavoro, il rischio potrebbe essere più alto, perché parlando si emettono fino a dieci volte i droplet che si emettono respirando in silenzio. Le particelle virali sarebbero circa 200 al minuto e potrebbero quindi essere sufficienti alcuni minuti per infettare il proprio interlocutore (se entrambi non adottassero precauzioni). Per questo chi si occupa del tracciamento dei contatti dovrebbe sempre chiedere ai nuovi infetti non solo un elenco delle persone viste nei giorni precedenti, ma anche il tempo trascorso con loro e l’eventualità di avere parlato per almeno dieci minuti con alcuni privi di protezioni.

Quando si è contagiosi
L’attuale coronavirus è piuttosto contagioso e parte della sua capacità di diffondersi facilmente è dovuta al fatto che in molti casi comporta sintomi lievissimi, al punto da non rendersi conto di essere malati. Gli infetti con pochi o nessun sintomo mantengono quindi una vita sociale attiva, e inconsapevolmente diventano la fonte di contagio per molte altre persone. Alcune ricerche hanno inoltre rilevato come molti infetti fossero contagiosi già nei cinque giorni precedenti all’insorgenza di chiari sintomi da COVID-19.

Le persone infette non emettono sempre la stessa quantità di particelle virali: la loro contagiosità varia a seconda della carica virale, cioè di quanto sia diffusa l’infezione nel loro organismo. Il picco nella capacità di diffondere il coronavirus corrisponde di solito ai momenti poco prima di sviluppare chiari sintomi, e questo spiega perché molti infetti inconsapevoli contagino altre persone prima di praticare l’isolamento, quando scoprono di essere infetti perché si sono ammalati.

I luoghi del contagio
Tenendo a mente tutto questo, e il fatto che molti dettagli sulla trasmissione del coronavirus siano ancora da approfondire, si possono fare valutazioni sul rischio di contagio a seconda dei luoghi e delle circostanze. Bromage segnala come alcuni fatti di cronaca delle ultime settimane aiutino a farsi un’idea sui luoghi a più alto rischio.

Dopo le case di riposo, in cui vivono persone anziane deboli e quindi più esposte alla COVID-19, i casi di contagio più consistenti sono avvenuti nelle carceri, nei luoghi di culto e sul posto di lavoro. Più in generale, come prevedibile, in luoghi chiusi, con uno scarso ricambio di aria e con un’alta concentrazione di persone.

Negli Stati Uniti il caso più emblematico delle dinamiche di contagio è quello degli impianti dove si macellano e selezionano le carni a scopo alimentare. Gli operatori trascorrono ore in ambienti rumorosi dove si deve parlare ad alta voce per comunicare, in stanze refrigerate e con un certo grado di umidità, che favoriscono la conservazione delle particelle virali. In 23 stati sono finora stati rilevati 115 casi di contagio in altrettanti stabilimenti, con almeno 5mila persone contagiate e 20 morti rilevati.

Ristoranti
I primi studi epidemiologici sulla diffusione del coronavirus in ambienti chiusi e molto frequentati, come i ristoranti, non sono promettenti. Bromage cita un’analisi realizzata sulla base del tracciamento dei contatti di chi era stato a cena con una persona, che in seguito aveva scoperto di essere infetta.

Come mostra lo schema, la persona infetta (A1) era a tavola con 9 amici per una cena durata circa 90 minuti. A1 non aveva sintomi, quindi rilasciava nell’aria i droplet con la normale respirazione, e questi erano poi trasportati da destra a sinistra (rispetto all’orientamento dello schema) dal sistema di ventilazione del ristorante. Circa la metà delle persone a tavola con l’infetto ha sviluppato i primi sintomi della COVID-19 entro una settimana dalla cena.

Sono rimaste infettate anche tre persone su quattro in un tavolo adiacente (B), che si trovava sottovento, rispetto al tavolo di A1 e al flusso d’aria generato dalla ventilazione del locale. Inoltre, altre due persone sono rimaste infette al tavolo sopravento (C), forse a causa di alcune turbolenze create dal sistema di ventilazione. I tavoli E ed F erano invece fuori portata, senza un’esposizione diretta al flusso d’aria del sistema di ventilazione, e nessuno dei commensali ha poi sviluppato sintomi.

Lavoro
Anche sul posto di lavoro i rischi possono essere consistenti. Bromage cita uno studio realizzato per ricostruire una catena dei contagi all’interno di un call center, e riassunto in questo schema.

Una sola persona infetta è andata al lavoro condividendo uno spazio con altri 216 impiegati. Nel corso di una settimana, 94 di questi sono stati contagiati (le sedie azzurre) e tutti tranne due hanno poi sviluppato sintomi della COVID-19. Dallo schema è evidente come il contagio abbia interessato quasi esclusivamente le postazioni da un lato dell’ufficio, a conferma che la condivisione di uno stesso spazio a poca distanza da un infetto possa fare la differenza.

