Non sarà difficile solo trovarlo, il vaccino

Il suo successo non dipenderà solo dall’efficacia, ma anche dalla capacità di produrne e distribuirne una quantità enorme di dosi: e chi lo riceverà per primo?

Giovedì 21 maggio il governo degli Stati Uniti ha istituto un fondo da oltre 1 miliardo di dollari che potrà impiegare per ricevere tra 300 e 400 milioni di dosi di un vaccino contro il coronavirus, ammesso che ne sia sviluppato uno efficace. Altri paesi si stanno organizzando per fare altrettanto, chiedendo garanzie sulla disponibilità di dosi in quantità sufficienti per la loro popolazione. A oggi non esiste un vaccino contro il coronavirus e gli esperti stimano che potrebbe essere necessario un anno prima di averne uno, ma la sfida nei prossimi mesi non riguarderà solamente questo: sarà necessario organizzarne la produzione e la distribuzione su una scala senza precedenti.

Vaccini e coronavirus
Attualmente ci sono circa 80 gruppi di ricerca in giro per il mondo al lavoro per sviluppare un vaccino contro il coronavirus, seguendo approcci e tecniche diverse. A inizio settimana l’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha annunciato alcuni primi risultati promettenti di un proprio vaccino sperimentale, suscitando però qualche perplessità da parte di diversi osservatori.

Gli Stati Uniti hanno invece messo a disposizione il loro fondo per AstraZeneca, azienda farmaceutica britannico-svedese che ad aprile ha avviato una collaborazione con l’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford. Il gruppo ha sviluppato un primo vaccino sperimentale, somministrato in una prima fase di test a circa mille volontari nel Regno Unito, allo scopo di verificarne la sicurezza e l’efficacia. I risultati dei primi test non sono ancora noti, ma dovrebbero essere diffusi aggiornamenti nelle prossime settimane.

Il vaccino sviluppato a Oxford è ritenuto tra i più promettenti e, se si rivelasse efficace, sarebbe poi prodotto da AstraZeneca su commissione dai paesi interessati. Per ora oltre agli Stati Uniti ha manifestato interesse nel progetto il Regno Unito, confidando di ottenere le prime dosi già alla fine dell’estate. Questa eventualità appare improbabile per diversi osservatori, che invitano ad avere qualche cautela in più sullo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus.

Fare i vaccini
Nell’ultimo secolo, i vaccini hanno consentito di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione in buona parte del mondo.

Semplificando molto, quando entriamo in contatto con agenti infettivi (come virus e batteri) il nostro sistema immunitario interviene per evitare che l’infezione prosegua, e in diversi casi serba memoria dell’attacco per prevenire attacchi successivi: si diventa immuni. Alla prima infezione di un virus il sistema immunitario non ha però ancora gli strumenti per riconoscere la minaccia, e ci ammaliamo con tutte le conseguenze e i rischi del caso. Un vaccino serve per insegnare al sistema immunitario a riconoscere un determinato agente infettivo, evitando però che ci si debba ammalare.

Di solito si impiegano versioni incomplete o depotenziate degli agenti infettivi, quindi in grado di suscitare una risposta immunitaria, ma non di farci ammalare. Trovare la giusta combinazione non è però semplice e molto dipende dal modo in cui sono fatti i virus e i batteri contro i quali si vuole realizzare un vaccino. È per questo motivo che da decenni abbiamo a disposizione vaccini molto efficaci contro malattie come il vaiolo o il morbillo, mentre fatichiamo a produrne di validi e affidabili contro l’HIV.

A oggi non esistono vaccini già impiegati sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni. Non tutti i ricercatori sono ottimisti sulla possibilità di svilupparne uno contro l’attuale, e ci sono diversi aspetti da chiarire: non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni dal coronavirus, e questo potrebbe complicare l’approvazione di un vaccino.

Nel miglior scenario possibile, entro un anno potremmo comunque avere a disposizione un vaccino contro il coronavirus, ma il suo eventuale successo dipenderebbe poi dalla capacità di produrne dosi a sufficienza per tutti.

Quante dosi
Non è chiaro quante dosi del vaccino siano necessarie per tenere sotto controllo la pandemia. Molto dipenderà da quanto si sarà nel frattempo diffusa la malattia nella popolazione, suscitando un’eventuale immunizzazione per contagio tra la popolazione. In linea di massima: più saranno i contagiati, minori saranno le quantità di vaccino necessarie. Non è una differenza da poco, se si considera che in un caso potrebbero essere richieste milioni di dosi del vaccino e nell’altro miliardi.

