Due importanti studi sulla COVID-19 sono stati ritirati

Erano stati pubblicati su Lancet e NEJM, tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo, basandosi su dati che gli stessi autori non hanno potuto verificare.

Lancet e il New England Journal of Medicine (NEJM) – due tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo – hanno ritirato due studi sulla sperimentazione di farmaci contro la COVID-19, che avevano avuto grandi ripercussioni nella ricerca di nuovi trattamenti contro la

malattia causata dal coronavirus. Uno dei due studi aveva indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a interrompere i test con l’idrossiclorochina, un antimalarico che aveva dato alcuni risultati positivi nel trattamento dei pazienti, ma che secondo la ricerca ora ritirata poteva avere in alcuni casi effetti collaterali gravi sui malati di COVID-19.

Non accade spesso che studi pubblicati su riviste di questo livello siano ritirati, e che questo accada così velocemente dopo la loro diffusione. Secondo diversi esperti, la vicenda dimostra come la ricerca di soluzioni per la pandemia abbia portato a una certa frenesia in ambito scientifico e clinico, con la pubblicazione di decine di nuove ricerche ogni giorno e poco tempo per verificarne l’affidabilità anche da parte delle riviste scientifiche più rispettate.

Entrambi gli studi erano stati realizzati dal cardiochirurgo Mandeep Mehra (Brigham and Women’s Hospital, Università di Harvard) insieme ad altri ricercatori, sulla base di un grande set di dati fornito da Surgisphere, una piccola azienda di Chicago gestita da Sapan Desai, indicato tra gli autori delle due ricerche.

Lo studio pubblicato su Lancet aveva segnalato che, in diverse circostanze, l’idrossiclorochina potesse causare più danni che benefici nei pazienti con COVID-19. Il farmaco viene utilizzato contro la malaria ed è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è soprattutto noto con il nome commerciale Plaquenil, usato anche per trattare malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. L’idrossiclorochina era finita al centro dell’interesse dei media un paio di settimane fa, quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva detto di avere iniziato ad assumerla come terapia preventiva contro la COVID-19, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche circa l’utilità del farmaco per prevenire l’infezione da coronavirus.

Dopo la pubblicazione della ricerca di Mehra su Lancet, diversi ricercatori avevano espresso dubbi circa l’affidabilità dei dati su cui era basata e forniti da Surgisphere. In molti si erano chiesti come avesse fatto un’azienda così piccola, con meno di una decina di dipendenti, ad avere raccolto ed elaborato i dati sanitari di decine di migliaia di pazienti, forniti da centinaia di ospedali con i quali dichiarava di avere avviato collaborazioni. Raccogliere dati sanitari non è semplice e richiede la stipula di contratti molto articolati con ogni ospedale, con specifiche garanzie per la tutela della privacy dei pazienti: appariva quindi improbabile che Surgisphere da sola fosse riuscita a ottenere risultati simili.

Le evidenze scientifiche in una ricerca dovrebbero valere più di qualsiasi curriculum, ma c’è sempre il rischio che la reputazione degli autori di una ricerca condizioni le valutazioni degli altri, almeno nei primi tempi dopo la pubblicazione dei loro lavori. Mehra è un ricercatore molto rispettato e nel corso della sua carriera ha pubblicato centinaia di studi, cosa che potrebbe avere condizionato il modo in cui è stato percepito il suo studio sull’idrossiclorochina. Leggendo le conclusioni del suo lavoro, diversi ricercatori avevano deciso di rivedere o fermare le loro sperimentazioni e la stessa OMS aveva annunciato una sospensione dei test, per precauzione, considerati i rischi indicati da Mehra e colleghi. L’Organizzazione ha da poco annunciato il riavvio delle sperimentazioni.

Lancet ha ritirato lo studio su indicazione degli autori, dopo che Surgisphere si è rifiutata di fornire i dati completi in suo possesso sui pazienti, rendendo impossibile la verifica degli stessi da parte di altri ricercatori non coinvolti direttamente nella ricerca. La società ha comunicato di non potere condividere quei dati a causa degli accordi con gli ospedali con cui collabora. Questa circostanza ha reso impossibile la verifica dei dati e quindi la stessa analisi dello studio.

