Non sarà difficile solo trovarlo, il vaccino

Il suo successo non dipenderà solo dall’efficacia, ma anche dalla capacità di produrne e distribuirne una quantità enorme di dosi: e chi lo riceverà per primo?

Giovedì 21 maggio il governo degli Stati Uniti ha istituto un fondo da oltre 1 miliardo di dollari che potrà impiegare per ricevere tra 300 e 400 milioni di dosi di un vaccino contro il coronavirus, ammesso che ne sia sviluppato uno efficace. Altri paesi si stanno organizzando per fare altrettanto, chiedendo garanzie sulla disponibilità di dosi in quantità sufficienti per la loro popolazione. A oggi non esiste un vaccino contro il coronavirus e gli esperti stimano che potrebbe essere necessario un anno prima di averne uno, ma la sfida nei prossimi mesi non riguarderà solamente questo: sarà necessario organizzarne la produzione e la distribuzione su una scala senza precedenti.

Vaccini e coronavirus
Attualmente ci sono circa 80 gruppi di ricerca in giro per il mondo al lavoro per sviluppare un vaccino contro il coronavirus, seguendo approcci e tecniche diverse. A inizio settimana l’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha annunciato alcuni primi risultati promettenti di un proprio vaccino sperimentale, suscitando però qualche perplessità da parte di diversi osservatori.

Gli Stati Uniti hanno invece messo a disposizione il loro fondo per AstraZeneca, azienda farmaceutica britannico-svedese che ad aprile ha avviato una collaborazione con l’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford. Il gruppo ha sviluppato un primo vaccino sperimentale, somministrato in una prima fase di test a circa mille volontari nel Regno Unito, allo scopo di verificarne la sicurezza e l’efficacia. I risultati dei primi test non sono ancora noti, ma dovrebbero essere diffusi aggiornamenti nelle prossime settimane.

Il vaccino sviluppato a Oxford è ritenuto tra i più promettenti e, se si rivelasse efficace, sarebbe poi prodotto da AstraZeneca su commissione dai paesi interessati. Per ora oltre agli Stati Uniti ha manifestato interesse nel progetto il Regno Unito, confidando di ottenere le prime dosi già alla fine dell’estate. Questa eventualità appare improbabile per diversi osservatori, che invitano ad avere qualche cautela in più sullo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus.

Fare i vaccini
Nell’ultimo secolo, i vaccini hanno consentito di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione in buona parte del mondo.

Semplificando molto, quando entriamo in contatto con agenti infettivi (come virus e batteri) il nostro sistema immunitario interviene per evitare che l’infezione prosegua, e in diversi casi serba memoria dell’attacco per prevenire attacchi successivi: si diventa immuni. Alla prima infezione di un virus il sistema immunitario non ha però ancora gli strumenti per riconoscere la minaccia, e ci ammaliamo con tutte le conseguenze e i rischi del caso. Un vaccino serve per insegnare al sistema immunitario a riconoscere un determinato agente infettivo, evitando però che ci si debba ammalare.

Di solito si impiegano versioni incomplete o depotenziate degli agenti infettivi, quindi in grado di suscitare una risposta immunitaria, ma non di farci ammalare. Trovare la giusta combinazione non è però semplice e molto dipende dal modo in cui sono fatti i virus e i batteri contro i quali si vuole realizzare un vaccino. È per questo motivo che da decenni abbiamo a disposizione vaccini molto efficaci contro malattie come il vaiolo o il morbillo, mentre fatichiamo a produrne di validi e affidabili contro l’HIV.

A oggi non esistono vaccini già impiegati sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni. Non tutti i ricercatori sono ottimisti sulla possibilità di svilupparne uno contro l’attuale, e ci sono diversi aspetti da chiarire: non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni dal coronavirus, e questo potrebbe complicare l’approvazione di un vaccino.

Nel miglior scenario possibile, entro un anno potremmo comunque avere a disposizione un vaccino contro il coronavirus, ma il suo eventuale successo dipenderebbe poi dalla capacità di produrne dosi a sufficienza per tutti.

Quante dosi
Non è chiaro quante dosi del vaccino siano necessarie per tenere sotto controllo la pandemia. Molto dipenderà da quanto si sarà nel frattempo diffusa la malattia nella popolazione, suscitando un’eventuale immunizzazione per contagio tra la popolazione. In linea di massima: più saranno i contagiati, minori saranno le quantità di vaccino necessarie. Non è una differenza da poco, se si considera che in un caso potrebbero essere richieste milioni di dosi del vaccino e nell’altro miliardi.