Se si mettono insieme tutti i vaccini prodotti contro svariate malattie ogni anno, compresa l’influenza stagionale, si arriva a una produzione mondiale di circa 6 miliardi di dosi contenute in oltre 1,6 miliardi di fiale e boccette. Per motivi di praticità, sia dal lato produttivo sia da quello della logistica, molte case farmaceutiche producono i vaccini in fiale multidose, dalle quali gli operatori possono attingere più volte per la somministrazione a diversi individui.

Le stime circolate finora ipotizzano che per il vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere necessaria la produzione di 200-300 milioni di fiale multidose, uno sforzo produttivo che a oggi non può essere raggiunto da nessun produttore da solo, ipotizzando che mantenga nel frattempo i normali livelli di produzione degli altri vaccini.

I tempi per produrre una dose di vaccino variano molto a seconda della tipologia stessa del vaccino e delle tecniche impiegate per produrlo. Uno dei metodi più diffusi implica l’utilizzo degli embrioni nelle uova di gallina, e comporta un lavoro di svariate settimane per realizzare il prodotto finale. Le catene produttive devono essere sorvegliate con grande attenzione, soprattutto per assicurarsi che i vaccini siano realizzati e confezionati in ambienti sterili e privi di qualsiasi tipo di contaminazione.

La produzione del vaccino è inoltre solo una parte del processo, che richiederà la disponibilità di centinaia di milioni di nuove fiale e boccette sterili, sistemi di trasporto e di distribuzione potenziati, senza contare l’attività di somministrazione delle dosi da parte dei sistemi sanitari nei singoli paesi.

Potenziare la produzione
Per raggiungere i livelli di produzione necessari a soddisfare la domanda, le aziende del settore dovranno necessariamente collaborare tra loro, realizzando piani strategici di svariati mesi e che tengano in considerazione l’avanzamento delle ricerche. Dovranno scommettere sulle soluzioni che appaiono più promettenti, mantenendosi comunque la possibilità di cambiare più volte strategia man mano che saranno disponibili i dati sui test clinici.

In previsione di dovere dedicare una parte rilevante della loro capacità produttiva alla pandemia, le aziende del settore dovrebbero inoltre pianificare una produzione anticipata di vaccini per l’influenza stagionale e per altre malattie, in modo da mantenerle in magazzino o distribuirle prima ai clienti.

Altri interventi dovrebbero riguardare il modo stesso in cui sono organizzate le linee produttive, prevedendo l’introduzione di maggiori standard per esempio sulle dimensioni e le caratteristiche delle fiale. Questo approccio consentirebbe di avere una distribuzione più omogenea di macchinari e risorse per produrre e confezionare i vaccini. Avrebbe inoltre il vantaggio di rendere più rapido ed efficace il passaggio a soluzioni alternative, nel caso in cui un vaccino si rivelasse meno efficace del previsto.

Incertezze
Lo sviluppo del nuovo vaccino sta avvenendo in una fase di grande incertezza, e questo potrebbe condizionare gli sforzi per produrlo e diffonderlo. Molto dipenderà dall’andamento della pandemia nei prossimi mesi e dagli approcci che seguiranno le autorità sanitarie. A seconda delle circostanze e delle decisioni assunte, potrebbero essere necessarie quantità enormi o relativamente contenute del vaccino.

Almeno in una prima fase appare improbabile una vaccinazione di massa della popolazione, considerata la diffusione della malattia. Potrebbero essere sottoposti al vaccino i soggetti più a rischio, come gli anziani e gli individui con altre malattie, che potrebbero aggravarsi a causa del coronavirus. Il vaccino potrebbe essere inoltre somministrato agli operatori sanitari e ai lavoratori in altri settori essenziali, per assicurarsi che possano rimanere attivi. Una vaccinazione selettiva di questo tipo implicherebbe comunque l’impiego di decine di milioni di dosi in buona parte dei paesi del mondo.

Per evitare che la domanda iniziale resti insoddisfatta si ipotizza un approccio alternativo, che preveda la vaccinazione degli individui nelle aree più a rischio e maggiormente esposte all’eventualità di entrare in contatto con persone contagiose. Strategie simili per cerchie di conoscenti sono state adottate nelle fasi finali della campagna di eradicazione del vaiolo e per altre malattie molto pericolose, come l’Ebola. I risultati ottenuti sono stati positivi e hanno consentito di rendere più razionale il consumo delle dosi.