Droplet e superfici
Sia nel caso del ristorante sia in quello del call center i droplet hanno sicuramente avuto un ruolo centrale nella diffusione del contagio, ma non possiamo stabilire con certezza se siano stati respirati direttamente. Entrambi i contesti prevedevano situazioni in cui si toccavano molti oggetti e superfici (bicchieri, posate, bottiglie, cestini del pane, tastiere del computer, microfoni, cuffie, maniglie e altri utensili, per citarne solo alcuni) sui quali potevano essersi depositati i droplet o per via diretta, o dopo che l’infetto si era tossito in una mano prima di toccare qualcosa.

Cerimonie e feste
Bromage cita poi un caso particolare di Chicago, per dimostrare come si possa avviare facilmente una catena dei contagi.

Bob (nome di fantasia) non sapeva di essere positivo al coronavirus e ha condiviso con due membri della sua famiglia alcuni piatti, presi con il take away, durante una cena durata circa tre ore. Il giorno dopo, Bob è andato a un funerale, ha abbraccio diversi membri della famiglia e altri conoscenti per esprimere le sue condoglianze. Entro quattro giorni entrambi i familiari con cui aveva condiviso il pasto si sono ammalati. Bob intanto ha partecipato a una festa di compleanno con nove altre persone, durata circa tre ore. Sette dei partecipanti si sono poi ammalati.

Solo qualche giorno dopo questi eventi Bob ha iniziato ad avere sintomi, tali da rendere necessario un suo trasferimento in ospedale, dove è morto dopo un breve ricovero. Ma la sua catena del contagio è proseguita.

Tre persone che avevano partecipato con lui alla festa di compleanno sono andate in chiesa, senza sapere di essere state contagiate, e rimanendo per diverso tempo a stretto contatto con altri fedeli hanno diffuso ulteriormente il coronavirus.

Stando al tracciamento dei contatti svolto sul caso di Chicago, Bob è stato da solo responsabile del contagio di 16 persone con età compresa tra 5 e 86 anni: tre di queste sono morte. (Naturalmente nelle catene del contagio intervengono altre variabili, che potrebbero avere contribuito a determinare questo esito.)

Semplice
I casi del ristorante, del call center e di Bob mostrano – insieme a tanti altri – quanto sia tutto sommato semplice che si diffonda il coronavirus. Tutti i casi citati hanno in comune di essersi verificati in luoghi al chiuso, con persone a stretto contatto e in contesti in cui si parla a voce alta, si canta, si urla o ci si passano oggetti gli uni con gli altri. Spiega anche perché i contagi siano più frequenti in casa, al lavoro, sui mezzi pubblici e nei ristoranti, rispetto ai supermercati dove tutto sommato ci sono meno interazioni dirette tra le persone.

Gli spazi offerti da molti supermercati sono inoltre ampi, i ricambi d’aria frequenti e il numero di clienti limitato, grazie alla pratica degli accessi contingentati. La combinazione di questi fattori rende il rischio di contagio basso, mentre rimane più rilevante per chi nei supermercati ci lavora.

Riaperture
La prospettiva di riprendere pienamente le attività lavorative e di ripristinare quelle dove avviene buona parte delle nostre interazioni sociali, come ristoranti e locali, non lascia tranquilli gli epidemiologi proprio per i maggiori rischi. Nei luoghi chiusi è più complicato praticare il distanziamento sociale e inoltre iniziano a esserci elementi a sufficienza per ritenere che la compresenza con infetti inconsapevoli, anche a metri di distanza, faccia aumentare considerevolmente il rischio di essere contagiati.

Il distanziamento fisico, scrive Bromage, è sostanzialmente pensato per ridurre l’esposizione tra contagiosi e sani negli ambienti esterni o per i brevi periodi in ambienti al chiuso, dove il poco tempo è la chiave: minore è, minore sarà il rischio di accumulare una quantità di virus tale da sviluppare un’infezione.

Con l’attenuazione delle misure restrittive sarà molto importante fare valutazioni attente degli ambienti chiusi in cui si lavora, o si incontrano gli amici. I fattori da tenere in considerazione devono essere:

• le loro dimensioni rispetto al numero di persone che li frequentano;
• la presenza di adeguati sistemi per il ricambio d’aria;
• il tempo di permanenza negli ambienti potenzialmente a rischio.

