Si diventa immuni al coronavirus?

È la domanda delle domande di questa pandemia: non c’è ancora una risposta definitiva, ma iniziano a esserci i primi indizi.

Lo scorso fine settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha invitato i governi a non diffondere il concetto di “patente di immunità”, chiarendo che a oggi non ci sono prove scientifiche chiare per sostenere che si diventi immuni al coronavirus dopo avere superato l’infezione. Queste “patenti” dovrebbero consentire di identificare chi ha già avuto il virus e che potrebbe quindi tornare ad avere una vita attiva sia socialmente sia lavorativamente, senza comportare ulteriori rischi per i nuovi contagi. L’idea è stata molto promossa anche in Italia da alcuni esponenti politici, come il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, ma proprio come ha spiegato l’OMS è un messaggio rischioso che sembra ignorare la domanda più grande di questa pandemia: si diventa immuni al coronavirus?

Dalla risposta a questa domanda deriveranno moltissime decisioni e sviluppi dell’attuale emergenza sanitaria. Non solo perché la capacità di diventare immuni farà si che la malattia sia meno presente tra la popolazione, man mano che molte persone contrarranno il coronavirus, ma anche perché consentirà di capire se e quanto potremo fare affidamento sui vaccini per raggiungere un buon livello di immunizzazione.

Come si diventa immuni
Il sistema immunitario è la nostra principale difesa dagli agenti esterni (antigeni), come virus e batteri. Semplificando moltissimo, possiamo dire che comprende due livelli di difesa: uno più generalizzato e uno più specifico.

Il primo livello è l’immunità innata, una risorsa di primo intervento sempre pronta ad attivarsi quando viene identificata la presenza di una minaccia esterna che si è intrufolata nel nostro organismo. Non costituisce una risposta mirata e può essere paragonata a un bombardamento a tappeto: induce la produzione di sostanze che distruggono le cellule esposte all’infezione e stimolano l’infiammazione, con un conseguente aumento della temperatura per creare un ambiente ostile alla minaccia.

È un sistema fatto per agire punto e basta. Si rivela spesso efficace, ma è piuttosto grezzo: provvede a distruggere, senza imparare nulla dall’antigene che ha incontrato sulla sua strada o a serbarne memoria per futuri incontri.

In molti casi, questa prima risposta viene seguita da una reazione più precisa e misurata che deriva dall’immunità adattiva. In pratica, il sistema immunitario impara a riconoscere l’antigene e a produrre anticorpi specializzati, che si occuperanno dell’agente infettivo e di distruggere solamente le cellule infette, preservando le altre. È una risposta molto più sofisticata di quella di primo livello, e richiede un po’ di tempo prima che possa attivarsi e rivelarsi efficace.

Nel caso dell’attuale coronavirus, le ricerche preliminari diffuse finora (quindi da prendere con qualche cautela in più) dicono che sia necessaria una decina di giorni prima che l’organismo inizi a produrre anticorpi specifici. Anche per questo motivo buona parte degli sforzi in ospedale, per i pazienti più gravi, sono orientati a prendere tempo e a rallentare la diffusione dell’infezione, nell’attesa che l’immunità adattiva faccia il proprio dovere.

Durata dell’immunità
Con diverse malattie, la memoria immunitaria si sviluppa proprio grazie alla risposta dell’immunità adattiva e molte ricerche indicano come, più è intensa la risposta, migliore sia la durata del ricordo acquisito dal nostro sistema immunitario sulla minaccia.

Diverse malattie tipiche dell’infanzia – come il morbillo, la varicella e la parotite (gli “orecchioni”) – inducono un’immunità di solito permanente, e lo stesso si può ottenere attraverso le vaccinazioni contro queste malattie evitando i rischi che comportano, talvolta letali (meglio vaccinarsi, che ammalarsi). Altre malattie si rivelano invece più sfuggenti e non comportano un’immunizzazione definitiva: può dipendere sia dagli agenti infettivi che le causano, sia dalla loro capacità di mutare nel tempo (come avviene per esempio con l’influenza stagionale).

Coronavirus
I coronavirus che interessano gli esseri umani sono sette, compreso l’attuale (SARS-CoV-2). I quattro noti da più tempo, cioè dai primi anni Sessanta, sono responsabili di sintomi lievi alle vie aeree superiori e sono tra le cause di quello che chiamiamo raffreddore comune. Li prendiamo più volte nella vita e il nostro sistema immunitario tende a serbarne memoria per poco meno di un anno.

Gli altri due coronavirus noti – oltre all’attuale – sono quelli che causano la SARS e la MERS, due sindromi respiratorie che possono portare a sintomi piuttosto gravi, e in alcuni casi alla morte.

Le due malattie sono di recente scoperta (la SARS fu identificata nel 2003, la MERS nel 2012) e non ci sono molti studi sulla durata dell’immunità nelle persone che le hanno avute. Sembra comunque che inducano una memoria più lunga dei coronavirus del raffreddore, con una durata di qualche anno. Il coronavirus che causa la SARS ha diverse cose in comune con l’attuale virus, e questo lascia quindi ottimisti alcuni virologi sulla possibilità di sviluppare una memoria immunitaria per un tempo sufficiente da rendere utile il ricorso a un vaccino.

