A che punto siamo con i farmaci contro il coronavirus

Una collaborazione internazionale sta studiando oltre 50 principi attivi che potrebbero fermare il virus, mentre c’è un primo insuccesso di una terapia antivirale.

Migliaia di ricercatori in tutto il mondo sono al lavoro per trovare nuovi trattamenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Uno dei progetti più promettenti è stato organizzato dall’Università della California (San Francisco) e ha portato all’identificazione di 50 farmaci già esistenti e sviluppati per altre malattie, che potrebbero offrire nuovi sistemi per bloccare il virus e impedirgli di replicarsi nelle cellule del nostro organismo. Rispetto ad altre epidemie emerse in passato e su scala più piccola, le ricerche stanno procedendo più velocemente, tra speranze e primi insuccessi nelle sperimentazioni.

Non c’è cura
A oggi contro la COVID-19 non c’è una cura. La maggior parte degli infetti sviluppa sintomi lievi, che passano dopo un paio di settimane di isolamento a casa assumendo farmaci per ridurre febbre e dolori. Per gli altri può essere necessario il ricovero in ospedale a causa di sintomi più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio. I pazienti ricoverati sono trattati nei normali reparti o in terapia intensiva, a seconda delle loro condizioni, ma con trattamenti che possono solamente ridurre i sintomi o favorire la respirazione (tramite mascherine a ossigeno o con l’intubazione). L’obiettivo è guadagnare tempo, evitando che il paziente si aggravi mentre il suo sistema immunitario reagisce all’infezione per sbarazzarsi del virus.

Farmaci e proteine
La ricerca di farmaci efficaci si sta quindi concentrando sull’identificazione di principi attivi che possano bloccare il coronavirus, impedendogli di attaccare le cellule e di sfruttarle per replicarsi e aumentare l’infezione. Centinaia di ricercatori coordinati dal Quantitative Biosciences Institute Coronavirus Research Group (QBI) dell’Università della California, per esempio, stanno studiando i farmaci oggi disponibili sul mercato, per identificare i candidati più promettenti contro la COVID-19. L’obiettivo è trovare principi attivi che facciano da barriera tra il coronavirus e le proteine delle nostre cellule che vengono sfruttate dal virus per produrre le sue copie.

Le ricerche presso il QBI sono state avviate a inizio gennaio, quando erano iniziate a circolare le prime informazioni sul coronavirus (SARS-CoV-2), in seguito ai primi casi gravi di polmoniti atipiche nell’area di Wuhan, in Cina, da dove è partita l’attuale epidemia. L’attività più importante ha riguardato lo studio delle proteine presenti nelle nostre cellule che vengono sfruttate dal coronavirus per replicarsi. Una mappatura di questo tipo richiede di solito un paio di anni per essere svolta, ma grazie alla collaborazione di una ventina di laboratori è stato possibile ottenere una prima mappa in una manciata di settimane.

Mappa
Il risultato è stato reso possibile dalle conoscenze accumulate negli anni scorsi, attraverso lo studio di altri virus. I ricercatori avevano per esempio già svolto una mappa delle proteine sfruttate dall’HIV e da alcuni virus che causano Ebola e la dengue.

Gli studi di laboratorio svolti a febbraio hanno permesso di scoprire oltre 400 proteine che, in un modo o nell’altro, sembrano essere coinvolte dall’attività del coronavirus sul sistema respiratorio. Sono sfruttate in vario modo, per esempio per eludere le difese dell’involucro protettivo della cellula (membrana cellulare), inserire il codice genetico (RNA) del coronavirus e sfruttare poi le strutture cellulari (organuli) per produrre nuove copie del virus, che vengono rilasciate dalla cellula. Queste copie attaccano poi altre cellule dell’apparato respiratorio per replicarsi ulteriormente. Il sistema immunitario reagisce con un’infiammazione, che serve a uccidere il virus e a distruggere le cellule che fanno da fotocopiatrici, ma non sempre il contrattacco è efficace e così si assiste a un peggioramento dei pazienti.