Soprattutto i datori di lavoro dovrebbero tenere in considerazione questi fattori, ripensando se necessario l’organizzazione degli spazi lavorativi che mettono a disposizione dei loro dipendenti. Un ufficio con un open space, per esempio, deve essere gestito in modo da ridurre il rischio, quindi con adeguati sistemi di aerazione, pannelli divisori e senza trascurare le pratiche del distanziamento fisico. Ambienti lavorativi che richiedono interazioni dirette costanti, magari in circostanze di alta rumorosità e in cui è necessario urlare per farsi sentire, sono da considerarsi più a rischio. Uno spazio lavorativo ben ventilato, con poche persone è invece a rischio più basso.

Infine, Bromage consiglia di rivedere parte delle proprie preoccupazioni per le interazioni all’aperto. Il passaggio nelle proprie vicinanze di un contagioso non implica che si venga contagiati, anche perché come abbiamo visto il processo deriva dalla quantità di particelle virali e dal loro accumulo in un breve periodo di tempo. Il rischio potrebbe essere un po’ più alto nel caso del passaggio di una persona che fa attività motoria correndo, pratica attraverso la quale espira sicuramente più droplet, ma il tempo di esposizione è comunque molto limitato considerata la velocità di un corridore.

Con un po’ di pazienza e con le buone pratiche si possono ridurre sensibilmente i rischi di contagio: mai toccarsi la faccia con le mani sporche, praticare il distanziamento fisico, evitare i luoghi affollati, ridurre le interazioni sociali e lavarsi di frequente le mani con il sapone, per almeno 20 secondi. Sul posto di lavoro, infine, si devono richiedere ai datori tutte le protezioni necessarie e gli accorgimenti per ridurre il rischio e garantire la propria sicurezza.

Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Cosa fa il coronavirus al nostro corpo

Le ricerche delle ultime settimane mostrano quanto il virus possa essere devastante e pericoloso non solo per i polmoni, ma dal cervello alle dita dei piedi.

Gli sforzi di virologi, epidemiologi, ricercatori e medici per cercare terapie e per sviluppare un vaccino contro l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) si traducono nella pubblicazione di migliaia di ricerche scientifiche e rapporti clinici ogni settimana. Il sito di Science, una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo, ha raccolto le osservazioni e le scoperte più rilevanti sulla COVID-19, mostrando quanto l’attuale coronavirus si riveli estremamente aggressivo nel 5 per cento circa dei pazienti, causando sintomi molto gravi. La malattia interessa per lo più i polmoni, ma i ricercatori e i medici hanno notato effetti importanti su buona parte del resto del corpo, dal cervello fino alle dita dei piedi.

Polmoni
Il coronavirus si trasmette per lo più tramite le piccole gocce di saliva che emettiamo parlando o tossendo. La principale via di contagio è attraverso le alte vie respiratorie: gola e naso. Nelle cellule di quest’ultimo, il virus sembra trovarsi particolarmente a proprio agio: le loro membrane cellulari sono ricche di ACE2 (enzima 2 convertitore dell’angiotensina), un recettore che regola che cosa possa o non possa entrare nella cellula. L’ACE2 è piuttosto diffuso nei tessuti cellulari del nostro organismo e questo potrebbe spiegare perché il coronavirus riesca a fare danni diffusi: con le proteine nel suo involucro, inganna l’ACE2 per iniettare il proprio materiale genetico (RNA) nella cellula e sfruttarla per replicarsi migliaia di volte, con nuove copie che infetteranno poi altre cellule.

Man mano che avviene la replicazione, gli individui infetti diventano contagiosi, soprattutto nella prima settimana dal momento dell’infezione. Possono sviluppare sintomi estremamente lievi – anche al punto da non accorgersi di essere malati – oppure febbre, tosse secca, perdita di olfatto e gusto, dolori articolari, mal di testa e mal di gola. Nel caso in cui il loro sistema immunitario non riesca a sbarazzarsi del coronavirus, questo prosegue la sua invasione raggiungendo le parti più profonde del sistema respiratorio: i polmoni.

Le strutture più piccole e delicate del polmone sono gli alveoli, il luogo in cui avviene lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica nella circolazione sanguigna. Le cellule del nostro organismo hanno infatti bisogno di ossigeno per vivere e gestire i loro processi, che portano alla produzione di anidride carbonica che deve essere invece eliminata con l’aria che espiriamo. Il sottilissimo strato di cellule che costituisce gli alveoli è ricco di ACE2, e questo favorisce il coronavirus.

Il sistema immunitario reagisce all’infezione con le sue prime risorse attraverso le chemochine, molecole che a loro volta attivano la risposta di altre cellule immunitarie che prendono di mira le cellule infettate dal virus e le distruggono. È una reazione molto violenta e paragonabile all’effetto di un bombardamento a tappeto: dopo il loro passaggio restano cellule morte e fluidi, sui quali possono prodursi batteri (pus). Per il paziente i sintomi di questa battaglia sono quelli tipici della polmonite: febbre, tosse e progressive difficoltà a respirare normalmente.