Se si mettono insieme tutti i vaccini prodotti contro svariate malattie ogni anno, compresa l’influenza stagionale, si arriva a una produzione mondiale di circa 6 miliardi di dosi contenute in oltre 1,6 miliardi di fiale e boccette. Per motivi di praticità, sia dal lato produttivo sia da quello della logistica, molte case farmaceutiche producono i vaccini in fiale multidose, dalle quali gli operatori possono attingere più volte per la somministrazione a diversi individui.

Le stime circolate finora ipotizzano che per il vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere necessaria la produzione di 200-300 milioni di fiale multidose, uno sforzo produttivo che a oggi non può essere raggiunto da nessun produttore da solo, ipotizzando che mantenga nel frattempo i normali livelli di produzione degli altri vaccini.

I tempi per produrre una dose di vaccino variano molto a seconda della tipologia stessa del vaccino e delle tecniche impiegate per produrlo. Uno dei metodi più diffusi implica l’utilizzo degli embrioni nelle uova di gallina, e comporta un lavoro di svariate settimane per realizzare il prodotto finale. Le catene produttive devono essere sorvegliate con grande attenzione, soprattutto per assicurarsi che i vaccini siano realizzati e confezionati in ambienti sterili e privi di qualsiasi tipo di contaminazione.

La produzione del vaccino è inoltre solo una parte del processo, che richiederà la disponibilità di centinaia di milioni di nuove fiale e boccette sterili, sistemi di trasporto e di distribuzione potenziati, senza contare l’attività di somministrazione delle dosi da parte dei sistemi sanitari nei singoli paesi.

Potenziare la produzione
Per raggiungere i livelli di produzione necessari a soddisfare la domanda, le aziende del settore dovranno necessariamente collaborare tra loro, realizzando piani strategici di svariati mesi e che tengano in considerazione l’avanzamento delle ricerche. Dovranno scommettere sulle soluzioni che appaiono più promettenti, mantenendosi comunque la possibilità di cambiare più volte strategia man mano che saranno disponibili i dati sui test clinici.

In previsione di dovere dedicare una parte rilevante della loro capacità produttiva alla pandemia, le aziende del settore dovrebbero inoltre pianificare una produzione anticipata di vaccini per l’influenza stagionale e per altre malattie, in modo da mantenerle in magazzino o distribuirle prima ai clienti.

Altri interventi dovrebbero riguardare il modo stesso in cui sono organizzate le linee produttive, prevedendo l’introduzione di maggiori standard per esempio sulle dimensioni e le caratteristiche delle fiale. Questo approccio consentirebbe di avere una distribuzione più omogenea di macchinari e risorse per produrre e confezionare i vaccini. Avrebbe inoltre il vantaggio di rendere più rapido ed efficace il passaggio a soluzioni alternative, nel caso in cui un vaccino si rivelasse meno efficace del previsto.

Incertezze
Lo sviluppo del nuovo vaccino sta avvenendo in una fase di grande incertezza, e questo potrebbe condizionare gli sforzi per produrlo e diffonderlo. Molto dipenderà dall’andamento della pandemia nei prossimi mesi e dagli approcci che seguiranno le autorità sanitarie. A seconda delle circostanze e delle decisioni assunte, potrebbero essere necessarie quantità enormi o relativamente contenute del vaccino.

Almeno in una prima fase appare improbabile una vaccinazione di massa della popolazione, considerata la diffusione della malattia. Potrebbero essere sottoposti al vaccino i soggetti più a rischio, come gli anziani e gli individui con altre malattie, che potrebbero aggravarsi a causa del coronavirus. Il vaccino potrebbe essere inoltre somministrato agli operatori sanitari e ai lavoratori in altri settori essenziali, per assicurarsi che possano rimanere attivi. Una vaccinazione selettiva di questo tipo implicherebbe comunque l’impiego di decine di milioni di dosi in buona parte dei paesi del mondo.

Per evitare che la domanda iniziale resti insoddisfatta si ipotizza un approccio alternativo, che preveda la vaccinazione degli individui nelle aree più a rischio e maggiormente esposte all’eventualità di entrare in contatto con persone contagiose. Strategie simili per cerchie di conoscenti sono state adottate nelle fasi finali della campagna di eradicazione del vaiolo e per altre malattie molto pericolose, come l’Ebola. I risultati ottenuti sono stati positivi e hanno consentito di rendere più razionale il consumo delle dosi.

Non si può comunque escludere che il vaccino arrivi troppo tardi o che si riveli meno utile di quanto prospettato finora. È per questo motivo che molti governi si mantengono ancora cauti con gli ordini, in attesa di elementi più concreti su capacità produttive e quantità di dosi necessarie. Ci sono del resto esempi nel passato recente di produzioni di vaccini rivelatesi ampiamente fuori scala: nel 2009 per la pandemia da virus influenzale H1N1 i governi spesero miliardi di euro per acquistare grandi quantità di dosi del vaccino, che si rivelarono poi inutili in seguito alla fine dell’emergenza sanitaria.