Anche lo studio ritirato dal NEJM era basato sui dati di Surgisphere: segnalava che l’assunzione di alcuni farmaci per regolare la pressione non comportava un maggior rischio di morte tra i malati di COVID-19, come era stato invece indicato da altri studi. Gli autori della ricerca hanno pubblicato una nota sulla rivista dicendo di non avere avuto accesso ai dati grezzi forniti dall’azienda, e di non essere quindi in grado di avere ulteriori conferme sulla loro qualità. Il dettaglio paradossale è che oltre a Mehra tra gli autori dello studio c’è anche Desai (il capo di Surgisphere), che sembra non abbia accesso alle informazioni trattate dalla sua stessa azienda.

In seguito alla vicenda, Mehra ha diffuso un comunicato a titolo personale, nel quale ha spiegato di essere entrato in contatto con Desai tramite un collega e di essersi poi reso conto di non avere elementi a sufficienza per fare completo affidamento sui dati di Surgisphere: “Non ho fatto abbastanza per assicurarmi che la fonte dei dati fosse adeguata all’uso che ne abbiamo fatto. Per questo, e per tutti i disagi causati – direttamente o indirettamente – chiedo sinceramente scusa”.

La scelta delle due riviste scientifiche di pubblicare le note degli autori degli studi, senza accompagnarle da proprie valutazioni sull’accaduto, è stata criticata da numerosi osservatori. Secondo i più critici, in un momento storico in cui si pubblicano ogni giorno decine di ricerche su una pandemia in corso sarebbero utili valutazioni e introspezioni sugli errori compiuti, soprattutto da parte di riviste molto importanti e rispettate.

L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

A che punto siamo con i farmaci contro il coronavirus

Una collaborazione internazionale sta studiando oltre 50 principi attivi che potrebbero fermare il virus, mentre c’è un primo insuccesso di una terapia antivirale.

Migliaia di ricercatori in tutto il mondo sono al lavoro per trovare nuovi trattamenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Uno dei progetti più promettenti è stato organizzato dall’Università della California (San Francisco) e ha portato all’identificazione di 50 farmaci già esistenti e sviluppati per altre malattie, che potrebbero offrire nuovi sistemi per bloccare il virus e impedirgli di replicarsi nelle cellule del nostro organismo. Rispetto ad altre epidemie emerse in passato e su scala più piccola, le ricerche stanno procedendo più velocemente, tra speranze e primi insuccessi nelle sperimentazioni.

Non c’è cura
A oggi contro la COVID-19 non c’è una cura. La maggior parte degli infetti sviluppa sintomi lievi, che passano dopo un paio di settimane di isolamento a casa assumendo farmaci per ridurre febbre e dolori. Per gli altri può essere necessario il ricovero in ospedale a causa di sintomi più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio. I pazienti ricoverati sono trattati nei normali reparti o in terapia intensiva, a seconda delle loro condizioni, ma con trattamenti che possono solamente ridurre i sintomi o favorire la respirazione (tramite mascherine a ossigeno o con l’intubazione). L’obiettivo è guadagnare tempo, evitando che il paziente si aggravi mentre il suo sistema immunitario reagisce all’infezione per sbarazzarsi del virus.

Farmaci e proteine
La ricerca di farmaci efficaci si sta quindi concentrando sull’identificazione di principi attivi che possano bloccare il coronavirus, impedendogli di attaccare le cellule e di sfruttarle per replicarsi e aumentare l’infezione. Centinaia di ricercatori coordinati dal Quantitative Biosciences Institute Coronavirus Research Group (QBI) dell’Università della California, per esempio, stanno studiando i farmaci oggi disponibili sul mercato, per identificare i candidati più promettenti contro la COVID-19. L’obiettivo è trovare principi attivi che facciano da barriera tra il coronavirus e le proteine delle nostre cellule che vengono sfruttate dal virus per produrre le sue copie.

Le ricerche presso il QBI sono state avviate a inizio gennaio, quando erano iniziate a circolare le prime informazioni sul coronavirus (SARS-CoV-2), in seguito ai primi casi gravi di polmoniti atipiche nell’area di Wuhan, in Cina, da dove è partita l’attuale epidemia. L’attività più importante ha riguardato lo studio delle proteine presenti nelle nostre cellule che vengono sfruttate dal coronavirus per replicarsi. Una mappatura di questo tipo richiede di solito un paio di anni per essere svolta, ma grazie alla collaborazione di una ventina di laboratori è stato possibile ottenere una prima mappa in una manciata di settimane.

Mappa
Il risultato è stato reso possibile dalle conoscenze accumulate negli anni scorsi, attraverso lo studio di altri virus. I ricercatori avevano per esempio già svolto una mappa delle proteine sfruttate dall’HIV e da alcuni virus che causano Ebola e la dengue.