Se e per quanto
Basandosi sulle conoscenze degli altri coronavirus e più in generale delle malattie infettive, diversi virologi e immunologi ritengono che probabilmente il problema non sia tanto se si diventi immuni, ma per quanto si resti immuni. La possibilità di diventarlo a vita sembra esclusa, ma un vaccino o l’immunizzazione per chi si è ammalato potrebbero essere sufficienti per offrire qualche protezione in più, rendendo meno rischiosa una seconda infezione da SARS-CoV-2.

Se fossero confermate queste circostanze, un vaccino potrebbe consentire di tenere sotto controllo la malattia, riducendo la circolazione del coronavirus a livelli più che accettabili per evitare nuove epidemie su larga scala. Per i primi anni potrebbe essere necessario vaccinare periodicamente le persone più esposte al rischio di contagio o di sviluppare sintomi gravi, in attesa che il coronavirus circoli sempre meno nella comunità.

E chi si riammala?
Nelle settimane scorse sono circolate informazioni su persone che dopo essere guarite dalla COVID-19 si sarebbero ammalate nuovamente. Le segnalazioni sono state sporadiche e le cause di questi episodi potrebbero essere diverse e non strettamente legate all’immunizzazione.

Di solito una persona viene definita “guarita” quando non manifesta più i sintomi della malattia e risulta negativa a un test di controllo, eseguito tramite un prelievo con tampone. Test di questo tipo sono piuttosto affidabili, ma può accadere che in alcune circostanze non diano un esito chiaro sull’effettiva scomparsa del coronavirus. Secondo gli esperti i rari casi segnalati sono probabilmente ricadute, dovute alla carica virale che torna a crescere causando nuovamente sintomi, che comunque si rivelano di solito molto più lievi rispetto all’infezione precedente.

Per comprensibili motivi etici e di tutela della salute dei pazienti, non sono stati condotti esperimenti su individui guariti per provare a indurre una nuova infezione, esponendoli nuovamente al coronavirus. Un gruppo di ricercatori ha tentato questa strada con due macachi, infettandoli una prima volta per indurre una risposta immunitaria e una seconda volta per verificare se fosse stato mantenuto il ricordo dell’agente infettivo. I due macachi non si sono ammalati nuovamente, indicando il probabile mantenimento dell’immunità, ma lo studio ha previsto condizioni molto specifiche e l’impiego di due sole cavie animali, quindi non offre grandi spunti per ipotizzare che cosa possa accadere negli esseri umani.

Riassumendo
A oggi non ci sono evidenze scientifiche sufficienti per affermare che si diventi immuni al coronavirus, anche se ci sono indizi in questo senso, né tanto meno elementi per stabilire quanto a lungo possa durare un’eventuale immunizzazione. La malattia causata dal virus è del resto conosciuta da circa quattro mesi, un tempo molto limitato per fare analisi e valutazioni sugli ex infetti e che potrebbero avere sviluppato un’immunità. Saranno necessari mesi prima di stabilire modalità e tempo di immunizzazione, e per questo come suggerisce l’OMS non si potrà fare ancora troppo affidamento sui test sierologici.

Perché non ci sono vaccini contro i coronavirus

Non siamo riusciti a farne uno contro SARS e MERS negli ultimi 15 anni, ma l’attuale sforzo contro la COVID-19 è senza precedenti e i ricercatori sono ottimisti.

Un vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere la risorsa più importante per fermare la pandemia da coronavirus, ma tempi ed esiti delle numerose ricerche in corso per svilupparlo sono tutt’altro che scontati. I più ottimisti ritengono che un primo vaccino da impiegare sulla popolazione potrebbe essere pronto entro un anno, ma altri esperti invitano a maggiori cautele, ricordando che sviluppare e produrre vaccini richiede enormi risorse ed è estremamente complicato. A oggi, inoltre, non esiste alcun vaccino già impiegato sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni.

Coronavirus
Il primo coronavirus umano fu scoperto all’inizio degli anni Sessanta e ricondotto a una delle cause del comune raffreddore, che comporta una lieve infezione delle vie aeree superiori. Negli anni, i ricercatori avrebbero scoperto diversi altri tipi di coronavirus, chiamandoli in questo modo per la loro forma particolare: attaccate alla capsula che protegge il codice genetico (RNA) del virus, ci sono tante punte che ricordano quelle di una corona. È attraverso le proteine presenti su queste punte che i coronavirus riescono a legarsi alle membrane delle cellule, ingannando le loro difese per introdurre il codice genetico virale e sfruttare i meccanismi cellulari per replicarsi, con nuove copie che andranno poi a invadere altre cellule.

SARS
Dopo un lungo periodo di scarso interesse, i ricercatori hanno iniziato a occuparsi più intensamente dei coronavirus nel 2002, quando fu scoperta una grave malattia respiratoria – la SARS – causata proprio da uno di questi virus. In pochi mesi, la SARS causò la morte di almeno 700 persone su 8mila casi rilevati, rivelandosi particolarmente pericolosa e letale. La malattia si sviluppò per lo più negli ambienti ospedalieri in alcuni paesi asiatici e fu contenuta relativamente in fretta, con una drastica riduzione dei casi già nel luglio del 2003.