I provvedimenti incisivi adottati da buona parte dei governi per rallentare la diffusione del contagio, tramite restrizioni e limitazioni ai movimenti, hanno per ora consentito di ridurre sensibilmente i nuovi casi positivi e hanno alleviato il carico per i sistemi sanitari, inizialmente sotto forte stress come avvenuto in Italia. Gli esperti dicono che l’attuale rallentamento nella rilevazione di nuovi casi potrebbe indurre i governi a sentire una minore urgenza per un vaccino, con una conseguente riduzione degli investimenti per la ricerca. Potrebbe essere un altro elemento di incertezza da non sottovalutare, con conseguenze serie se la pandemia dovesse presentarsi con una nuova ondata di contagi il prossimo autunno.

Finanziamenti
La ricerca per i vaccini contro il coronavirus è finanziata da aziende farmaceutiche, governi e da numerose fondazioni, che negli ultimi mesi hanno donato svariate centinaia di milioni di dollari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto un fondo da 8,7 miliardi di dollari per lo sviluppo di vaccini e farmaci per trattare più efficacemente i casi di COVID-19. La Bill & Melinda Gates Foundation ha stanziato oltre 250 milioni di dollari per la ricerca, e altri fondi sono stati attivati dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza a sua volta fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale.

Comunicazione
Una volta ottenuto un vaccino, i governi dovranno organizzare campagne di comunicazione chiare sulle sue modalità di somministrazione e sulle priorità decise per chi potrà avervi accesso per primo. Negli ultimi anni numerose campagne di gruppi e organizzazioni hanno messo in dubbio l’utilità dei vaccini, diffondendo notizie false sulla loro presunta pericolosità. La diffidenza verso un vaccino completamente nuovo, e sviluppato in tempi molto più rapidi rispetto al solito, potrebbe influire sulla sua diffusione e per questo sarà essenziale che le campagne informative siano chiare, soprattutto sul tema della sicurezza per la salute.

Perché non ci sono vaccini contro i coronavirus

Non siamo riusciti a farne uno contro SARS e MERS negli ultimi 15 anni, ma l’attuale sforzo contro la COVID-19 è senza precedenti e i ricercatori sono ottimisti.

Un vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere la risorsa più importante per fermare la pandemia da coronavirus, ma tempi ed esiti delle numerose ricerche in corso per svilupparlo sono tutt’altro che scontati. I più ottimisti ritengono che un primo vaccino da impiegare sulla popolazione potrebbe essere pronto entro un anno, ma altri esperti invitano a maggiori cautele, ricordando che sviluppare e produrre vaccini richiede enormi risorse ed è estremamente complicato. A oggi, inoltre, non esiste alcun vaccino già impiegato sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni.

Coronavirus
Il primo coronavirus umano fu scoperto all’inizio degli anni Sessanta e ricondotto a una delle cause del comune raffreddore, che comporta una lieve infezione delle vie aeree superiori. Negli anni, i ricercatori avrebbero scoperto diversi altri tipi di coronavirus, chiamandoli in questo modo per la loro forma particolare: attaccate alla capsula che protegge il codice genetico (RNA) del virus, ci sono tante punte che ricordano quelle di una corona. È attraverso le proteine presenti su queste punte che i coronavirus riescono a legarsi alle membrane delle cellule, ingannando le loro difese per introdurre il codice genetico virale e sfruttare i meccanismi cellulari per replicarsi, con nuove copie che andranno poi a invadere altre cellule.

SARS
Dopo un lungo periodo di scarso interesse, i ricercatori hanno iniziato a occuparsi più intensamente dei coronavirus nel 2002, quando fu scoperta una grave malattia respiratoria – la SARS – causata proprio da uno di questi virus. In pochi mesi, la SARS causò la morte di almeno 700 persone su 8mila casi rilevati, rivelandosi particolarmente pericolosa e letale. La malattia si sviluppò per lo più negli ambienti ospedalieri in alcuni paesi asiatici e fu contenuta relativamente in fretta, con una drastica riduzione dei casi già nel luglio del 2003.

MERS
Una decina di anni dopo, un’altra malattia causata da un coronavirus – la MERS – portò nuove grandi preoccupazioni tra ricercatori e medici, per il suo alto tasso di letalità, intorno al 35 per cento: più di un terzo delle persone con la malattia moriva. Anche per la MERS la diffusione al di fuori degli ospedali, dove si concentrava la maggior parte dei casi, divenne in breve tempo estremamente sporadica e questo contribuì alla riduzione dei casi e a un più facile contenimento della malattia. I casi positivi rilevati furono circa 2.500 con quasi 900 morti. La MERS costituisce comunque ancora un pericolo per la salute pubblica, e per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mantiene iniziative e progetti per contenerla il più possibile.