Molti pazienti riescono a superare questa fase della COVID-19 autonomamente, con l’assunzione di farmaci per tenere sotto controllo alcuni sintomi o con l’aiuto dell’ossigeno per favorire la respirazione. Nei casi più gravi, però, la malattia progredisce e si sviluppa una sindrome da distress respiratorio: i livelli di ossigeno nel sangue diminuiscono sensibilmente e la respirazione diventa sempre più difficile. Nelle TAC e radiografie i polmoni appaiono con opacità, nei punti in cui dovrebbero invece apparire scuri a indicazione della presenza dell’aria. Per i pazienti in queste condizioni si rende necessaria l’intubazione in terapia intensiva. Molti di loro muoiono: gli alveoli si intasano di fluidi, muco, cellule morte e altro materiale e non permettono lo scambio di ossigeno col sangue.

Diversi medici hanno inoltre segnalato che nei pazienti più gravi si sviluppa talvolta una “tempesta di citochine”, cioè una reazione oltre misura del sistema immunitario che si rivela molto più distruttiva nei tessuti polmonari. Alcuni pneumologi non sono così sicuri che il fenomeno sia molto ricorrente e invitano a qualche cautela in più, perché i farmaci che si utilizzano per ridurre queste reazioni fuori misura abbattono la reattività del sistema immunitario, con il rischio che nel frattempo il coronavirus riesca a prosperare e a portare avanti l’infezione.

Cuore e circolazione sanguigna
Nelle ultime settimane è diventato evidente come la COVID-19 interessi diverse altre parti dell’organismo oltre ai polmoni, comportando rischi importanti anche per il cuore. Non è ancora chiaro come il coronavirus colpisca il sistema cardiocircolatorio, ma ormai decine di ricerche e rapporti clinici segnalano danni consistenti piuttosto comuni, tra i pazienti gravi. Uno studio svolto a Wuhan, la città cinese da cui è cominciata la pandemia, ha indicato che circa un quinto di 416 pazienti esaminati con COVID-19 aveva riportato danni cardiaci. Un’altra ricerca, svolta negli ospedali della stessa città, ha segnalato la presenza di irregolarità nel battito cardiaco (aritmie) nel 44 per cento di 138 pazienti ricoverati.

Altri medici e ricercatori hanno segnalato la presenza di coaguli di sangue, che si formano nei vasi sanguigni a causa dell’infiammazione. Il nostro organismo ha sistemi per sciogliere questi coaguli, ma in alcuni casi piccoli frammenti non si disgregano e continuano a circolare. A livello dei polmoni, questi grumi possono bloccare vasi importanti portando a un’embolia polmonare, che può rivelarsi letale. Altri coaguli possono raggiungere il cervello, causando danni permanenti.

L’infezione da coronavirus può inoltre indurre una riduzione nell’ampiezza (lume) dei vasi sanguigni. Diversi studi riferiscono di casi clinici di pazienti con forme di ischemia alle dita dei piedi e delle mani: la ridotta circolazione del sangue in queste zone periferiche porta a gonfiore e dolore nelle dita, e nei casi più gravi a danni permanenti ai loro tessuti cellulari. Altri danni si verificano a livelli dei polmoni, complicando situazioni che in pazienti gravi sono già piuttosto compromesse.

La COVID-19 si sta rivelando sempre più come una malattia non solo polmonare ma anche cardiovascolare, e i ricercatori non ne hanno ancora compreso cause e dinamiche. Un’ipotesi è che anche in questo caso la presenza di ACE2 sulle pareti dei vasi sanguigni e del cuore favorisca la presenza del coronavirus. Potrebbe anche esserci una spiegazione più semplice e legata al fatto che i gravi danni polmonari si riflettono sul resto del sistema cardiocircolatorio, che è strettamente legato a quello polmonare. Comprendere meglio questi meccanismi sarà essenziale per trovare trattamenti più efficaci contro la malattia.

Reni
Uno studio condotto a Wuhan su 85 pazienti ha messo in evidenza come circa un quarto avesse sofferto di gravi forme di insufficienza renale. In un’altra ricerca, condotta su 200 pazienti ricoverati, sono state riscontrate nel 59 per cento dei casi proteine e sangue nelle urine, una condizione che si verifica quando i reni non riescono a filtrare adeguatamente il sangue che li attraversa. Gli individui con precedenti problemi renali seri si sono inoltre rivelati più esposti al rischio di morte dopo avere contratto il coronavirus.