La mappa ha messo in evidenza diverse interazioni tra il coronavirus e proteine cellulari che, almeno finora, non sembrano avere nulla a che fare con la produzione di nuove copie del virus. Queste interazioni passate inosservate finora potrebbero nascondere la chiave per capire alcune caratteristiche della replicazione virale, offrendo la possibilità di intervenire per bloccarla. Per ogni proteina della mappa, i ricercatori stanno analizzando i principi attivi di migliaia di farmaci già esistenti, e progettati per altre malattie, alla ricerca di soluzioni per impedire al coronavirus di approfittarsene.

Un primo set di dieci farmaci è stato di recente inviato dal QBI al Mount Sinai Hospital di New York e all’Istituto Pasteur di Parigi. I test di laboratorio prevedono, tra le altre cose, l’analisi della reazione del coronavirus ai principi attivi in cellule di primati non umani in vitro. A seconda dei risultati, i ricercatori potranno poi testare i farmaci su cavie animali infettate con il coronavirus.

Solo dopo questi primi test si potrà procedere con la sperimentazione sugli esseri umani, con grande attenzione per gli eventuali effetti collaterali. Principi attivi utili per ridurre la replicazione del coronavirus intervenendo su alcune proteine, per esempio, potrebbero avere effetti imprevisti su altre attività dell’organismo. Le nuove tecnologie e l’impegno di numerosi ricercatori stanno consentendo di accorciare i tempi, ma saranno comunque necessari mesi prima di identificare un eventuale trattamento efficace per i casi più gravi di COVID-19.

Antivirali
Il lavoro del QBI interessa numerosi farmaci sviluppati per trattare alcune forme di tumore e non necessariamente le infezioni virali. Altri ricercatori si stanno invece dedicando agli antivirali già disponibili, cioè ai farmaci che vengono utilizzati per rallentare o fermare la replicazione dei virus. I loro principi attivi sono piuttosto specifici, ma si ipotizza che con una giusta combinazione si possano ottenere risultati anche con la COVID-19.

Tra gli antivirali ritenuti per ora più promettenti c’è il remdesivir, farmaco di recente introduzione, sviluppato negli anni delle epidemie causate da Ebola in Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. La sua sperimentazione portò a risultati che sembravano essere incoraggianti, ma un impiego su più grande scala rivelò una scarsa efficacia rispetto ad altre soluzioni. Il farmaco era stato sperimentato anche per trattare alcuni casi di MERS e SARS, sindromi respiratorie causate da altri coronavirus, con qualche risultato positivo.

Il remdesivir è attualmente oggetto di almeno cinque sperimentazioni cliniche. L’obiettivo è capire non solo se sia efficace contro l’attuale coronavirus, ma anche se comporti effetti collaterali tollerabili dai pazienti. In alcuni casi, infatti, farmaci molto potenti potrebbero avere la controindicazione di arrecare più danno che benefici, e trovare il giusto equilibrio non è semplice.

Primo insuccesso
Dalla Cina sono intanto arrivate le prime valutazioni su un’altra sperimentazione con antivirali che era stata ritenuta promettente, e le notizie non sono buone. Sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine, un gruppo di ricercatori ha segnalato di non avere rilevato benefici su pazienti gravemente malati di COVID-19 dopo la somministrazione di lopinavir e ritonavir, due antivirali normalmente impiegati contro l’HIV e che sembravano essere indicati nel trattamento di infezioni da coronavirus.

Nello studio, i ricercatori spiegano comunque che la loro esperienza è stata parziale e che le loro conclusioni non devono essere considerate definitive. La ricerca è stata condotta su 199 adulti di età compresa tra i 49 e i 68 anni, tutti ricoverati in gravi condizioni a causa del coronavirus in un ospedale di Wuhan. Per 14 giorni metà è stata trattata con le normali terapie e metà con i due antivirali: al termine della sperimentazione non sono state rilevate differenze tra i due gruppi né in termini di accorciamento della malattia né nella riduzione delle morti.