Non ci sono vaccini per SARS e MERS
Le ricerche di un vaccino per la SARS furono avviate quasi immediatamente dopo la scoperta della malattia, ma con tempi piuttosto lunghi, se paragonati a quelli delle attuali ricerche contro il coronavirus della COVID-19 che si basano su tecnologie che non erano disponibili circa 20 anni fa. Per mappare le informazioni genetiche (genoma) del coronavirus della SARS furono necessari quasi quattro mesi, a differenza delle poche settimane necessarie a inizio anno per l’attuale coronavirus.

Fu poi necessario più di un anno per avere un primo vaccino sperimentale contro la SARS, i cui test iniziarono a Pechino (Cina) alla fine del dicembre del 2004. L’epidemia era ormai finita e la malattia non costituiva più un’immediata minaccia, quindi le attività di ricerca rallentarono e fu data la priorità ad altri studi. Con la MERS le cose non andarono molto diversamente: i tempi di mappatura del coronavirus che la causa furono un po’ più rapidi, ma lo sviluppo di un vaccino si rivelò comunque difficile e particolarmente dispendioso.

L’economia dei vaccini
La scarsa diffusione delle due malattie e le epidemie piuttosto contenute che hanno causato negli anni sono tra le principali cause dell’inesistenza di un vaccino. Si stima che dall’avvio delle prime ricerche alla commercializzazione i costi per lo sviluppo di un vaccino possano aggirarsi intorno a un miliardo di dollari, una spesa enorme e difficilmente alla portata di singoli centri di ricerca, che avviano quindi collaborazioni con le aziende farmaceutiche per proseguire le loro attività o provano ad accedere a fondi di iniziative internazionali benefiche.

Sia dal punto di vista sanitario sia da quello economico, sviluppare un vaccino è come fare una scommessa: si punta su una soluzione investendo grandi risorse, confidando che questa si riveli efficace e che nel frattempo l’esigenza di avere un vaccino resti alta. La domanda è determinata da numerosi fattori, che si riconducono comunque all’esistenza e alla diffusione di una malattia infettiva che si vuole fermare: se la malattia è poco diffusa e porta a contagi piuttosto sporadici, viene meno l’esigenza di produrre un vaccino per contrastarla, perché le risorse impiegate per svilupparlo potrebbero essere investite meglio in altre iniziative.

Dinamiche di questo tipo sono sempre in gioco non solo nel settore farmaceutico, ma anche in quello della ricerca pubblica e derivano da valutazioni su costi e opportunità. La ricerca per malattie più diffuse può portare in prospettiva a benefici per un maggior numero di persone, soprattutto nel settore dei vaccini dove l’obiettivo è prevenire infezioni che causano altri problemi di salute (alcuni virus e batteri possono contribuire a far sviluppare patologie rare e invalidanti, per esempio).

Sviluppare vaccini
Tutti questi fattori, insieme alle difficoltà tecniche, hanno fatto sì che a oggi non fossero sviluppati vaccini contro la SARS e la MERS, ma questo non significa che gli sforzi non siano proseguiti. Di recente, l’OMS ha comunicato che su 33 vaccini sperimentali per la SARS solamente due hanno raggiunto la fase dei test clinici con esseri umani, tutti gli altri si sono fermati prima delle sperimentazioni sugli individui. Per la MERS solo tre vaccini hanno raggiunto la fase dei test clinici, su 48 candidati.

Semplificando molto, un vaccino serve a renderci immuni senza che prima ci si debba ammalare. Per ottenere questo risultato si possono impiegare diverse strategie, come somministrare una versione depotenziata dell’agente infettivo (virus o batterio) o solo dei suoi “pezzi”, in modo che il nostro sistema immunitario impari a riconoscere la minaccia, a contrastarla e a serbarne un ricordo nel caso di successive infezioni.

Nel Novecento, i vaccini hanno permesso di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e nell’ultimo secolo hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione, in buona parte del mondo.

Trovare il giusto sistema per istruire il nostro sistema immunitario senza farci ammalare non è però semplice, e le complicazioni sono spesso dovute a come sono fatti gli agenti infettivi. Si stima che esistano milioni di diverse specie di virus in natura e che di queste solo 5mila siano state descritte nel dettaglio. Ogni specie ha proprie caratteristiche e spesso una spiccata tendenza a mutare, cioè a modificare alcune delle proprie caratteristiche per eludere le difese degli organismi che attacca, in modo da poter diffondere l’infezione e proseguire la propria esistenza. Le differenze e le mutazioni sono il grattacapo più grande per i ricercatori che sviluppano i vaccini.