MERS
Una decina di anni dopo, un’altra malattia causata da un coronavirus – la MERS – portò nuove grandi preoccupazioni tra ricercatori e medici, per il suo alto tasso di letalità, intorno al 35 per cento: più di un terzo delle persone con la malattia moriva. Anche per la MERS la diffusione al di fuori degli ospedali, dove si concentrava la maggior parte dei casi, divenne in breve tempo estremamente sporadica e questo contribuì alla riduzione dei casi e a un più facile contenimento della malattia. I casi positivi rilevati furono circa 2.500 con quasi 900 morti. La MERS costituisce comunque ancora un pericolo per la salute pubblica, e per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mantiene iniziative e progetti per contenerla il più possibile.

Non ci sono vaccini per SARS e MERS
Le ricerche di un vaccino per la SARS furono avviate quasi immediatamente dopo la scoperta della malattia, ma con tempi piuttosto lunghi, se paragonati a quelli delle attuali ricerche contro il coronavirus della COVID-19 che si basano su tecnologie che non erano disponibili circa 20 anni fa. Per mappare le informazioni genetiche (genoma) del coronavirus della SARS furono necessari quasi quattro mesi, a differenza delle poche settimane necessarie a inizio anno per l’attuale coronavirus.

Fu poi necessario più di un anno per avere un primo vaccino sperimentale contro la SARS, i cui test iniziarono a Pechino (Cina) alla fine del dicembre del 2004. L’epidemia era ormai finita e la malattia non costituiva più un’immediata minaccia, quindi le attività di ricerca rallentarono e fu data la priorità ad altri studi. Con la MERS le cose non andarono molto diversamente: i tempi di mappatura del coronavirus che la causa furono un po’ più rapidi, ma lo sviluppo di un vaccino si rivelò comunque difficile e particolarmente dispendioso.

L’economia dei vaccini
La scarsa diffusione delle due malattie e le epidemie piuttosto contenute che hanno causato negli anni sono tra le principali cause dell’inesistenza di un vaccino. Si stima che dall’avvio delle prime ricerche alla commercializzazione i costi per lo sviluppo di un vaccino possano aggirarsi intorno a un miliardo di dollari, una spesa enorme e difficilmente alla portata di singoli centri di ricerca, che avviano quindi collaborazioni con le aziende farmaceutiche per proseguire le loro attività o provano ad accedere a fondi di iniziative internazionali benefiche.

Sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico, sviluppare un vaccino è come fare una scommessa: si punta su una soluzione investendo grandi risorse, confidando che questa si riveli efficace e che nel frattempo l’esigenza di avere un vaccino resti alta. La domanda è determinata da numerosi fattori, che si riconducono comunque all’esistenza e alla diffusione di una malattia infettiva che si vuole fermare: se la malattia è poco diffusa e porta a contagi piuttosto sporadici, viene meno l’esigenza di produrre un vaccino per contrastarla, perché le risorse impiegate per svilupparlo potrebbero essere investite meglio in altre iniziative.

Dinamiche di questo tipo sono sempre in gioco non solo nel settore farmaceutico, ma anche in quello della ricerca pubblica e derivano da valutazioni su costi e opportunità. La ricerca per malattie più diffuse può portare in prospettiva a benefici per un maggior numero di persone, soprattutto nel settore dei vaccini dove l’obiettivo è prevenire infezioni che causano altri problemi di salute (alcuni virus e batteri possono contribuire a far sviluppare patologie rare e invalidanti, per esempio).

Sviluppare vaccini
Tutti questi fattori, insieme alle difficoltà tecniche, hanno fatto sì che a oggi non fossero sviluppati vaccini contro la SARS e la MERS, ma questo non significa che gli sforzi non siano proseguiti. Di recente, l’OMS ha comunicato che su 33 vaccini sperimentali per la SARS solamente due hanno raggiunto la fase dei test clinici con esseri umani, tutti gli altri si sono fermati prima delle sperimentazioni sugli individui. Per la MERS solo tre vaccini hanno raggiunto la fase dei test clinici, su 48 candidati.

Semplificando molto, un vaccino serve a renderci immuni senza che prima ci si debba ammalare. Per ottenere questo risultato si possono impiegare diverse strategie, come somministrare una versione depotenziata dell’agente infettivo (virus o batterio) o solo dei suoi “pezzi”, in modo che il nostro sistema immunitario impari a riconoscere la minaccia, a contrastarla e a serbarne un ricordo nel caso di successive infezioni.

Nel Novecento, i vaccini hanno permesso di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e nell’ultimo secolo hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione, in buona parte del mondo.

Trovare il giusto sistema per istruire il nostro sistema immunitario senza farci ammalare non è però semplice, e le complicazioni sono spesso dovute a come sono fatti gli agenti infettivi. Si stima che esistano milioni di diverse specie di virus in natura e che di queste solo 5mila siano state descritte nel dettaglio. Ogni specie ha proprie caratteristiche e spesso una spiccata tendenza a mutare, cioè a modificare alcune delle proprie caratteristiche per eludere le difese degli organismi che attacca, in modo da poter diffondere l’infezione e proseguire la propria esistenza. Le differenze e le mutazioni sono il grattacapo più grande per i ricercatori che sviluppano i vaccini.