Gli studi di laboratorio svolti a febbraio hanno permesso di scoprire oltre 400 proteine che, in un modo o nell’altro, sembrano essere coinvolte dall’attività del coronavirus sul sistema respiratorio. Sono sfruttate in vario modo, per esempio per eludere le difese dell’involucro protettivo della cellula (membrana cellulare), inserire il codice genetico (RNA) del coronavirus e sfruttare poi le strutture cellulari (organuli) per produrre nuove copie del virus, che vengono rilasciate dalla cellula. Queste copie attaccano poi altre cellule dell’apparato respiratorio per replicarsi ulteriormente. Il sistema immunitario reagisce con un’infiammazione, che serve a uccidere il virus e a distruggere le cellule che fanno da fotocopiatrici, ma non sempre il contrattacco è efficace e così si assiste a un peggioramento dei pazienti.

La mappa ha messo in evidenza diverse interazioni tra il coronavirus e proteine cellulari che, almeno finora, non sembrano avere nulla a che fare con la produzione di nuove copie del virus. Queste interazioni passate inosservate finora potrebbero nascondere la chiave per capire alcune caratteristiche della replicazione virale, offrendo la possibilità di intervenire per bloccarla. Per ogni proteina della mappa, i ricercatori stanno analizzando i principi attivi di migliaia di farmaci già esistenti, e progettati per altre malattie, alla ricerca di soluzioni per impedire al coronavirus di approfittarsene.

Un primo set di dieci farmaci è stato di recente inviato dal QBI al Mount Sinai Hospital di New York e all’Istituto Pasteur di Parigi. I test di laboratorio prevedono, tra le altre cose, l’analisi della reazione del coronavirus ai principi attivi in cellule di primati non umani in vitro. A seconda dei risultati, i ricercatori potranno poi testare i farmaci su cavie animali infettate con il coronavirus.

Solo dopo questi primi test si potrà procedere con la sperimentazione sugli esseri umani, con grande attenzione per gli eventuali effetti collaterali. Principi attivi utili per ridurre la replicazione del coronavirus intervenendo su alcune proteine, per esempio, potrebbero avere effetti imprevisti su altre attività dell’organismo. Le nuove tecnologie e l’impegno di numerosi ricercatori stanno consentendo di accorciare i tempi, ma saranno comunque necessari mesi prima di identificare un eventuale trattamento efficace per i casi più gravi di COVID-19.

Antivirali
Il lavoro del QBI interessa numerosi farmaci sviluppati per trattare alcune forme di tumore e non necessariamente le infezioni virali. Altri ricercatori si stanno invece dedicando agli antivirali già disponibili, cioè ai farmaci che vengono utilizzati per rallentare o fermare la replicazione dei virus. I loro principi attivi sono piuttosto specifici, ma si ipotizza che con una giusta combinazione si possano ottenere risultati anche con la COVID-19.

Tra gli antivirali ritenuti per ora più promettenti c’è il remdesivir, farmaco di recente introduzione, sviluppato negli anni delle epidemie causate da Ebola in Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. La sua sperimentazione portò a risultati che sembravano essere incoraggianti, ma un impiego su più grande scala rivelò una scarsa efficacia rispetto ad altre soluzioni. Il farmaco era stato sperimentato anche per trattare alcuni casi di MERS e SARS, sindromi respiratorie causate da altri coronavirus, con qualche risultato positivo.

Il remdesivir è attualmente oggetto di almeno cinque sperimentazioni cliniche. L’obiettivo è capire non solo se sia efficace contro l’attuale coronavirus, ma anche se comporti effetti collaterali tollerabili dai pazienti. In alcuni casi, infatti, farmaci molto potenti potrebbero avere la controindicazione di arrecare più danno che benefici, e trovare il giusto equilibrio non è semplice.

Primo insuccesso
Dalla Cina sono intanto arrivate le prime valutazioni su un’altra sperimentazione con antivirali che era stata ritenuta promettente, e le notizie non sono buone. Sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine, un gruppo di ricercatori ha segnalato di non avere rilevato benefici su pazienti gravemente malati di COVID-19 dopo la somministrazione di lopinavir e ritonavir, due antivirali normalmente impiegati contro l’HIV e che sembravano essere indicati nel trattamento di infezioni da coronavirus.