Identificata la soluzione più promettente, viene avviata la fase di sperimentazione vera e propria per comprendere capacità e limiti del nuovo vaccino. Di solito si effettuano prima sperimentazioni in laboratorio su cavie animali: viene somministrato loro il vaccino e dopo qualche tempo il virus contro il quale dovrebbero essere diventati immuni. Se gli animali si ammalano, significa che qualcosa non ha funzionato nella progettazione del vaccino.

Ci sono naturalmente molti altri scenari nella sperimentazione che comprendono, per esempio, la somministrazione di una o più dosi a cavie sane e che non verranno infettate, semplicemente per valutare la sicurezza del vaccino, l’attivazione della risposta immunitaria e la sua durata.

Una volta verificate sicurezza ed efficacia del vaccino, con tutte le cautele del caso – considerato che un test su cavie animali non implica risultati analoghi per gli esseri umani – si passa ai test clinici che coinvolgono volontari di solito in aree dove è presente la malattia infettiva. Per motivi etici non si procede a infettare i volontari come viene invece fatto nelle prime sperimentazioni sulle cavie animali, e questo implica ulteriori difficoltà nel mantenere tempi rapidi nella valutazione di un nuovo vaccino (il rischio di fare ammalare un individuo e di non poterlo poi curare nel caso in cui non funzionasse l’immunizzazione sarebbe del resto troppo alto).

Verificata l’efficacia, la parte più consistente e lunga diventa il periodo di osservazione sui volontari che hanno ricevuto il vaccino. Vengono tenuti periodicamente sotto controllo per alcuni anni, sia per assicurarsi che la vaccinazione non abbia portato a effetti collaterali imprevisti (un’evenienza piuttosto rara) sia per valutare la durata dell’immunizzazione di ogni individuo vaccinato.

È un passaggio essenziale e necessario, soprattutto perché, a differenza di quasi tutti gli altri farmaci, un vaccino viene somministrato per evitare una minaccia che le persone non hanno ancora incontrato e per la quale non stanno soffrendo, invece che per una malattia già esistente.

In condizioni normali l’intero processo può durare svariati anni e questo, insieme alle ragioni economiche che abbiamo visto prima, spiega perché a quasi 20 anni dai primi casi di SARS rilevati e poi di MERS non esista ancora un vaccino contro i loro coronavirus.

E per l’Ebola e l’AIDS?
L’Ebola e l’AIDS sono due malattie causate da virus diversi tra loro e diversi dai coronavirus, quindi fare un confronto diretto sarebbe piuttosto fuorviante. Si possono però derivare alcuni insegnamenti dalla ricerca dei vaccini per queste due malattie.

La malattia da virus Ebola causa febbre molto alta ed emorragie interne che si rivelano spesso letali. È diffusa per lo più nell’Africa sub-sahariana e causa focolai relativamente limitati perché è molto letale: in media uccide più della metà degli infetti e quindi i virus che la causano (ce ne sono più tipi) non rimangono molto a lungo in circolazione. Sono stati necessari quasi 15 anni prima che un vaccino fosse realizzato e poi approvato per uso medico dalle principali autorità sanitarie internazionali. L’approvazione definitiva è avvenuta appena lo scorso anno, anche se il vaccino (il suo nome commerciale è Ervebo) era già stato impiegato nelle emergenze sanitarie dovute alle epidemie degli ultimi anni nella Repubblica Democratica del Congo con risultati incoraggianti.

Contro l’AIDS non esiste invece a tutt’oggi un vaccino, nonostante il virus implicato nel suo sviluppo (HIV) sia noto da circa 40 anni. La ricerca di una soluzione efficace si è rivelata estremamente complessa, sia a causa dell’alta capacità del virus di mutare, sia perché lo stesso profilo genetico dell’HIV è estremamente variabile e non è semplice creare un vaccino “ad ampio raggio” che riesca a coprire tutte queste differenze. L’HIV inoltre può rimanere per decenni inattivo nelle persone infette, che conducono una vita senza sintomi. Non è chiaro dove restino queste “riserve” del virus e che cosa fa sì che diventino attive a un certo punto, così come non ci sono casi chiari di guarigione che potrebbero aiutare i ricercatori a sviluppare vaccini di nuova generazione.

Quindi il vaccino contro la COVID-19?
Con circa 2,6 milioni di casi positivi rilevati in tutto il mondo e oltre 180mila morti, la COVID-19 è la più grande emergenza sanitaria degli ultimi tempi legata a una malattia infettiva, e per questo ha suscitato una mobilitazione molto più grande rispetto a quanto avvenne per SARS e MERS, rimaste confinate in aree geografiche molto più ristrette. Oltre agli sforzi sanitari in corso, che interessano milioni di medici in tutto il mondo, la pandemia ha portato a una produzione senza precedenti di ricerche sui coronavirus e nello specifico sul SARS-CoV-2 che causa la COVID-19.