Identificata la soluzione più promettente, viene avviata la fase di sperimentazione vera e propria per comprendere capacità e limiti del nuovo vaccino. Di solito si effettuano prima sperimentazioni in laboratorio su cavie animali: viene somministrato loro il vaccino e dopo qualche tempo il virus contro il quale dovrebbero essere diventati immuni. Se gli animali si ammalano, significa che qualcosa non ha funzionato nella progettazione del vaccino.

Ci sono naturalmente molti altri scenari nella sperimentazione che comprendono, per esempio, la somministrazione di una o più dosi a cavie sane e che non verranno infettate, semplicemente per valutare la sicurezza del vaccino, l’attivazione della risposta immunitaria e la sua durata.

Una volta verificate sicurezza ed efficacia del vaccino, con tutte le cautele del caso – considerato che un test su cavie animali non implica risultati analoghi per gli esseri umani – si passa ai test clinici che coinvolgono volontari di solito in aree dove è presente la malattia infettiva. Per motivi etici non si procede a infettare i volontari come viene invece fatto nelle prime sperimentazioni sulle cavie animali, e questo implica ulteriori difficoltà nel mantenere tempi rapidi nella valutazione di un nuovo vaccino (il rischio di fare ammalare un individuo e di non poterlo poi curare nel caso in cui non funzionasse l’immunizzazione sarebbe del resto troppo alto).

Verificata l’efficacia, la parte più consistente e lunga diventa il periodo di osservazione sui volontari che hanno ricevuto il vaccino. Vengono tenuti periodicamente sotto controllo per alcuni anni, sia per assicurarsi che la vaccinazione non abbia portato a effetti collaterali imprevisti (un’evenienza piuttosto rara) sia per valutare la durata dell’immunizzazione di ogni individuo vaccinato.

È un passaggio essenziale e necessario, soprattutto perché, a differenza di quasi tutti gli altri farmaci, un vaccino viene somministrato per evitare una minaccia che le persone non hanno ancora incontrato e per la quale non stanno soffrendo, invece che per una malattia già esistente.

In condizioni normali l’intero processo può durare svariati anni e questo, insieme alle ragioni economiche che abbiamo visto prima, spiega perché a quasi 20 anni dai primi casi di SARS rilevati e poi di MERS non esista ancora un vaccino contro i loro coronavirus.

E per l’Ebola e l’AIDS?
L’Ebola e l’AIDS sono due malattie causate da virus diversi tra loro e diversi dai coronavirus, quindi fare un confronto diretto sarebbe piuttosto fuorviante. Si possono però derivare alcuni insegnamenti dalla ricerca dei vaccini per queste due malattie.

La malattia da virus Ebola causa febbre molto alta ed emorragie interne che si rivelano spesso letali. È diffusa per lo più nell’Africa sub-sahariana e causa focolai relativamente limitati perché è molto letale: in media uccide più della metà degli infetti e quindi i virus che la causano (ce ne sono più tipi) non rimangono molto a lungo in circolazione. Sono stati necessari quasi 15 anni prima che un vaccino fosse realizzato e poi approvato per uso medico dalle principali autorità sanitarie internazionali. L’approvazione definitiva è avvenuta appena lo scorso anno, anche se il vaccino (il suo nome commerciale è Ervebo) era già stato impiegato nelle emergenze sanitarie dovute alle epidemie degli ultimi anni nella Repubblica Democratica del Congo con risultati incoraggianti.

Contro l’AIDS non esiste invece a tutt’oggi un vaccino, nonostante il virus implicato nel suo sviluppo (HIV) sia noto da circa 40 anni. La ricerca di una soluzione efficace si è rivelata estremamente complessa, sia a causa dell’alta capacità del virus di mutare, sia perché lo stesso profilo genetico dell’HIV è estremamente variabile e non è semplice creare un vaccino “ad ampio raggio” che riesca a coprire tutte queste differenze. L’HIV inoltre può rimanere per decenni inattivo nelle persone infette, che conducono una vita senza sintomi. Non è chiaro dove restino queste “riserve” del virus e che cosa fa sì che diventino attive a un certo punto, così come non ci sono casi chiari di guarigione che potrebbero aiutare i ricercatori a sviluppare vaccini di nuova generazione.

Quindi il vaccino contro la COVID-19?
Con circa 2,6 milioni di casi positivi rilevati in tutto il mondo e oltre 180mila morti, la COVID-19 è la più grande emergenza sanitaria degli ultimi tempi legata a una malattia infettiva, e per questo ha suscitato una mobilitazione molto più grande rispetto a quanto avvenne per SARS e MERS, rimaste confinate in aree geografiche molto più ristrette. Oltre agli sforzi sanitari in corso, che interessano milioni di medici in tutto il mondo, la pandemia ha portato a una produzione senza precedenti di ricerche sui coronavirus e nello specifico sul SARS-CoV-2 che causa la COVID-19.

Il senso di urgenza per un vaccino è condiviso dall’OMS, dalle istituzioni sanitarie e dai governi di buona parte del mondo. Complici i progressi raggiunti negli ultimi anni nelle tecniche di analisi e sequenziamento genetico, numerosi centri di ricerca hanno potuto sviluppare vaccini sperimentali in tempi stretti.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OMS, a oggi ci sono 83 vaccini candidati contro la COVID-19 e sei di questi sono entrati nelle fasi iniziali dei test clinici. Ciò non implica che un vaccino sia praticamente pronto, ma indica comunque un grande fermento nella ricerca che rende ottimisti osservatori ed esperti.