Nello studio, i ricercatori spiegano comunque che la loro esperienza è stata parziale e che le loro conclusioni non devono essere considerate definitive. La ricerca è stata condotta su 199 adulti di età compresa tra i 49 e i 68 anni, tutti ricoverati in gravi condizioni a causa del coronavirus in un ospedale di Wuhan. Per 14 giorni metà è stata trattata con le normali terapie e metà con i due antivirali: al termine della sperimentazione non sono state rilevate differenze tra i due gruppi né in termini di accorciamento della malattia né nella riduzione delle morti.

In un editoriale che accompagna lo studio, medici e ricercatori sono stati lodati per l’accuratezza del loro lavoro, realizzato in condizioni molto difficili con gli ospedali pieni di pazienti da assistere. L’auspicio è che sperimentazioni cliniche come questa siano ripetute in altre strutture ospedaliere, per avere più dati e informazioni sull’eventuale efficacia di farmaci e trattamenti.

Cosa non sappiamo ancora di questa epidemia

In due mesi e mezzo virologi, epidemiologi e ricercatori hanno scoperto molte cose sul coronavirus, ma alcune importanti domande sono ancora senza risposta.

Da circa un mese e mezzo virologi, epidemiologi, medici e ricercatori stanno studiando l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) per comprendere le caratteristiche del virus e il modo in cui si sta diffondendo, elementi importanti per adottare nuove strategie per rallentarne la diffusione e per sviluppare farmaci, vaccini e trattamenti per ridurre la sua letalità. In poche settimane dalla scoperta del virus a inizio gennaio, per esempio, è stato possibile ottenere la sequenza genetica del coronavirus, in modo da rendere più semplice la sua identificazione con i test. Ogni giorno i ricercatori scoprono qualcosa di nuovo sul virus che sta cambiando le abitudini di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, ma molto resta ancora da scoprire e da capire.

Dopo essere guariti si diventa immuni dal nuovo coronavirus?
Dopo un’infezione virale, il sistema immunitario di solito conserva un ricordo della minaccia che l’aveva causata, impedendo al virus di farci ammalare nuovamente. Sappiamo però che alcuni coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, non portano a una completa immunizzazione nel lungo periodo: il sistema immunitario sembra dimenticarsene e deve quindi imparare a riconoscere da capo la minaccia, nel caso in cui si ripresenti. A oggi non è chiaro se questo valga anche per l’attuale coronavirus: se così fosse potrebbe essere più complicato sviluppare un vaccino, o potrebbe essere necessario ripetere la vaccinazione stagionalmente, come avviene con l’influenza.

Il coronavirus sarà indebolito dal caldo?
Alcuni tipi di virus e coronavirus tendono a essere stagionali, con una prevalenza nei mesi freddi e una minore ricorrenza tra la popolazione durante il resto dell’anno. Non sono a oggi noti i meccanismi che determinano questo andamento, anche se si ipotizza che c’entrino i cambiamenti stagionali e le abitudini delle persone, come restare in luoghi chiusi d’inverno dove i contatti umani sono più stretti. A oggi i ricercatori non sanno dire con certezza se col caldo l’attuale epidemia potrà rallentare, cosa che potrebbe comunque implicare una sua seconda ondata alla fine del prossimo autunno.

Quanto resiste sulle superfici?
I virus possono resistere per diverse ore, in alcuni casi giorni, all’esterno di un organismo, per esempio depositandosi sulle superfici. A oggi non sappiamo per quanto lo faccia anche l’attuale coronavirus, che si trasmette per lo più con le goccioline di saliva che emettiamo tossendo, starnutendo e talvolta parlando: queste si possono depositare sulle mani (se per esempio ci si ripara la bocca col palmo della mano invece che con la piega del gomito quando si starnutisce) e poi finire sulle superfici che tocchiamo. Le ricerche uscite finora non hanno fornito risultati definitivi.

Chi è infetto e non ha sintomi contagia gli altri?
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’epidemia ci sono stati sospetti consistenti circa la possibilità che le persone senza sintomi, ma comunque infette, possano trasmettere il coronavirus agli altri. Non ci sono ancora conferme definitive su questa circostanza, mentre è diventato evidente che in molti casi il coronavirus causa sintomi lievi, che passano quasi inosservati da chi è infetto. La persona inconsapevole di essere malata mantiene quindi una vita sociale attiva, magari assume meno precauzioni, e diventa un importante veicolo di contagio.