Il senso di urgenza per un vaccino è condiviso dall’OMS, dalle istituzioni sanitarie e dai governi di buona parte del mondo. Complici i progressi raggiunti negli ultimi anni nelle tecniche di analisi e sequenziamento genetico, numerosi centri di ricerca hanno potuto sviluppare vaccini sperimentali in tempi stretti.

Secondo l’ultimo rapporto dell’OMS, a oggi ci sono 83 vaccini candidati contro la COVID-19 e sei di questi sono entrati nelle fasi iniziali dei test clinici. Ciò non implica che un vaccino sia praticamente pronto, ma indica comunque un grande fermento nella ricerca che rende ottimisti osservatori ed esperti.

A marzo a Seattle (Stati Uniti) è stato avviato il primo test clinico su esseri umani, saltando quelli preliminari sugli animali, per verificare sicurezza ed efficacia del loro vaccino. L’Università di Oxford (Regno Unito) ha anche avviato i primi test su esseri umani e confida di produrre entro la fine dell’estate un milione di dosi, per verificare l’efficacia della sua soluzione su un campione rappresentativo della popolazione. Sanofi e GSK, due delle più grandi aziende farmaceutiche al mondo, hanno annunciato una collaborazione per sviluppare un loro vaccino.

Sicurezza e immunità
La strada verso un vaccino contro la COVID-19 è comunque ancora lunga. I ricercatori dovranno dimostrare che le loro proposte siano prima di tutto sicure e che non causino più rischi per la salute rispetto a quelli che dovrebbero prevenire. Dovranno poi dimostrare che il vaccino attivi una risposta immunitaria nel nostro organismo e che questa rimanga per un lasso di tempo accettabile.

A oggi non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni al SARS-CoV-2, e questo potrebbe condizionare sforzi ed esiti delle ricerche per un vaccino. Per altri coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, la memoria immunitaria dura poco meno di un anno, poi sembra svanire esponendoci nuovamente alla malattia. Per la SARS, il cui coronavirus ha diverse cose in comune con quello attuale, il periodo di immunizzazione sembra essere più ampio, e questo lascia un poco più ottimisti gli esperti.

Se il periodo di immunità dovesse corrispondere a un anno circa, e si trovasse un vaccino efficace, potrebbe essere necessario vaccinarsi ogni anno, come già avviene con le campagne vaccinali stagionali per l’influenza (che è causata da virus diversi dai coronavirus, e che sono più mutevoli).

Verifiche e produzione
Una volta dimostrata l’affidabilità e la capacità di immunizzare, il vaccino dovrà essere analizzato e poi approvato dai principali organismi di controllo per la sicurezza dei farmaci. Questi controlli sono basati sulle analisi svolte da chi propone il vaccino, ma le autorità possono chiedere ulteriori approfondimenti e test, se ritengono che le evidenze presentate non siano sufficienti.

Quando un vaccino sarà approvato, occorrerà affrontare un’altra grande sfida: produrne quantità sufficienti per diffonderlo tra la popolazione. Considerata la diffusione della malattia e le fasce di età più a rischio, potrebbero essere necessari miliardi di dosi di vaccino, una quantità che richiederebbe uno sforzo produttivo senza precedenti. I tempi per produrre i vaccini variano molto a seconda delle soluzioni e delle tecnologie utilizzate: per quelli influenzali sono necessarie settimane.

Stimare con precisione il numero di persone da vaccinare è complicato e molto dipenderà dalle valutazioni dei singoli stati, e dalla disponibilità di quantità sufficienti di vaccini. Gli esperti dicono che dovrebbe diventare immune il 60-70 per cento della popolazione per ridurre la diffusione della malattia. Nella percentuale sono comprese le persone che si ammalano e guariscono, ma questo lascia comunque la necessità di vaccinare milioni di persone in ogni paese. Un vaccino non è inoltre mai efficace al 100 per cento, quindi nei conteggi occorrerà tenere in considerazione gli individui che lo riceveranno, ma non svilupperanno comunque una risposta immunitaria tale da proteggerli.

Scelte
I governi dovranno quindi fare scelte sulla base delle dosi di vaccino di cui disporranno. I primi a essere vaccinati potrebbero essere gli operatori sanitari, per ridurre il loro rischio di infezione e assicurarsi che possano fornire assistenza medica. Il vaccino potrebbe essere poi somministrato ai lavoratori nei settori essenziali, nelle altre persone a rischio (per esempio con malattie già in corso) e negli anziani, la fascia della popolazione più esposta al coronavirus. Per le persone anziane rimane il problema di una minore risposta immunitaria rispetto ai soggetti più giovani, condizione che potrebbe rendere necessari più richiami del vaccino.