A marzo a Seattle (Stati Uniti) è stato avviato il primo test clinico su esseri umani, saltando quelli preliminari sugli animali, per verificare sicurezza ed efficacia del loro vaccino. L’Università di Oxford (Regno Unito) ha anche avviato i primi test su esseri umani e confida di produrre entro la fine dell’estate un milione di dosi, per verificare l’efficacia della sua soluzione su un campione rappresentativo della popolazione. Sanofi e GSK, due delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, hanno annunciato una collaborazione per sviluppare un loro vaccino.

Sicurezza e immunità
La strada verso un vaccino contro la COVID-19 è comunque ancora lunga. I ricercatori dovranno dimostrare che le loro proposte siano prima di tutto sicure e che non causino più rischi per la salute rispetto a quelli che dovrebbero prevenire. Dovranno poi dimostrare che il vaccino attivi una risposta immunitaria nel nostro organismo e che questa rimanga per un lasso di tempo accettabile.

A oggi non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni al SARS-CoV-2, e questo potrebbe condizionare sforzi ed esiti delle ricerche per un vaccino. Per altri coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, la memoria immunitaria dura poco meno di un anno, poi sembra svanire esponendoci nuovamente alla malattia. Per la SARS, il cui coronavirus ha diverse cose in comune con quello attuale, il periodo di immunizzazione sembra essere più ampio, e questo lascia un poco più ottimisti gli esperti.

Se il periodo di immunità dovesse corrispondere a un anno circa, e si trovasse un vaccino efficace, potrebbe essere necessario vaccinarsi ogni anno, come già avviene con le campagne vaccinali stagionali per l’influenza (che è causata da virus diversi dai coronavirus, e che sono più mutevoli).

Verifiche e produzione
Una volta dimostrata l’affidabilità e la capacità di immunizzare, il vaccino dovrà essere analizzato e poi approvato dai principali organismi di controllo per la sicurezza dei farmaci. Questi controlli sono basati sulle analisi svolte da chi propone il vaccino, ma le autorità possono chiedere ulteriori approfondimenti e test, se ritengono che le evidenze presentate non siano sufficienti.

Quando un vaccino sarà approvato, occorrerà affrontare un’altra grande sfida: produrne quantità sufficienti per diffonderlo tra la popolazione. Considerata la diffusione della malattia e le fasce di età più a rischio, potrebbero essere necessari miliardi di dosi di vaccino, una quantità che richiederebbe uno sforzo produttivo senza precedenti. I tempi per produrre i vaccini variano molto a seconda delle soluzioni e delle tecnologie utilizzate: per quelli influenzali sono necessarie settimane.

Stimare con precisione il numero di persone da vaccinare è complicato e molto dipenderà dalle valutazioni dei singoli stati, e dalla disponibilità di quantità sufficienti di vaccini. Gli esperti dicono che dovrebbe diventare immune il 60-70 per cento della popolazione per ridurre la diffusione della malattia. Nella percentuale sono comprese le persone che si ammalano e guariscono, ma questo lascia comunque la necessità di vaccinare milioni di persone in ogni paese. Un vaccino non è inoltre mai efficace al 100 per cento, quindi nei conteggi occorrerà tenere in considerazione gli individui che lo riceveranno, ma non svilupperanno comunque una risposta immunitaria tale da proteggerli.

Scelte
I governi dovranno quindi fare scelte sulla base delle dosi di vaccino di cui disporranno. I primi a essere vaccinati potrebbero essere gli operatori sanitari, per ridurre il loro rischio di infezione e assicurarsi che possano fornire assistenza medica. Il vaccino potrebbe essere poi somministrato ai lavoratori nei settori essenziali, nelle altre persone a rischio (per esempio con malattie già in corso) e negli anziani, la fascia della popolazione più esposta al coronavirus. Per le persone anziane rimane il problema di una minore risposta immunitaria rispetto ai soggetti più giovani, condizione che potrebbe rendere necessari più richiami del vaccino.

Tempi
Come abbiamo visto, il percorso verso un vaccino contro la COVID-19 è ancora piuttosto lungo e tortuoso. Gruppi di ricerca e aziende farmaceutiche mostrano un certo ottimismo, sostenendo che entro la fine dell’anno si potrebbero già avere vaccini sufficientemente sicuri e sui quali effettuare test su larga scala. Il parere di diversi immunologi è che non avremo a disposizione un vaccino prima del prossimo anno, e che potrebbero essere necessari fino a un paio di anni per avere dosi disponibili per coprire le esigenze della maggior parte della popolazione.

Nel frattempo, medici e ricercatori confidano di elaborare protocolli di cura più efficaci contro la COVID-19, anche grazie ai numerosi studi che vengono pubblicati quotidianamente sugli effetti della malattia sul nostro organismo. Le pratiche di distanziamento sociale e i nuovi cicli di isolamento, come rimanere a casa, contribuiscono inoltre a tenere sotto controllo la situazione, dando più possibilità agli ospedali di trattare i malati senza essere sopraffatti da ondate di pazienti, come avvenuto all’inizio dell’epidemia in Italia.

Cosa non sappiamo ancora di questa epidemia

In due mesi e mezzo virologi, epidemiologi e ricercatori hanno scoperto molte cose sul coronavirus, ma alcune importanti domande sono ancora senza risposta.