Da dove viene questo coronavirus?
I primi casi di polmoniti atipiche sono stati rilevati a Wuhan, in Cina, alla fine dello scorso anno e poi ricondotti all’esistenza di un nuovo coronavirus. I ricercatori sospettano che l’attuale coronavirus provenga dai pipistrelli, animali che fanno da riserva di diverse malattie infettive, ma a oggi non sono state trovate prove definitive. È probabile, inoltre, che tra i pipistrelli e gli esseri umani ci sia stato un passaggio intermedio del coronavirus, forse tramite i pangolini, animali molto ricercati per la medicina tradizionale cinese.

Quanto è letale questo virus?
A seconda delle stime, la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, oscilla tra l’1 e il 5 per cento. Il dato varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle modalità con cui sono calcolati i casi positivi e i decessi. La stima dovrebbe diventare più chiara man mano che si diffonde l’epidemia e si rendono possibili analisi statistiche più estese.

Quanti sono i casi reali di contagio?
Non sappiamo quante persone abbiano avuto il coronavirus o siano infette in questo momento, né in Italia né nel mondo, ma secondo gli epidemiologi sono molte di più di quelle rilevate attraverso i test. Questo significa che probabilmente il dato della letalità è sovrastimato, perché nel rapporto tra positivi e decessi non si può tenere conto di tutti gli altri positivi che non vengono sottoposti al test, e che non risultano nelle stesse statistiche. Anche in questo caso, con il progredire dell’epidemia dovrebbe diventare più chiara la diffusione della malattia tra la popolazione.

Le restrizioni ai movimenti funzionano?
In Cina con due mesi di isolamento di Wuhan e di diverse altre città è stato possibile ridurre enormemente il numero di nuovi contagi, facendo rallentare l’epidemia (il risultato è stato ottenuto anche grazie ad altre pratiche per testare e isolare i malati). Non è però chiaro se l’effetto potrà essere mantenuto nelle prossime settimane con il graduale ritorno alla normalità: esiste il rischio che rimuovere le restrizioni faccia tornare il virus a circolare. Lo stesso vale per l’Italia, che sta per completare la sua prima settimana con piene restrizioni.

Quanto durerà questa epidemia?
Oggi è impossibile prevedere quanto durerà l’epidemia da coronavirus, anche se ci sono molti studi e analisi per provare a farsi un’idea. Le stime più pessimistiche mettono in conto almeno un anno di diffusione della malattia sul pianeta. Gli epidemiologi stimano che entro la primavera del 2021 potrebbe essere stato contagiato tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale. La maggior parte svilupperà sintomi lievi, ma ci sarà comunque una frazione della popolazione che avrà necessità di cure in ospedale, e per questo è importante rallentare la diffusione dell’epidemia per consentire ai sistemi sanitari di curare più persone possibili al meglio.

Quando avremo il vaccino?
Lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere determinante per arrestare prima l’epidemia, e salvare milioni di vite. Diverse aziende farmaceutiche e centri di ricerca sono al lavoro per svilupparne uno, ma i coronavirus non sono agenti infettivi facili e ci sono incertezze sugli esisti di queste ricerche e sulla possibilità di avere un vaccino. I tempi sono comunque dilatati e potrebbe essere necessario attendere più di un anno per averne uno, nella speranza che sia poi efficace su una porzione significativa della popolazione più a rischio.

Diritti del malato, cosa succede in casi di malasanità

Purtroppo, sempre più spesso la cronaca ci informa di casi di malasanità in ospedale.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le situazioni inaspettate che arrecano danno al paziente, anche se non intenzionali e non desiderabili, rappresentano il 10% dei ricoveri.

Di questi eventi avversi, si può parlare di errore medico solo se il danno era prevenibile. Tuttavia, la Costituzione Italiana sancisce il diritto alla salute e quindi di ricevere trattamenti medici di prevenzione e cura adeguati.

Per ricevere un risarcimento danni, occorrerà richiedere assistenza legale ad uno studio specializzato in malasanità che riuscirà a dimostrare gli elementi che accertano che si sia trattato di un episodio di malasanità.

Questi elementi fanno riferimento a:

▪ colpa medica cioè il sanitario deve aver seguito un comportamento diverso da quello segnalato dalle linee guide e dalle buone pratiche;
▪ danno al paziente, grave e/o permanente, che superi la soglia di gravità necessaria a giustificare un’azione legale;
▪ nesso causale fra comportamento colposo e danno arrecato al paziente.

Sintesi articolo pubblicato sul sito economia.iltabloid.it