In un editoriale che accompagna lo studio, medici e ricercatori sono stati lodati per l’accuratezza del loro lavoro, realizzato in condizioni molto difficili con gli ospedali pieni di pazienti da assistere. L’auspicio è che sperimentazioni cliniche come questa siano ripetute in altre strutture ospedaliere, per avere più dati e informazioni sull’eventuale efficacia di farmaci e trattamenti.

Cosa non sappiamo ancora di questa epidemia

In due mesi e mezzo virologi, epidemiologi e ricercatori hanno scoperto molte cose sul coronavirus, ma alcune importanti domande sono ancora senza risposta.

Da circa un mese e mezzo virologi, epidemiologi, medici e ricercatori stanno studiando l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) per comprendere le caratteristiche del virus e il modo in cui si sta diffondendo, elementi importanti per adottare nuove strategie per rallentarne la diffusione e per sviluppare farmaci, vaccini e trattamenti per ridurre la sua letalità. In poche settimane dalla scoperta del virus a inizio gennaio, per esempio, è stato possibile ottenere la sequenza genetica del coronavirus, in modo da rendere più semplice la sua identificazione con i test. Ogni giorno i ricercatori scoprono qualcosa di nuovo sul virus che sta cambiando le abitudini di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, ma molto resta ancora da scoprire e da capire.

Dopo essere guariti si diventa immuni dal nuovo coronavirus?
Dopo un’infezione virale, il sistema immunitario di solito conserva un ricordo della minaccia che l’aveva causata, impedendo al virus di farci ammalare nuovamente. Sappiamo però che alcuni coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore, non portano a una completa immunizzazione nel lungo periodo: il sistema immunitario sembra dimenticarsene e deve quindi imparare a riconoscere da capo la minaccia, nel caso in cui si ripresenti. A oggi non è chiaro se questo valga anche per l’attuale coronavirus: se così fosse potrebbe essere più complicato sviluppare un vaccino, o potrebbe essere necessario ripetere la vaccinazione stagionalmente, come avviene con l’influenza.

Il coronavirus sarà indebolito dal caldo?
Alcuni tipi di virus e coronavirus tendono a essere stagionali, con una prevalenza nei mesi freddi e una minore ricorrenza tra la popolazione durante il resto dell’anno. Non sono a oggi noti i meccanismi che determinano questo andamento, anche se si ipotizza che c’entrino i cambiamenti stagionali e le abitudini delle persone, come restare in luoghi chiusi d’inverno dove i contatti umani sono più stretti. A oggi i ricercatori non sanno dire con certezza se col caldo l’attuale epidemia potrà rallentare, cosa che potrebbe comunque implicare una sua seconda ondata alla fine del prossimo autunno.

Quanto resiste sulle superfici?
I virus possono resistere per diverse ore, in alcuni casi giorni, all’esterno di un organismo, per esempio depositandosi sulle superfici. A oggi non sappiamo per quanto lo faccia anche l’attuale coronavirus, che si trasmette per lo più con le goccioline di saliva che emettiamo tossendo, starnutendo e talvolta parlando: queste si possono depositare sulle mani (se per esempio ci si ripara la bocca col palmo della mano invece che con la piega del gomito quando si starnutisce) e poi finire sulle superfici che tocchiamo. Le ricerche uscite finora non hanno fornito risultati definitivi.

Chi è infetto e non ha sintomi contagia gli altri?
Fin dalle prime settimane dall’inizio dell’epidemia ci sono stati sospetti consistenti circa la possibilità che le persone senza sintomi, ma comunque infette, possano trasmettere il coronavirus agli altri. Non ci sono ancora conferme definitive su questa circostanza, mentre è diventato evidente che in molti casi il coronavirus causa sintomi lievi, che passano quasi inosservati da chi è infetto. La persona inconsapevole di essere malata mantiene quindi una vita sociale attiva, magari assume meno precauzioni, e diventa un importante veicolo di contagio.