Tempi
Come abbiamo visto, il percorso verso un vaccino contro la COVID-19 è ancora piuttosto lungo e tortuoso. Gruppi di ricerca e aziende farmaceutiche mostrano un certo ottimismo, sostenendo che entro la fine dell’anno si potrebbero già avere vaccini sufficientemente sicuri e sui quali effettuare test su larga scala. Il parere di diversi immunologi è che non avremo a disposizione un vaccino prima del prossimo anno, e che potrebbero essere necessari fino a un paio di anni per avere dosi disponibili per coprire le esigenze della maggior parte della popolazione.

Nel frattempo, medici e ricercatori confidano di elaborare protocolli di cura più efficaci contro la COVID-19, anche grazie ai numerosi studi che vengono pubblicati quotidianamente sugli effetti della malattia sul nostro organismo. Le pratiche di distanziamento sociale e i nuovi cicli di isolamento, come rimanere a casa, contribuiscono inoltre a tenere sotto controllo la situazione, dando più possibilità agli ospedali di trattare i malati senza essere sopraffatti da ondate di pazienti, come avvenuto all’inizio dell’epidemia in Italia.

Cosa non sappiamo ancora di questa epidemia

In due mesi e mezzo virologi, epidemiologi e ricercatori hanno scoperto molte cose sul coronavirus, ma alcune importanti domande sono ancora senza risposta.

Da circa un mese e mezzo virologi, epidemiologi, medici e ricercatori stanno studiando l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) per comprendere le caratteristiche del virus e il modo in cui si sta diffondendo, elementi importanti per adottare nuove strategie per rallentarne la diffusione e per sviluppare farmaci, vaccini e trattamenti per ridurre la sua letalità. In poche settimane dalla scoperta del virus a inizio gennaio, per esempio, è stato possibile ottenere la sequenza genetica del coronavirus, in modo da rendere più semplice la sua identificazione con i test. Ogni giorno i ricercatori scoprono qualcosa di nuovo sul virus che sta cambiando le abitudini di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, ma molto resta ancora da scoprire e da capire.

Dopo essere guariti si diventa immuni dal nuovo coronavirus?
Dopo un’infezione virale, il sistema immunitario di solito conserva un ricordo della minaccia che l’aveva causata, impedendo al virus di farci ammalare nuovamente. Sappiamo però che alcuni coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, non portano a una completa immunizzazione nel lungo periodo: il sistema immunitario sembra dimenticarsene e deve quindi imparare a riconoscere da capo la minaccia, nel caso in cui si ripresenti. A oggi non è chiaro se questo valga anche per l’attuale coronavirus: se così fosse potrebbe essere più complicato sviluppare un vaccino, o potrebbe essere necessario ripetere la vaccinazione stagionalmente, come avviene con l’influenza.

Il coronavirus sarà indebolito dal caldo?
Alcuni tipi di virus e coronavirus tendono a essere stagionali, con una prevalenza nei mesi freddi e una minore ricorrenza tra la popolazione durante il resto dell’anno. Non sono a oggi noti i meccanismi che determinano questo andamento, anche se si ipotizza che c’entrino i cambiamenti stagionali e le abitudini delle persone, come restare in luoghi chiusi d’inverno dove i contatti umani sono più stretti. A oggi i ricercatori non sanno dire con certezza se col caldo l’attuale epidemia potrà rallentare, cosa che potrebbe comunque implicare una sua seconda ondata alla fine del prossimo autunno.

Quanto resiste sulle superfici?
I virus possono resistere per diverse ore, in alcuni casi giorni, all’esterno di un organismo, per esempio depositandosi sulle superfici. A oggi non sappiamo per quanto lo faccia anche l’attuale coronavirus, che si trasmette per lo più con le goccioline di saliva che emettiamo tossendo, starnutendo e talvolta parlando: queste si possono depositare sulle mani (se per esempio ci si ripara la bocca col palmo della mano invece che con la piega del gomito quando si starnutisce) e poi finire sulle superfici che tocchiamo. Le ricerche uscite finora non hanno fornito risultati definitivi.

Chi è infetto e non ha sintomi contagia gli altri?
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’epidemia ci sono stati sospetti consistenti circa la possibilità che le persone senza sintomi, ma comunque infette, possano trasmettere il coronavirus agli altri. Non ci sono ancora conferme definitive su questa circostanza, mentre è diventato evidente che in molti casi il coronavirus causa sintomi lievi, che passano quasi inosservati da chi è infetto. La persona inconsapevole di essere malata mantiene quindi una vita sociale attiva, magari assume meno precauzioni, e diventa un importante veicolo di contagio.