Non è chiaro se e come il coronavirus attacchi direttamente i reni. Per ora gli studi in tema sono scarsi, anche se una ricerca svolta conducendo autopsie sui pazienti ha consentito di rilevare la presenza di tracce del virus nei tessuti renali. L’insufficienza renale potrebbe essere comunque dovuta più in generale ai forti stress cui è sottoposto l’organismo dei malati: l’intubazione è un fattore di rischio per i reni, così come lo sono l’assunzione di farmaci molto pesanti, come gli antivirali che vengono somministrati per rallentare la replicazione del virus.

Nei primi mesi della pandemia ci si è concentrati molto sui ventilatori, essenziali per aiutare i pazienti gravi a respirare e a tenerli in vita, in attesa che il loro sistema immunitario riesca a sbarazzarsi del coronavirus. Diversi medici segnalano nelle loro ricerche l’importanza di dotare gli ospedali di un maggior numero di macchine per la dialisi, terapia che serve a ripulire il sangue da scorie e tossine, nel momento in cui un’insufficienza renale non permetta all’organismo di farlo autonomamente. Una maggiore disponibilità di questi macchinari potrebbe rivelarsi essenziale per salvare la vita di alcuni pazienti gravi.

Cervello
Un’infezione da coronavirus può anche comportare danni importanti a livello neurologico, soprattutto a carico del sistema nervoso centrale. Sono stati segnalati casi di encefaliti (infiammazioni del cervello) e di ictus. Il sistema nervoso centrale è relativamente isolato dal resto dell’organismo, proprio per proteggerlo dagli attacchi degli agenti esterni, e per ora non è chiaro in che misura il coronavirus possa creare danni. Un’indiziata è la presenza di ACE2 nella corteccia cerebrale, ma non ci sono per ora molti elementi in letteratura scientifica.

Uno studio condotto in Giappone ha evidenziato la presenza di tracce del virus nel liquor, il fluido cerebrospinale nel quale galleggia il sistema nervoso centrale. La ricerca è però basata sulle analisi di un solo paziente, che aveva sviluppato encefalite e meningite.

I dati sugli effetti per il cervello della COVID-19 sono ancora molto scarsi, e per questo alcuni neurologi stanno organizzando collaborazioni internazionali per raccogliere informazioni sui pazienti, con l’obiettivo di avere un quadro più preciso della situazione.

Intestino
Diverse ricerche segnalano che il coronavirus riesce a raggiungere anche le parti inferiori del sistema digestivo, dove c’è un’abbondanza di ACE2. In circa la metà delle feci di pazienti con COVID-19 analizzate in uno studio è stata rilevata la presenza di tracce del virus. Un’altra ricerca ha consentito di identificare tracce del coronavirus nelle cellule del retto, del duodeno e di altri tratti intermedi dell’intestino. Questa presenza spiegherebbe perché circa un quinto dei malati di COVID-19 abbia ricorrenti episodi di diarrea.

Altri sintomi
Fino a un terzo dei pazienti ricoverati sviluppa una fastidiosa congiuntivite, un’infezione dell’occhio, anche se non ci sono ancora elementi chiari per capire se e come il coronavirus colpisca direttamente gli occhi. Altri sintomi indicano forti stress per il fegato, anche se in questo caso la causa potrebbero essere i farmaci per rallentare l’avanzamento dell’infezione o più in generale il forte stress che il coronavirus comporta per il sistema immunitario.

Tempo e cautele
Saranno necessari mesi, probabilmente anni, prima di avere conoscenze più approfondite e chiare sulla COVID-19 e gli effetti del coronavirus sul nostro organismo. La maggior parte degli studi diffusi finora sono in formato preprint, quindi pubblicati direttamente dai ricercatori senza che sia effettuata una verifica da loro colleghi alla pari. È una condizione inevitabile per rendere disponibili il prima possibile nuovi elementi alla comunità scientifica, ma questo implica che siano assunte cautele in più nel riferirne i contenuti: alcune evidenze potrebbero essere smentite, e altre potrebbero essere integrate con nuovi elementi.

Cosa vuol dire essere malati di COVID-19

I primi sintomi, il ricovero in ospedale e poi il processo di guarigione, spesso complicato e incerto.

La sera del 10 marzo Edoardo, 39 anni, ha cominciato ad avere qualche linea di febbre e leggeri giramenti di testa. Quel giorno era stato all’ospedale Buzzi di Milano per assistere alla nascita di sua figlia. La mattina dopo, con la febbre a 38 e mezzo, una sensazione di compressione del torace e difficoltà a respirare bene, Edoardo ha chiamato l’ospedale. È stato mandato all’ospedale Sacco di Milano per fare il tampone al coronavirus: positivo.

Il 29 febbraio Mario (nome di fantasia), 69 anni, è andato al lavoro anche se si sentiva poco bene, con una forte sensazione di spossatezza. La mattina dopo si è svegliato con febbre, tosse e dolori in tutto il corpo: ha pensato subito al coronavirus, perché aveva fatto il vaccino anti-influenzale, e si è preoccupato perché aveva avuto una polmonite seria diciassette anni fa. Dopo aver fatto una radiografia ai polmoni, passato qualche giorno, è andato al pronto soccorso a Crema, dove gli hanno fatto il tampone: positivo.