Da circa un mese e mezzo virologi, epidemiologi, medici e ricercatori stanno studiando l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) per comprendere le caratteristiche del virus e il modo in cui si sta diffondendo, elementi importanti per adottare nuove strategie per rallentarne la diffusione e per sviluppare farmaci, vaccini e trattamenti per ridurre la sua letalità. In poche settimane dalla scoperta del virus a inizio gennaio, per esempio, è stato possibile ottenere la sequenza genetica del coronavirus, in modo da rendere più semplice la sua identificazione con i test. Ogni giorno i ricercatori scoprono qualcosa di nuovo sul virus che sta cambiando le abitudini di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, ma molto resta ancora da scoprire e da capire.

Dopo essere guariti si diventa immuni dal nuovo coronavirus?
Dopo un’infezione virale, il sistema immunitario di solito conserva un ricordo della minaccia che l’aveva causata, impedendo al virus di farci ammalare nuovamente. Sappiamo però che alcuni coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, non portano a una completa immunizzazione nel lungo periodo: il sistema immunitario sembra dimenticarsene e deve quindi imparare a riconoscere da capo la minaccia, nel caso in cui si ripresenti. A oggi non è chiaro se questo valga anche per l’attuale coronavirus: se così fosse potrebbe essere più complicato sviluppare un vaccino, o potrebbe essere necessario ripetere la vaccinazione stagionalmente, come avviene con l’influenza.

Il coronavirus sarà indebolito dal caldo?
Alcuni tipi di virus e coronavirus tendono a essere stagionali, con una prevalenza nei mesi freddi e una minore ricorrenza tra la popolazione durante il resto dell’anno. Non sono a oggi noti i meccanismi che determinano questo andamento, anche se si ipotizza che c’entrino i cambiamenti stagionali e le abitudini delle persone, come restare in luoghi chiusi d’inverno dove i contatti umani sono più stretti. A oggi i ricercatori non sanno dire con certezza se col caldo l’attuale epidemia potrà rallentare, cosa che potrebbe comunque implicare una sua seconda ondata alla fine del prossimo autunno.

Quanto resiste sulle superfici?
I virus possono resistere per diverse ore, in alcuni casi giorni, all’esterno di un organismo, per esempio depositandosi sulle superfici. A oggi non sappiamo per quanto lo faccia anche l’attuale coronavirus, che si trasmette per lo più con le goccioline di saliva che emettiamo tossendo, starnutendo e talvolta parlando: queste si possono depositare sulle mani (se per esempio ci si ripara la bocca col palmo della mano invece che con la piega del gomito quando si starnutisce) e poi finire sulle superfici che tocchiamo. Le ricerche uscite finora non hanno fornito risultati definitivi.

Chi è infetto e non ha sintomi contagia gli altri?
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’epidemia ci sono stati sospetti consistenti circa la possibilità che le persone senza sintomi, ma comunque infette, possano trasmettere il coronavirus agli altri. Non ci sono ancora conferme definitive su questa circostanza, mentre è diventato evidente che in molti casi il coronavirus causa sintomi lievi, che passano quasi inosservati da chi è infetto. La persona inconsapevole di essere malata mantiene quindi una vita sociale attiva, magari assume meno precauzioni, e diventa un importante veicolo di contagio.

Da dove viene questo coronavirus?
I primi casi di polmoniti atipiche sono stati rilevati a Wuhan, in Cina, alla fine dello scorso anno e poi ricondotti all’esistenza di un nuovo coronavirus. I ricercatori sospettano che l’attuale coronavirus provenga dai pipistrelli, animali che fanno da riserva di diverse malattie infettive, ma a oggi non sono state trovate prove definitive. È probabile, inoltre, che tra i pipistrelli e gli esseri umani ci sia stato un passaggio intermedio del coronavirus, forse tramite i pangolini, animali molto ricercati per la medicina tradizionale cinese.

Quanto è letale questo virus?
A seconda delle stime, la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, oscilla tra l’1 e il 5 per cento. Il dato varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle modalità con cui sono calcolati i casi positivi e i decessi. La stima dovrebbe diventare più chiara man mano che si diffonde l’epidemia e si rendono possibili analisi statistiche più estese.

Quanti sono i casi reali di contagio?
Non sappiamo quante persone abbiano avuto il coronavirus o siano infette in questo momento, né in Italia né nel mondo, ma secondo gli epidemiologi sono molte di più di quelle rilevate attraverso i test. Questo significa che probabilmente il dato della letalità è sovrastimato, perché nel rapporto tra positivi e decessi non si può tenere conto di tutti gli altri positivi che non vengono sottoposti al test, e che non risultano nelle stesse statistiche. Anche in questo caso, con il progredire dell’epidemia dovrebbe diventare più chiara la diffusione della malattia tra la popolazione.

Le restrizioni ai movimenti funzionano?
In Cina con due mesi di isolamento di Wuhan e di diverse altre città è stato possibile ridurre enormemente il numero di nuovi contagi, facendo rallentare l’epidemia (il risultato è stato ottenuto anche grazie ad altre pratiche per testare e isolare i malati). Non è però chiaro se l’effetto potrà essere mantenuto nelle prossime settimane con il graduale ritorno alla normalità: esiste il rischio che rimuovere le restrizioni faccia tornare il virus a circolare. Lo stesso vale per l’Italia, che sta per completare la sua prima settimana con piene restrizioni.