Da dove viene questo coronavirus?
I primi casi di polmoniti atipiche sono stati rilevati a Wuhan, in Cina, alla fine dello scorso anno e poi ricondotti all’esistenza di un nuovo coronavirus. I ricercatori sospettano che l’attuale coronavirus provenga dai pipistrelli, animali che fanno da riserva di diverse malattie infettive, ma a oggi non sono state trovate prove definitive. È probabile, inoltre, che tra i pipistrelli e gli esseri umani ci sia stato un passaggio intermedio del coronavirus, forse tramite i pangolini, animali molto ricercati per la medicina tradizionale cinese.

Quanto è letale questo virus?
A seconda delle stime, la percentuale di decessi tra i casi rilevati di COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, oscilla tra l’1 e il 5 per cento. Il dato varia sensibilmente a seconda dei paesi e delle modalità con cui sono calcolati i casi positivi e i decessi. La stima dovrebbe diventare più chiara man mano che si diffonde l’epidemia e si rendono possibili analisi statistiche più estese.

Quanti sono i casi reali di contagio?
Non sappiamo quante persone abbiano avuto il coronavirus o siano infette in questo momento, né in Italia né nel mondo, ma secondo gli epidemiologi sono molte di più di quelle rilevate attraverso i test. Questo significa che probabilmente il dato della letalità è sovrastimato, perché nel rapporto tra positivi e decessi non si può tenere conto di tutti gli altri positivi che non vengono sottoposti al test, e che non risultano nelle stesse statistiche. Anche in questo caso, con il progredire dell’epidemia dovrebbe diventare più chiara la diffusione della malattia tra la popolazione.

Le restrizioni ai movimenti funzionano?
In Cina con due mesi di isolamento di Wuhan e di diverse altre città è stato possibile ridurre enormemente il numero di nuovi contagi, facendo rallentare l’epidemia (il risultato è stato ottenuto anche grazie ad altre pratiche per testare e isolare i malati). Non è però chiaro se l’effetto potrà essere mantenuto nelle prossime settimane con il graduale ritorno alla normalità: esiste il rischio che rimuovere le restrizioni faccia tornare il virus a circolare. Lo stesso vale per l’Italia, che sta per completare la sua prima settimana con piene restrizioni.

Quanto durerà questa epidemia?
Oggi è impossibile prevedere quanto durerà l’epidemia da coronavirus, anche se ci sono molti studi e analisi per provare a farsi un’idea. Le stime più pessimistiche mettono in conto almeno un anno di diffusione della malattia sul pianeta. Gli epidemiologi stimano che entro la primavera del 2021 potrebbe essere stato contagiato tra il 40 e il 70 per cento della popolazione mondiale. La maggior parte svilupperà sintomi lievi, ma ci sarà comunque una frazione della popolazione che avrà necessità di cure in ospedale, e per questo è importante rallentare la diffusione dell’epidemia per consentire ai sistemi sanitari di curare più persone possibili al meglio.

Quando avremo il vaccino?
Lo sviluppo di un vaccino contro il coronavirus potrebbe essere determinante per arrestare prima l’epidemia, e salvare milioni di vite. Diverse aziende farmaceutiche e centri di ricerca sono al lavoro per svilupparne uno, ma i coronavirus non sono agenti infettivi facili e ci sono incertezze sugli esisti di queste ricerche e sulla possibilità di avere un vaccino. I tempi sono comunque dilatati e potrebbe essere necessario attendere più di un anno per averne uno, nella speranza che sia poi efficace su una porzione significativa della popolazione più a rischio.

Quanto resiste il coronavirus sulle superfici?

Sappiamo che i coronavirus restano attivi fuori dagli organismi almeno per ore, in alcuni casi giorni: per questo è importante pulire le superfici e lavarsi le mani.