La sera del 24 febbraio, dopo una giornata di lavoro, Marco (nome di fantasia), 54 anni, ha cominciato ad avere la febbre alta. È rimasto a casa dieci giorni con la febbre, prendendo paracetamolo e poi antibiotici, fino alle prime grosse difficoltà respiratorie. È andato la prima volta al pronto soccorso di Legnano (Milano) il 3 marzo, e poi di nuovo il 5 marzo. La seconda volta lo hanno portato in reparto di semi-intensiva, gli hanno messo la maschera per respirare e gli hanno fatto il tampone: positivo.

Edoardo, Marco e Mario sono solo tre delle decine di migliaia di persone che in Italia nell’ultimo mese hanno sviluppato i sintomi della COVID-19, la malattia provocata dal nuovo coronavirus: hanno avuto febbre e difficoltà respiratorie, sono state ricoverate in ospedale e poi sono state dimesse. Insieme a diversi altri malati di COVID-19, hanno raccontato al Post le loro storie: lo sviluppo dei primi sintomi, il difficile ricovero in ospedale e il lento processo di guarigione, che in alcuni casi si sta dimostrando clinicamente ed emotivamente piuttosto complicato.


Spiegare cosa significhi avere la COVID-19 a chi non l’ha avuta è piuttosto complesso. È una malattia che assomiglia poco a quelle che siamo abituati a conoscere, ed è diversa anche dalla normale polmonite batterica.

Inizia con lo sviluppo di alcuni sintomi particolari – generalmente dolori alle articolazioni, febbre e tosse – ma non ci sono evoluzioni standard: alcune persone mostrano fino dai primi giorni febbre alta, sopra i 38,5 °C, altri qualche linea; alcuni hanno subito difficoltà a respirare, altri hanno crolli respiratori dopo giorni; alcuni sentono dolori al torace, mancanza di gusto e olfatto, perdita dell’appetito, quasi tutti una intensa stanchezza.

La grande maggioranza dei malati di COVID-19 sviluppa sintomi lievi, che passano da soli o che possono essere tenuti sotto controllo in isolamento domiciliare, ma non sempre è così: in alcuni casi è necessario un ricovero in ospedale, e nelle aree più colpite non tutte le persone che ne avrebbero bisogno ricevono tempestivamente il trattamento adeguato.

Quasi tutti i malati con cui ha parlato il Post hanno raccontato di avere avuto grandi difficoltà a ottenere una diagnosi certa di COVID-19 prima di andare in ospedale: sia perché in alcune regioni, come la Lombardia, i tamponi vengono fatti solo alle persone in condizioni così gravi da dover essere ricoverate, sia per la varietà dei sintomi mostrati e la scarsa conoscenza che si continua ad avere dell’evoluzione della malattia. I malati più gravi di COVID-19 sviluppano infatti polmoniti interstiziali bilaterali (che interessano entrambi i polmoni), che peggiorano molto in fretta e creano complicanze difficili da trattare, hanno raccontato diversi medici anestesisti che lavorano in alcuni degli ospedali più colpiti.

Michele Marzocchi, medico di famiglia che riceve a Milano, ha definito le polmoniti date dalla COVID-19 «più subdole» rispetto a quelle batteriche, che provocano un numero maggiore di sintomi visibili.

Marzocchi ha raccontato per esempio di avere auscultato i polmoni di un paziente che mostrava sintomi di COVID-19, ma che all’esame medico risultava respirare bene e i cui polmoni sembravano perfetti. Tre giorni dopo, durante la notte, lo stesso paziente ha avuto un crollo respiratorio, peggiorando rapidamente. «Subdola» è lo stesso termine usato da Mario, paziente 69enne di Crema con un’esperienza precedente di polmonite batterica: ha raccontato di avere avuto la febbre alta per giorni ma mai superiore a 39 °C, e sempre accompagnata da sintomi non facili da interpretare, come una intensa stanchezza ed estrema fatica anche solo a spostarsi da una parte all’altra della casa.

«Una polmonite così non l’ho mai vista prima, è una patologia che conosciamo veramente poco», ha detto Angelo Vavassori, 53 anni, che di lavoro fa l’anestesista rianimatore all’ospedale di Bergamo e che ha sviluppato la COVID-19 dopo essere entrato in contatto con pazienti positivi.

Le difficoltà a diagnosticare la COVID-19, e la scarsa conoscenza del comportamento della malattia, hanno fatto sì che in molti casi persone con sintomi siano state lasciate a casa più tempo del dovuto, rischiando di non avere assistenza medica adeguata in caso di improvviso peggioramento respiratorio.