Quanto durerà questa epidemia?
Oggi è impossibile prevedere quanto durerà l’epidemia da coronavirus, anche se ci sono molti studi e analisi per provare a farsi un’idea. Le stime più pessimistiche mettono in conto almeno un anno di diffusione della malattia sul pianeta. Gli epidemiologi stimano che entro la primavera del 2021 potrebbe essere stato contagiato tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale. La maggior parte svilupperà sintomi lievi, ma ci sarà comunque una frazione della popolazione che avrà necessità di cure in ospedale, e per questo è importante rallentare la diffusione dell’epidemia per consentire ai sistemi sanitari di curare più persone possibili al meglio.

Quando avremo il vaccino?
Lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere determinante per arrestare prima l’epidemia, e salvare milioni di vite. Diverse aziende farmaceutiche e centri di ricerca sono al lavoro per svilupparne uno, ma i coronavirus non sono agenti infettivi facili e ci sono incertezze sugli esisti di queste ricerche e sulla possibilità di avere un vaccino. I tempi sono comunque dilatati e potrebbe essere necessario attendere più di un anno per averne uno, nella speranza che sia poi efficace su una porzione significativa della popolazione più a rischio.

Perché non c’è un vaccino contro il nuovo coronavirus?

Semplicemente perché è troppo presto, ma sono già in corso le ricerche per produrlo, e il più in fretta possibile.

Contro il nuovo coronavirus (2019-nCoV) – che ha causato oltre cento morti in Cina e il contagio di migliaia di persone, non ci sono cure né vaccini. Mentre il personale medico offre assistenza ai malati per trattare i sintomi, e le autorità cinesi provvedono alle attività di contenimento delle infezioni, alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche in giro per il mondo sono al lavoro per realizzare un vaccino, nella speranza di riuscirci in tempi stretti. Attualmente, la soluzione più rapida e praticabile per ridurre i rischi resta l’isolamento dei pazienti e lo stretto controllo sui nuovi contagi, ma nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare, un vaccino potrebbe rivelarsi determinante.

Le società farmaceutiche Johnson & Johnson, Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals sono già al lavoro per lo sviluppo di vaccini contro il nuovo coronavirus, così come alcuni centri di ricerca privati e pubblici, come i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della Salute degli Stati Uniti.

Inovio ha ricevuto un fondo da 9 milioni di dollari dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale. CEPI ha finanziato almeno altri due programmi di ricerca per lo sviluppo di un vaccino contro 2019-nCoV.

Nell’ultimo secolo, i vaccini si sono rivelati una risorsa fondamentale per ridurre al minimo la diffusione di malattie, anche molto pericolose, salvando centinaia di milioni di vite umane. Per molto tempo lo sviluppo di un vaccino contro un virus completamente nuovo ha richiesto tempo – mediamente tra i due e i tre anni – ma negli ultimi tempi i progressi nella genomica (la scienza che studia il genoma, la totalità del DNA o RNA contenuto in un organismo) e un maggiore coordinamento internazionale hanno consentito di accelerare sensibilmente i tempi. I ricercatori che lavorano al vaccino contro 2019-nCoV confidano di arrivare ai primi test entro tre mesi.

Prima di potere essere impiegato sulla popolazione e su larga scala, un vaccino deve superare una complessa serie di test, prima sugli animali e successivamente su gruppi di esseri umani. L’intero processo richiede tempo e difficilmente può essere svolto in meno di un anno, dall’inizio dello sviluppo al suo impiego. Allo stato attuale i vaccini non sono quindi utili per le prime fasi di un’epidemia con un nuovo virus, banalmente perché ancora non esistono, ma potrebbero diventarlo in una seconda fase se il contagio proseguisse e diventasse diffuso.

Salvo alcune eccezioni, ogni volta che viene scoperto un nuovo virus, i ricercatori devono ricominciare da zero per analizzarlo e comprendere quali siano i suoi punti deboli. Quando ci furono i casi di SARS in Cina nel 2003, furono necessari 20 mesi prima che fosse pronto per i test clinici un vaccino, sulla base delle informazioni genetiche raccolte sul virus che causava la grave sindrome respiratoria. Nel 2015 per il virus Zika furono invece necessari appena 6 mesi, a testimonianza dei progressi in ambito tecnico e della ricerca.

Nel caso della SARS le lentezze furono in parte dovute alle reticenze del governo cinese, che preferì non diffondere da subito alcune informazioni sulla malattia e i contagi, temendo che la notizia potesse danneggiare l’economia della Cina in piena crescita. Con il nuovo coronavirus le cose sono andate diversamente: nei primi giorni del 2020, i ricercatori cinesi hanno messo a disposizione i profili genetici del virus, condividendoli con la comunità scientifica internazionale.

I ricercatori statunitensi dell’NIH hanno potuto confrontare le caratteristiche genetiche del nuovo coronavirus con quelle dei coronavirus che causano la SARS e la MERS, altra malattia infettiva particolarmente aggressiva emersa qualche anno fa in Cina (e contenuta prima che potesse causare un’epidemia su larga scala). Si sono concentrati sulle “punte” del coronavirus, quelle che danno il nome a questa famiglia di virus proprio perché i loro contorni ricordano il profilo di una corona.