Il nuovo decreto del governo per il “contenimento e la gestione” dell’emergenza sanitaria legata al coronavirus approvato domenica prevede, tra le altre cose, “interventi straordinari di sanificazione dei mezzi” del trasporto pubblico in tutta Italia. Provvedimenti simili sono stati assunti in altri paesi dove i contagi sono in aumento e sono considerati un’utile precauzione, in attesa di sapere con maggior chiarezza per quanto tempo riesca a rimanere attivo il coronavirus sulle superfici all’esterno di un organismo.

Virus e superfici
In generale, i virus restano attivi per diverso tempo dopo che sono usciti da un organismo e prima di infettarne un altro (in questa condizione sono virioni, particelle indipendenti). Questa capacità varia notevolmente a seconda dei tipi di virus e naturalmente delle condizioni ambientali.

Quelli che interessano le nostre vie aeree, come l’attuale coronavirus, si diffondono attraverso le piccole gocce di saliva che produciamo quando parliamo, tossiamo e starnutiamo. Queste goccioline possono raggiungere direttamente un’altra persona, causando il contagio, oppure possono depositarsi sulle superfici o essere depositate dall’infetto, per esempio se tocca qualcosa dopo essersi tossito o starnutito nella mano.

Le superfici più esposte sono quelle toccate più di frequente da molte persone, come le maniglie delle porte, le pulsantiere degli ascensori o i sostegni cui aggrapparsi sui mezzi del trasporto pubblico. Toccandoli, si può entrare in contatto con il virus depositato inconsapevolmente da qualcun altro: riesce poi a farsi strada nell’organismo, se per esempio ci si tocca la faccia (occhi, naso, bocca) con le mani sporche.

Quanto resistono i coronavirus sulle superfici
Da un paio di mesi migliaia di ricercatori in tutto il mondo stanno studiando le caratteristiche del coronavirus che causa la COVID-19, malattia che ha ormai interessato oltre 90mila persone, soprattutto in Cina dove sono stati registrati i primi casi alla fine del 2019. Oltre a studiare il modo in cui il virus si replica negli organismi, alcuni ricercatori hanno iniziato a compiere test ed esperimenti per valutare il tempo di quiescenza del coronavirus all’esterno degli organismi (cioè per quanto resiste prima di non essere più pericoloso).

Una risposta definitiva non è stata ancora trovata, ma una ricerca ha messo a confronto gli studi più rilevanti sui coronavirus condotti in passato, per identificare un arco temporale di massima. L’analisi delle 22 ricerche ha messo in evidenza che il coronavirus che causa la SARS, e che ha diverse cose in comune con quello attuale della COVID-19, può rimanere attivo su superfici poco porose come metallo, vetro e plastica fino a 9 giorni. Il coronavirus che causa la MERS ha capacità simili, così come altri coronavirus che infettano gli animali e non gli esseri umani.

E l’attuale coronavirus?
Non è ancora completamente chiaro quanto duri l’attuale coronavirus sulle superfici, ma ci sono comunque indizi consistenti sul fatto che possa rimanere attivo per diverso tempo fuori dagli organismi.

Quando sono stati registrati alcuni casi da coronavirus a Hong Kong in un tempio buddista, le autorità sanitarie locali hanno raccolto campioni da maniglie, lavandini e altri oggetti, sui quali è poi risultata la presenza del virus. Era quindi passato diverso tempo dal momento in cui le superfici erano state infettate, anche se non sappiamo di preciso quanto.

Le variazioni delle condizioni ambientali possono influire molto sulla capacità dei coronavirus di resistere sulle superfici, condizione che rende più complicate stime e previsioni sulla loro durata.

Disinfezione
Come molti altri virus, anche il coronavirus ha una scarsa capacità di resistere agli agenti disinfettanti più comuni per le superfici. È sufficiente una soluzione contenente tra il 60 e il 70 per cento di etanolo (alcol etilico) per inattivare il coronavirus, oppure l’impiego di una soluzione di acqua ossigenata allo 0,5 per cento o di candeggina (sodio ipoclorito) allo 0,1 per cento.