Da dove viene questo coronavirus?
I primi casi di polmoniti atipiche sono stati rilevati a Wuhan, in Cina, alla fine dello scorso anno e poi ricondotti all’esistenza di un nuovo coronavirus. I ricercatori sospettano che l’attuale coronavirus provenga dai pipistrelli, animali che fanno da riserva di diverse malattie infettive, ma a oggi non sono state trovate prove definitive. È probabile, inoltre, che tra i pipistrelli e gli esseri umani ci sia stato un passaggio intermedio del coronavirus, forse tramite i pangolini, animali molto ricercati per la medicina tradizionale cinese.

Quanto è letale questo virus?
A seconda delle stime, la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, oscilla tra l’1 e il 5 per cento. Il dato varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle modalità con cui sono calcolati i casi positivi e i decessi. La stima dovrebbe diventare più chiara man mano che si diffonde l’epidemia e si rendono possibili analisi statistiche più estese.

Quanti sono i casi reali di contagio?
Non sappiamo quante persone abbiano avuto il coronavirus o siano infette in questo momento, né in Italia né nel mondo, ma secondo gli epidemiologi sono molte di più di quelle rilevate attraverso i test. Questo significa che probabilmente il dato della letalità è sovrastimato, perché nel rapporto tra positivi e decessi non si può tenere conto di tutti gli altri positivi che non vengono sottoposti al test, e che non risultano nelle stesse statistiche. Anche in questo caso, con il progredire dell’epidemia dovrebbe diventare più chiara la diffusione della malattia tra la popolazione.

Le restrizioni ai movimenti funzionano?
In Cina con due mesi di isolamento di Wuhan e di diverse altre città è stato possibile ridurre enormemente il numero di nuovi contagi, facendo rallentare l’epidemia (il risultato è stato ottenuto anche grazie ad altre pratiche per testare e isolare i malati). Non è però chiaro se l’effetto potrà essere mantenuto nelle prossime settimane con il graduale ritorno alla normalità: esiste il rischio che rimuovere le restrizioni faccia tornare il virus a circolare. Lo stesso vale per l’Italia, che sta per completare la sua prima settimana con piene restrizioni.

Quanto durerà questa epidemia?
Oggi è impossibile prevedere quanto durerà l’epidemia da coronavirus, anche se ci sono molti studi e analisi per provare a farsi un’idea. Le stime più pessimistiche mettono in conto almeno un anno di diffusione della malattia sul pianeta. Gli epidemiologi stimano che entro la primavera del 2021 potrebbe essere stato contagiato tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale. La maggior parte svilupperà sintomi lievi, ma ci sarà comunque una frazione della popolazione che avrà necessità di cure in ospedale, e per questo è importante rallentare la diffusione dell’epidemia per consentire ai sistemi sanitari di curare più persone possibili al meglio.

Quando avremo il vaccino?
Lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere determinante per arrestare prima l’epidemia, e salvare milioni di vite. Diverse aziende farmaceutiche e centri di ricerca sono al lavoro per svilupparne uno, ma i coronavirus non sono agenti infettivi facili e ci sono incertezze sugli esisti di queste ricerche e sulla possibilità di avere un vaccino. I tempi sono comunque dilatati e potrebbe essere necessario attendere più di un anno per averne uno, nella speranza che sia poi efficace su una porzione significativa della popolazione più a rischio.

Negli Stati Uniti sono iniziati i test di un vaccino per il coronavirus

Le prime dosi sono state somministrate ad alcuni volontari a Seattle, ma per capire se sarà efficace ci vorrà circa un anno.

Negli Stati Uniti sono iniziati i primi test di un vaccino contro il coronavirus (SARS-CoV-2). Il vaccino è stato sviluppato dall’azienda di biotecnologie Moderna in collaborazione con il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), un’agenzia del dipartimento della Salute. Il vaccino verrà somministrato nelle prossime sei settimane a 45 volontari tra i 18 e i 55 anni presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle, nello stato di Washington. Le prime somministrazioni sono state effettuate lunedì.

I volontari verranno seguiti per un anno, e se il vaccino dovesse rivelarsi efficace seguiranno altre fasi di test su un numero sempre maggiore di volontari, in modo da poter poi ricevere l’approvazione della Food and Drug Administration, l’ente federale che si occupa di selezionare alimenti e farmaci adatti al commercio.

Il vaccino si chiama mRNA-1273 e verrà testato in tre diversi dosaggi  – ognuno in 15 persone – per determinare se riesca a indurre una reazione immunitaria tale da produrre anticorpi che fermino la riproduzione del virus o se invece causi effetti collaterali.

Il vaccino era stato prodotto in tempi rapidissimi dopo che i ricercatori cinesi erano riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus. Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna avevano identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si erano quindi messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.