Gabriele (nome di fantasia), 54 anni, di Crema, ha iniziato a sviluppare i primi sintomi il 28 febbraio, tra cui febbre alta e perdita di gusto e olfatto. Per oltre una settimana, nonostante diverse telefonate al medico di famiglia e ai numeri di emergenza messi a disposizione dalle autorità sanitarie, non è riuscito a ottenere niente di più che l’indicazione di prendere farmaci per tenere sotto controllo la febbre. Otto giorni dopo, grazie a contatti familiari e preoccupato per i molti racconti su conoscenti finiti in ospedale a seguito di improvvisi peggioramenti, Gabriele è riuscito a farsi fare una radiografia, che ha mostrato una situazione ai polmoni già compromessa. È stato immediatamente ricoverato: prima gli è stata applicata la maschera per l’ossigeno, poi, dopo un rapido peggioramento delle sue condizioni, gli è stato messo il casco CPAP.

«Non so come sarebbe finita se avessi avuto il crollo a casa invece che in ospedale: forse ora non sarei qui», ha raccontato Gabriele, che nel frattempo è stato dimesso ma che è ancora in fase di guarigione.


Per alcuni malati di COVID-19 sentiti dal Post, l’esperienza in ospedale è stata complicata, soprattutto nelle aree più colpite dall’epidemia, come le province di Bergamo e Cremona.

Mario e Gabriele, entrambi ricoverati all’ospedale di Crema e arrivati in pronto soccorso con difficoltà respiratorie acute, hanno dovuto aspettare molte ore prima di essere trasferiti in uno dei reparti dell’ospedale riconvertiti per assistere i pazienti con la COVID-19. Entrambi hanno raccontato di avere trascorso la notte su una barella nel corridoio del pronto soccorso, con una mascherina per l’ossigeno, in attesa del risultato del tampone. «C’erano molte persone, molte barelle una a fianco all’altra. C’era molta gente che aveva paura», ha raccontato Gabriele: paura di non sapere cosa sarebbe successo, e di non riuscire a respirare.

«Ti manca l’aria nei polmoni», ha raccontato Marco, 54enne ricoverato all’ospedale di Legnano. «È una cosa che parte dal basso. È come soffocare, non hai nemmeno la forza di parlare». «Potevo solo respirare per rimanere vivo», ha detto Mario: «Non avevo la forza di fare niente. Durante i primi giorni di ricovero, ho detto ai miei figli di dire a tutti di non chiamarmi. Non riuscivo a parlare».

L’esperienza del ricovero in un reparto destinato ai malati di COVID-19 è molto diversa a seconda della gravità del paziente, e della situazione di stress in cui si trova l’ospedale. Molte persone ricoverate raccontano di come sia difficile rimanere per giorni in un letto senza poter parlare con nessuno e senza poter guardare in faccia medici e infermieri, tutti coperti da mascherine e visiere e a volte riconoscibili solo dal nome scritto a mano sul sovracamice. Può essere disorientante e può aumentare il senso di solitudine e incertezza, già molto intenso per la mancanza di contatti con amici e familiari, che non possono per nessuna ragione entrare nei reparti destinati ai pazienti con il coronavirus.

Anche il personale sanitario si è dovuto adattare alla nuova situazione, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, per le difficoltà di non conoscere bene la malattia e la paura di venire contagiati, e magari rischiare di contagiare i propri familiari una volta finito il turno di lavoro. Edoardo, 39enne ricoverato a Milano, ha raccontato che a un certo punto è stato visitato da due medici: «uno si vedeva che era in controllo, sapeva quello che faceva, l’altro era un cardiologo di 55 anni che era stato messo lì per dare una mano con i pazienti positivi». «Quando mi ha auscultato, il cardiologo stava piegato in avanti, cercando di starmi il più lontano possibile. Aveva paura di essere contagiato, era terrorizzato», ha detto.

Una delle esperienze più difficili da affrontare – se si esclude l’intubazione, per la quale però il paziente viene tenuto addormentato – è quella del casco CPAP, che viene applicato ai pazienti già abbastanza gravi e che all’inizio provoca una forte sensazione di soffocamento.

«Il casco è devastante da un punto di vista mentale», ha raccontato Vavassori, anestesista di Bergamo, «soprattutto per chi come me soffre di claustrofobia lieve e si sente quasi soffocare anche a mettersi una cravatta». All’interno del casco c’è un flusso costante di ossigeno che si può modulare a seconda delle esigenze del paziente. Il problema è che all’interno si crea un ambiente umido e caldo, con un «rumore assordante» che amplifica ancora di più la sensazione di non riuscire a respirare. «In questi casi è indispensabile la sedazione, che toglie la parte dell’ansia e rende più naturale per il paziente farsi aiutare dal casco per la respirazione».