Due virioni del nuovo coronavirus al microscopio elettronico (Centro Dati Nazionale di Microbiologia, Cina)

Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).

I ricercatori sanno che bloccando le punte si può togliere al coronavirus la sua capacità di legarsi alle cellule che vuole colonizzare. Per questo in passato all’NIH, come in altri centri di ricerca, sono stati sviluppati vaccini sperimentali che spuntavano le corone dei coronavirus che causano la SARS e la MERS. Nel primo caso il vaccino non è mai stato commercializzato perché la SARS è stata contenuta per tempo, mentre nel secondo il vaccino è ancora in fase di perfezionamento e lo scorso anno ha superato i primi test su esseri umani.

Considerate le somiglianze tra il coronavirus della SARS e l’attuale, i ricercatori dell’NIH hanno pensato di accelerare lo sviluppo di un nuovo vaccino riproducendo alcuni dei meccanismi già sviluppati. Hanno quindi sostituito solo parte del codice genetico, inserendo quello del nuovo coronavirus, e poi ne hanno testato l’efficacia. È il primo passo di un lavoro di ricerca più lungo, che potrà essere proseguito dalle aziende farmaceutiche come Moderna. L’obiettivo è di trovare il modo di creare un vaccino che “insegni” al sistema immunitario a riconoscere le punte del coronavirus, e a contrastarle evitando che il virus riesca a legarsi alle cellule.

Il progetto prevede una collaborazione che interesserà altre istituzioni e centri di ricerca, in modo da avere in poche settimane un prototipo del vaccino da testare in laboratorio. Se il vaccino sperimentale si rivelerà promettente a sufficienza, continuerà a essere sviluppato e, appurata la sua sicurezza, messo alla prova sugli esseri umani.

Inovio, un’altra azienda farmaceutica, confida invece di avere un altro vaccino sperimentale pronto per l’inizio dell’estate. I suoi ricercatori hanno analizzato il profilo genetico del nuovo coronavirus e, tramite alcuni modelli al computer, si sono concentrati sulle sue parti più vulnerabili. Se i test nell’estate dovessero dare esiti positivi, i ricercatori potrebbero iniziare a sperimentare il vaccino in Cina entro la fine dell’anno.

Johnson & Johnson stima che potrebbero essere necessari dagli 8 ai 12 mesi per iniziare i test clinici del suo vaccino su esseri umani. Per allora la crisi sanitaria legata a 2019-nCoV potrebbe essere finita, ma non c’è ancora modo di saperlo e le organizzazioni sanitarie internazionali preferiscono non farsi trovare impreparate. Anche per questo motivo il modello della partecipazione tra governi e fondazioni adottato da qualche anno si sta rivelando proficuo: fa da incentivo alla ricerca per lo sviluppo di soluzioni che potrebbero rivelarsi superflue, e che in altre circostanze non verrebbero esplorate.

Allo stato attuale, salvo particolari complicazioni, in buona parte dei casi il sistema immunitario delle persone con nuovo coronavirus impara a contrastare la sua presenza, portando alla guarigione. Le notizie sulle persone infette e poi guarite provenienti dalla Cina non sono però ancora molto chiare, così come non lo sono quelle su chi sviluppa sintomi gravi e deve restare a lungo in ospedale, per ricevere trattamenti che riducano i sintomi e aiutino il sistema immunitario a reagire.

Il sistema immunitario mantiene di solito memoria dei virus che ha incontrato, e impedisce loro di costituire nuovamente un rischio. I vaccini sono un’ottima soluzione per far sviluppare questa memoria senza che ci si debba ammalare, riducendo quindi i rischi soprattutto per le persone più esposte a causa di altri problemi di salute. L’immunizzazione e la riduzione dei contagi contribuiscono a fermare un’epidemia, evitando che si diffonda.

Mentre si lavora ai vaccini, l’attività più importante per ridurre i rischi di nuovi contagi passa dall’isolamento dei nuovi casi e dalle buone pratiche igieniche. Seppure con colpevoli ritardi iniziali da parte delle autorità cinesi, lo sforzo internazionale permise 16 anni fa di contenere l’epidemia di SARS senza che fosse ancora disponibile un vaccino, e qualcosa di analogo sarebbe successo qualche anno dopo con la MERS.

L’Organizzazione mondiale della sanità ha detto che circa 140mila persone sono morte di morbillo nel 2018

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha detto che nel 2018 il morbillo ha infettato quasi 10 milioni di persone e ne ha uccise circa 140mila, perlopiù bambini con meno di cinque anni che non erano stati vaccinati.

Il direttore generale ha detto che «la morte di un bambino per una malattia evitabile con un vaccino fa sinceramente indignare ed è un fallimento collettivo».

I dati sul 2019 forniti dall’OMS non sono ancora definitivi ma mostrano una situazione ancora peggiore: i casi sarebbero infatti aumentati di tre volte nello stesso periodo del 2018.

Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere che nel 2019 c’è stato il maggior numero di casi degli ultimi 25 anni mentre nel 2018 quattro paesi europei – l’Albania, la Repubblica Ceca, la Grecia e la Gran Bretagna – avevano perso la qualifica di stati senza morbillo dopo che si erano verificati alcuni casi.