Non si può comunque escludere che il vaccino arrivi troppo tardi o che si riveli meno utile di quanto prospettato finora. È per questo motivo che molti governi si mantengono ancora cauti con gli ordini, in attesa di elementi più concreti su capacità produttive e quantità di dosi necessarie. Ci sono del resto esempi nel passato recente di produzioni di vaccini rivelatesi ampiamente fuori scala: nel 2009 per la pandemia da virus influenzale H1N1 i governi spesero miliardi di euro per acquistare grandi quantità di dosi del vaccino, che si rivelarono poi inutili in seguito alla fine dell’emergenza sanitaria.

I provvedimenti incisivi adottati da buona parte dei governi per rallentare la diffusione del contagio, tramite restrizioni e limitazioni ai movimenti, hanno per ora consentito di ridurre sensibilmente i nuovi casi positivi e hanno alleviato il carico per i sistemi sanitari, inizialmente sotto forte stress come avvenuto in Italia. Gli esperti dicono che l’attuale rallentamento nella rilevazione di nuovi casi potrebbe indurre i governi a sentire una minore urgenza per un vaccino, con una conseguente riduzione degli investimenti per la ricerca. Potrebbe essere un altro elemento di incertezza da non sottovalutare, con conseguenze serie se la pandemia dovesse presentarsi con una nuova ondata di contagi il prossimo autunno.

Finanziamenti
La ricerca per i vaccini contro il coronavirus è finanziata da aziende farmaceutiche, governi e da numerose fondazioni, che negli ultimi mesi hanno donato svariate centinaia di milioni di dollari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto un fondo da 8,7 miliardi di dollari per lo sviluppo di vaccini e farmaci per trattare più efficacemente i casi di COVID-19. La Bill & Melinda Gates Foundation ha stanziato oltre 250 milioni di dollari per la ricerca, e altri fondi sono stati attivati dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza a sua volta fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale.

Comunicazione
Una volta ottenuto un vaccino, i governi dovranno organizzare campagne di comunicazione chiare sulle sue modalità di somministrazione e sulle priorità decise per chi potrà avervi accesso per primo. Negli ultimi anni numerose campagne di gruppi e organizzazioni hanno messo in dubbio l’utilità dei vaccini, diffondendo notizie false sulla loro presunta pericolosità. La diffidenza verso un vaccino completamente nuovo, e sviluppato in tempi molto più rapidi rispetto al solito, potrebbe influire sulla sua diffusione e per questo sarà essenziale che le campagne informative siano chiare, soprattutto sul tema della sicurezza per la salute.

Le mutazioni del coronavirus

È vero che cambia – ed è normale – ma non ci sono ancora elementi per dire che stia diventando più pericoloso, o che possa succedere.

Nell’ultima settimana diversi giornali hanno ripreso uno studio realizzato negli Stati Uniti, sostenendo che abbia portato alla scoperta di un “nuovo ceppo” del coronavirus, più diffuso di quello originario e tale da avere reso il virus più contagioso. In realtà la ricerca citata – realizzata preso il Los Alamos National Laboratory (New Mexico) – utilizza toni cauti e non parla di un nuovo ceppo in quei termini, ma di una mutazione del coronavirus che ha iniziato a diffondersi in Europa all’inizio di febbraio e che si è poi probabilmente diffusa negli Stati Uniti, e che per questo non deve essere sottovalutata.

Lo studio statunitense è stato diffuso nella sua forma preliminare, e non è stato quindi ancora sottoposto a una revisione alla pari da altri scienziati né è stato pubblicato su una rivista scientifica, quindi dovrebbe essere preso in considerazione con qualche cautela aggiuntiva rispetto a quelle già necessarie per le normali ricerche. Secondo diversi ricercatori, che non hanno partecipato allo studio, le conclusioni prospettate sono plausibili ma non rappresentano comunque ciò che è avvenuto finora con la diffusione dell’epidemia.

Il punto centrale per molti ricercatori, come hanno spiegato sull’Atlantic, è che a oggi non ci sono elementi chiari per sostenere che esistano diversi “ceppi” del coronavirus, anche se spesso sui giornali abbiamo letto il contrario. La confusione deriva dal fatto che sui media si confondono quasi sempre mutazioni e ceppi, utilizzando i due termini come se fossero sinonimi.

Mutazioni
Semplificando molto, un virus entra in un organismo e ne sfrutta poi le cellule per replicarsi, cioè per creare nuove copie di se stesso che provvederanno a legarsi ad altre cellule per fare la stessa cosa. Questo meccanismo non è molto preciso e può portare ad alcuni errori nella fase in cui il codice genetico del virus viene trascritto per farne una copia, un po’ come avviene quando si ricopia un testo e inavvertitamente si scrive un refuso. È nell’ordine delle cose, succede di continuo in natura nei processi di replicazione del codice genetico. Il risultato di questi refusi sono mutazioni, quasi sempre innocue e che si trasmettono alle generazioni successive, accumulandosi a quelle nuove prodotte nei processi di replicazione seguenti.