Vavassori, anche lui già dimesso dall’ospedale e in via di guarigione, ha raccontato la paura che ha sentito dopo avere avuto un peggioramento respiratorio in casa, e avendo avuto a che fare nei giorni precedenti con pazienti gravi malati di COVID-19 ricoverati in terapia intensiva a Bergamo. «Ho pensato: qui si mette male. Ho salutato i miei figli come se fosse l’ultima volta. Due di loro hanno capito che qualcosa non andava, si sono messi a piangere».

Per i pazienti malati di COVID-19 e ricoverati, essere dimessi dall’ospedale non significa essere “guariti”: significa spesso essere ancora malati ma stare sufficientemente bene da poter rimanere in isolamento domiciliare per il tempo necessario alla completa ripresa e alla scomparsa del virus dall’organismo. Anche questa fase, però, è piuttosto complicata e incerta.

L’ospedale si deve assicurare che il paziente abbia la possibilità di rispettare alcune precise regole di isolamento domiciliare. Per tornare a casa propria, il paziente deve assicurare di vivere da solo, o di poter disporre di un bagno privato e di una stanza in cui rimanere isolato, per ridurre al minimo il rischio di contagiare i propri conviventi. Se non ha questa possibilità, diventa tutto più complicato. In alcune città, per esempio Bergamo, il comune in collaborazione con l’ATS locale ha messo a disposizione diverse stanze in strutture solitamente adibite ad altro, ad esempio gli alberghi. Ma non c’è posto per tutti, e in altre città progetti di questo tipo sono partiti in ritardo o non sono mai partiti.

Edoardo, che non ha avuto la possibilità di fare l’isolamento domiciliare né a casa propria né in una struttura messa a disposizione del comune di Milano (che ha aperto i primi posti letto in un hotel la scorsa settimana), è stato costretto a trovare in fretta un appartamento da affittare, a spese proprie. Lo stesso hanno dovuto fare molte altre persone che non avevano gli spazi adeguati in casa per l’isolamento domiciliare, e che sono state costrette a trovare soluzioni alternative per poter essere dimesse dall’ospedale.

Alla difficoltà di trovare una sistemazione si aggiungono diversi altri problemi, legati sia alle scarse conoscenze che si hanno sul processo di guarigione dalla COVID-19, sia alle complicazioni nel fare e ottenere due risultati negativi ai tamponi di controllo sulla presenza del virus nell’organismo.

Alcuni pazienti dimessi dall’ospedale, soprattutto quelli che avevano mostrato sintomi più gravi, hanno continuato ad avere per settimane difficoltà respiratorie, qualche linea di febbre e una forte sensazione di spossatezza. «È un processo di guarigione lentissimo», ha detto Vavassori, sottolineando come la scarsa conoscenza della malattia implichi anche una scarsa conoscenza del processo di guarigione. Questa incertezza è vissuta con preoccupazione da molti, soprattutto da quelle persone costrette a fare l’isolamento domiciliare da sole e senza particolari attenzioni dalle autorità sanitarie locali.

Diversi pazienti e medici di famiglia sentiti dal Post sostengono che bisognerebbe dare alle persone in isolamento domiciliare i saturimetri, strumenti che servono a misurare la saturazione dell’ossigeno nel sangue, che però da un po’ di tempo sono praticamente introvabili. Averli a disposizione permetterebbe alle persone a casa di tenersi continuamente controllato il valore dell’ossigeno, agendo per tempo prima dell’insorgenza di problemi respiratori seri.

Anche per chi non sviluppa particolari problemi dopo le dimissioni dall’ospedale, essere dichiarati “guariti” non sembra essere così facile.

Nelle ultime settimane in molte ATS c’è stata parecchia confusione sulle indicazioni da dare alle persone che dovevano sottoporsi ai due tamponi di controllo, che devono essere fatti a 24 ore di distanza uno dall’altro. A un paziente dimesso da un ospedale di Milano è stato detto che i suoi tamponi sarebbero stati rimandati per la troppa gente in attesa e per l’impossibilità dei laboratori di processarli tutti. L’indicazione è andare direttamente in ospedale o in un centro apposito a fare il test, spostandosi con i mezzi propri, nonostante la possibile positività al coronavirus, usando mascherina e guanti.

In diversi casi di cui è venuto a sapere il Post, i tamponi fatti anche dopo un mese dalle dimissioni dell’ospedale sono risultati positivi. È troppo presto per tirare conclusioni, soprattutto perché si conosce ancora troppo poco dell’attuale coronavirus, ma questo potrebbe significare un più lungo processo di guarigione per alcuni malati di COVID-19.

di Elena Zacchetti

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.