Superfici che appaiono pulite
Una maniglia o il tasto di un ascensore che appaiono puliti e luccicanti possono ugualmente ospitare sulla loro superficie il coronavirus, o altri tipi di virus e batteri. Come abbiamo visto, è sufficiente che queste superfici siano state toccate da una persona infetta e che aveva le mani sporche per contaminare.

In linea di massima: un oggetto può essere contaminato a prescindere da quanto appare pulito.

Sanificazione
La pulizia periodica delle superfici nelle aree comuni, siano mezzi pubblici o uno sportello alle Poste, consente di ridurre il rischio di entrare in contatto con il coronavirus e quindi la possibilità di ammalarsi di COVID-19. Una pulizia accurata di un autobus o di un vagone della metropolitana può fare la differenza, anche se il lavoro più grande (ma non così faticoso) spetta a noi.

Lavarsi le mani
Il sistema più valido e consigliato dalle autorità sanitarie per ridurre il rischio di contagio, da coronavirus ma più in generale da qualsiasi malattia infettiva, è lavarsi spesso e bene le mani. Non servono saponi antibatterici o disinfettanti di altro tipo: è sufficiente utilizzare acqua e sapone, avendo la pazienza di lavarsi le mani per almeno 20 secondi. Lo abbiamo spiegato più estesamente qui, e con il video qui sotto.

Come lavarsi le mani in un bagno pubblico per ridurre il rischio di infezioni, secondo le istruzioni dell' Organizzazione Mondiale della Sanità (è una cosa che dovremmo imparare tutti, e non solo contro il nuovo #coronavirus)

Pubblicato da il Post su Sabato 22 febbraio 2020

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.

“Il coronavirus è arrivato all’uomo tra il 20 e il 25 novembre”: la scoperta italiana

L’Università Campus Bio-medico di Roma ha ricostruito la mutazione genetica che ha trasformato il coronavirus degli animali in un virus umano.

Ricostruita la mutazione genetica che ha trasformato il coronavirus degli animali in un virus umano, adattato cioè all’organismo degli esseri umani e capace di colpirlo. Il risultato, accessibile online e in via di pubblicazione sul Journal of Clinical Virology, è italiano e si deve al gruppo di statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-medico di Roma diretto da Massimo Ciccozzi; il primo autore è lo studente Domenico Benvenuto.

Studiando le sequenze genetiche del virus in circolazione in Cina i ricercatori ne hanno ricostruito le mutazioni fino a scoprire quella che è stata decisiva per il cosiddetto salto di specie, ossia il cambiamento che ha permesso a un virus tipico degli animali, in particolare dei pipistrelli, di diventare capace di aggredire l’uomo. “E’ stato un cambiamento decisivo, una mutazione molto particolare avvenuta fra il 20 e il 25 novembre”, ha detto Ciccozzi all’ANSA.

Come tutti i virus, anche il coronavirus SarsCoV2 “muta in continuazione e cerca di cambiare aspetto per essere in equilibrio con il sistema immunitario ospite”, ha proseguito l’esperto. Dopo quella di due proteine strutturali, la terza mutazione del coronavirus è stata quella decisiva: a trasformarsi è stata la proteine di superficie chiamata ‘spike’ (punta, spina), che il virus utilizza per aggredire le cellule e invaderle per moltiplicarsi.

“E’ stata la mutazione della proteina spike che ha permesso al virus di fare il salto di specie. E’ una proteina abbastanza conservata nella storia evolutiva del virus – ha detto ancora Ciccozzi – e questa mutazione le ha permesso di fare il passaggio dall’animale all’uomo, innescando l’epidemia umana”.

Articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/entry/il-coronavirus-e-arrivato-alluomo-tra-il-20-e-il-25-novembre-la-scoperta-italiana_it_5e5bcd28c5b6010221128b1d?ncid=other_trending_qeesnbnu0l8&utm_campaign=trending