Queste imprecisioni determinano il progressivo allargamento dell’albero genealogico di un virus, con nuovi rami che però non implicano che si sviluppi un nuovo “ceppo virale”. I virologi riservano questa definizione per una nuova generazione di virus che presenta differenze marcate e significative rispetto alle precedenti, soprattutto negli esiti delle sue attività. Anche se non tutti concordano sul limite oltre il quale si possa parlare di nuovo ceppo, vengono tenuti in considerazione criteri come: modificata capacità del virus di diffondersi, aumento della sua capacità di causare una malattia (virulenza), nuova resistenza ai trattamenti farmacologici che prima riuscivano a tenerlo sotto controllo, aumentata capacità di eludere le difese immunitarie dell’organismo.

Una o più mutazioni possono influire sulle caratteristiche che abbiamo appena visto, ma non necessariamente in modo significativo e al punto da sostenere che si sia prodotto un nuovo ceppo virale. E questa è la cosa più importante di tutte, quando si parla di modifiche che avvengono nella struttura del virus, man mano che produce nuove generazioni.

Velocità
Ci sono virus che hanno una spiccata tendenza a produrre nuovi ceppi, attraverso mutazioni che si rivelano quasi sempre significative. È il caso dei virus che causano l’influenza stagionale: in poco tempo mutano al punto da cambiare buona parte della configurazione delle proteine sulla loro superficie, apparendo quindi diversi al nostro sistema immunitario, che non riesce più a riconoscerli e deve ogni volta ricominciare da capo per sviluppare le difese contro l’infezione. Questo è uno dei motivi (insieme alla durata della memoria immunitaria) per cui ci ammaliamo più volte di influenza nel corso della vita, e spiega anche perché ogni anno sia necessario sottoporsi nuovamente a un vaccino, che viene calibrato sui ceppi virali influenzali che circolano di più.

I virus influenzali sono però molto diversi dai coronavirus, che per quanto ne sappiamo tendono ad accumulare mutazioni più lentamente (secondo alcune ricerche sono fino a dieci volte più lenti nel mutare rispetto ai virus influenzali). I ricercatori consultati dall’Atlantic hanno spiegato che l’attuale coronavirus, il SARS-CoV-2, non sembra fare eccezione: è andato incontro ad alcune mutazioni, come prevedibile, ma niente di anomalo. Le varie generazioni non sembrano inoltre presentare differenze significative e, considerata la lentezza con cui muta, saranno necessari molti mesi prima di vedere cambiamenti degni di nota.

Cosa dice lo studio
Lo studio del Los Alamos National Laboratory ha preso in considerazione le mutazioni che riguardano le punte del coronavirus, sulla cui superficie c’è una proteina che elude i sistemi di sicurezza delle membrane cellulari, consentendo al virus di iniettare il suo codice genetico nelle cellule per poi replicarsi. I ricercatori hanno notato che la mutazione D614G comporta un cambiamento nelle molecole che costituiscono queste punte.

Il coronavirus nella versione senza questa mutazione (D) è quella tipica di Wuhan, la città cinese dove è iniziata la pandemia, mentre la variante con mutazione (G) è quella che è emersa a febbraio. Fino a marzo, G era poco comune in giro per il mondo, ma da aprile è diventata la versione preponderante in Europa, nel Nord America e in Australia.

I ricercatori ipotizzano (ed è bene sottolineare “ipotizzano”) che la mutazione abbia reso il coronavirus più trasmissibile e che quindi G sia man mano diventata la variante più presente, proprio perché riesce a diffondersi meglio di D. Per ammissione degli stessi ricercatori non si può però escludere che in realtà la mutazione non abbia determinato nessun cambiamento per quanto riguarda la trasmissibilità, e che quindi i coronavirus nella loro versione G si siano banalmente diffusi di più per puro caso.

E i fattori casuali possono essere molti, come sanno bene virologi ed epidemiologi sulla base dell’evoluzione di altre epidemie in passato. Non si può escludere che la versione G fosse quella portata da alcuni viaggiatori dalla Cina di ritorno in Europa, magari in Italia, dove si è poi deciso un lockdown che ha fatto sì che rimanesse in circolazione la versione con la mutazione rispetto all’altra. Il virus sarebbe poi finito in circolazione in altri paesi, dove magari era ugualmente arrivato in quella variante dalla Cina per altre vie, determinando l’epidemia in Europa e il suo arrivo negli Stati Uniti.

Caso
Nelle prime fasi che determinano un’epidemia il caso ha spesso un ruolo importante. Varianti di un virus con mutazioni che, sulla carta, li renderebbero molto più pericolosi finiscono per sparire banalmente perché uno o più individui infetti con il virus mutato restano nello stesso luogo o hanno una scarsa vita sociale. In altre circostanze, virus privi di mutazioni che li rendono più trasmissibili finiscono lo stesso per diffondersi di più, banalmente perché sono presenti in contesti con maggiore socialità o concentrazioni di individui, dovute per esempio alla densità abitativa.

Lo studio del Los Alamos National Laboratory segnala giustamente la prevalenza di una variante su un’altra, ma non fornisce elementi (perché a questo stadio ancora non ce ne sono) per concludere se G si sia diffusa di più perché comporti una maggiore trasmissibilità o solo perché uno o più eventi casuali ne abbiano determinato la prevalenza in alcune aree geografiche.

Per capirlo saranno necessari altri studi, dedicati sia all’analisi della diffusione del coronavirus nella popolazione, sia con test di laboratorio per verificare se G effettivamente sia in grado di legarsi più facilmente alle cellule, o di determinare in qualche modo tempi di replicazione più rapidi. Entrambi questi approcci richiederanno mesi di ricerche e non è comunque detto che portino a risultati chiari e condivisi.

L’opinione prevalente tra i virologi è che non sapremo ancora per diverso tempo se esistano veri e propri ceppi diversi dell’attuale coronavirus. E anche nel momento in cui si determinasse la loro esistenza, occorrerebbero poi altre analisi per verificare se alcuni ceppi comportino più rischi di altri.

Allarmismo e responsabilità
Anche a causa di alcuni prodotti culturali come film e romanzi catastrofisti, siamo abituati all’idea che la mutazione di un virus implichi sempre qualcosa di negativo. La trama di molti film sulle epidemie parte spesso da un agente infettivo tutto sommato poco pericoloso che poi muta, apparentemente dal giorno alla notte, diventando una minaccia senza precedenti. Come abbiamo visto, in realtà molti virus mutano lentamente e non sempre gli errori nella trascrizione del loro codice genetico comportano un vantaggio evolutivo, che grazie al caso consente loro di prosperare.

I virus eccessivamente aggressivi, che causano malattie molto gravi come l’Ebola, tendono a produrre epidemie molto più contenute, proprio perché determinano negli organismi che infettano reazioni tali da ridurre o i loro contatti sociali (malattie che costringono quasi sempre a letto) o un alto tasso di letalità, quindi con una minore circolazione del virus nel tempo. Le mutazioni che non variano l’aggressività dei virus, ma li rendono più contagiosi, offrono di solito qualche opportunità in più in termini di diffusione. Ma molto dipende appunto dal caso, e dalle circostanze in cui avvengono le mutazioni.

Sostenere troppo alla leggera che un virus sia mutato e abbia portato a un nuovo ceppo può anche essere pericoloso, in termini di comunicazione e di decisioni politiche. I governi dei paesi in cui un’epidemia non è tenuta adeguatamente sotto controllo potrebbero scaricare parte delle loro responsabilità su queste mutazioni, sostenendo che il mancato controllo dei contagi sia dovuto a cause esterne alle politiche per il contenimento che hanno scelto.

Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Negli Stati Uniti sono iniziati i test di un vaccino per il coronavirus

Le prime dosi sono state somministrate ad alcuni volontari a Seattle, ma per capire se sarà efficace ci vorrà circa un anno.

Negli Stati Uniti sono iniziati i primi test di un vaccino contro il coronavirus (SARS-CoV-2). Il vaccino è stato sviluppato dall’azienda di biotecnologie Moderna in collaborazione con il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), un’agenzia del dipartimento della Salute. Il vaccino verrà somministrato nelle prossime sei settimane a 45 volontari tra i 18 e i 55 anni presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle, nello stato di Washington. Le prime somministrazioni sono state effettuate lunedì.

I volontari verranno seguiti per un anno, e se il vaccino dovesse rivelarsi efficace seguiranno altre fasi di test su un numero sempre maggiore di volontari, in modo da poter poi ricevere l’approvazione della Food and Drug Administration, l’ente federale che si occupa di selezionare alimenti e farmaci adatti al commercio.

Il vaccino si chiama mRNA-1273 e verrà testato in tre diversi dosaggi  – ognuno in 15 persone – per determinare se riesca a indurre una reazione immunitaria tale da produrre anticorpi che fermino la riproduzione del virus o se invece causi effetti collaterali.

Il vaccino era stato prodotto in tempi rapidissimi dopo che i ricercatori cinesi erano riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus. Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna avevano identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si erano quindi messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.